Edizioni NOUBS. Chieti. 2002. Pp. 94. € 11,36
Luce della mia vita, amore
gioioso mi offri,
questo nostro che tra noi sia
perpetuo (L’offerta. Da Iucundum, mea vita. Catullo).
Cosa
insolita partire au rebours
nell’analisi esegetica di un testo. Ma qui credo che il metodo sia più
redditizio, filologicamente più aderente alle richieste di questa pièce, più informativo per ricavarne gli
esiti, la filosofia e gli intendimenti dell’autore. Intendimenti che emergono
dalla scelta dello stesso. Dal perché quella e non altre. Ed è qui, in questi
conosciutissimi pezzi tratti dalla classicità aurea dei nostri avi, che
troviamo già delineata l’ispirazione etico-creativa del Nostro; la sua
perspicace costanza nel rendere eternamente attuale il loro sapor vitae. E Cerio si abbandona
completamente al gusto del Bello. Al trasalimento euritmico e fascinoso del
mondo dei grandi della letteratura latina. E lo si deduce dalle traduzioni; dalla scelta e dalla passione con
cui opera. Dalla sua affezione a questa cultura e dalla volontà di trarne
spunti prodromici delle questioni umane, non mutate nella storia dell’umano
inquietarsi: l’amore, la fuga del tempo, la morte, l’esistere, il rapporto fra
noi e il tutto, il mito; e il labor
limae, e l’ars inveniendi, e la vis creativa che ne conseguono per una
penna tutta presa dal polisemico dire di quei brani (da Catullo, Orazio,
Properzio, Virgilio) che si fanno estremamente nostri. Perché partire da lì
significa avvicinarsi il più possibile all’arte di Cerio, al suo “Poema”, al
suo amore per questo tipo di letteratura.
Tanti, quindi, gli interrogativi di questo Arcipelago che è la vita; e Cerio li
vive, li medita, li metabolizza, li elabora,
con sollecitazione mnemonica, anche,
per poi tradurli con eleganza partecipativa e con forza fono-prosodica in una
versificazione attinente e generosa. Anche mnemonica, sì, perché il nostro ha
fatto del suo tesoro più prezioso, sia mitologico che classico-umanistico, un
terreno fertile per far sbocciare semi di un poièin in voci di avvincenti vaghezze semantiche. Un afflato lirico
innervato di significati mai volutamente eruditi, ma vitali, esistenziali. E
Dioniso, Sileni e Satiri, Dedalo, Icaro, Saffo Euripide, Orfeo, Euridice,
Catullo… tutti si fanno personaggi di una storia tesa a delineare gli input emotivi di Cerio. Una storia
umana, troppo umana, in cui i dubbi del vivere e dell’esistere trovano posto e
concretezza in questi voli di mitopoietica allusione; in azzardi verso
orizzonti di disumana smisura. E’ qui la
grandezza del Nostro, in questa trasfusione di reminiscenze
filosofico-culturali in palpiti di vita. Mai il percorso è pesante, mai
scontato; il verso corre limpido e liricamente fluido come l’acqua di un
ruscello alla sua fonte. Gorgoglia, pullula, singhiozza, anche, per poi acquietarsi
su un letto speculare a rive sapide di bucoliche forme. Sta proprio qui: in
questa facilità di autoptica fusione. E tutto è moderno, tutto attuale. Il
poeta sa, e lo fa ben trasparire, che il tempo fugge, e spacca le sponde per
esondare in territori vaghi e indefiniti, che inquietano il nostro essere
umani. Zone che demarcano il nostro ristretto circuito dal misterioso e
insondabile eterno disfarsi:
Io non so quanto tempo mi resta
e quanto ne occorra per dire
ancora la vitrea cascata
dei miei pensieri rimasti
nell’ombra degli anni.
(…)
Ma, o Krònos, ti prego, se
ancora ci sei,
inverti la rotta del tuo
vascello!
O tu, Artemide, guidami alla
caccia
per uccidere Krònos,
con le tue frecce avvelenate
(Krònos),
che
lo demarcano da quello spazio, imperscrutabile spazio, che non ci è dato
sondare. Ed il vivere si fa arcipelago di sogni, speranze, illusioni,
delusioni, sottrazioni; di interrogativi
irrisolti e irrisolvibili, tanto che
… la
tempesta dei nostri sogni
risuona sui fili dell’arpa
azzurra:
arcipelago di un’infinita
solitudine (L’arcipelago).
E’
questa poesia eponima che contiene il focus
essenziale della poetica del Nostro. D’altronde che cosa è mai l’esistere se
non che un continuo tendere lo sguardo oltre. E la poesia che cosa è mai se non
che il ritratto spiccicato delle nostre inquietudini, della nostra via crucis:
Tu che mi lusinghi coi tuoi
occhi,
tu che guardi i miei giorni
vaganti
per offrire certezze e
illusioni,
tu che mi attrai coi tuoi sogni
e lenta parli al mio animo
nudo,
e tu che mi tenti col silenzio,
alto, nelle notti di attesa,
più dell’oceano dei miei
pensieri:
siete l’arcipelago delle mie
illusioni (L’arcipelago).
Si
avverte anche una melanconia strisciante in questi versi che contribuisce non
poco a rendere terreno il messaggio. A trasferirlo con immediatezza al nostro
sentire. Ma anche una superba quanto dolce intrusione della natura, coi suoi
sprazzi vicissitudinali. E’ essa che si fa avanti per prendere la mano del
poeta e guidarlo nelle sue confessioni che mai sono dirette ma trasmesse
tramite forme e colori: sere terminali, meriggi spavaldi, mari sonori, rododendri,
faggi rossi, boschi selvaggi, o inquiete lontananze a morire negli ultimi resti
di un agosto. Tutte allusioni simbolico-allusive che danno forza e colore
all’articolato linguistico. E le memorie stesse rafforzano questa visione
eraclitea della vicissitudine umana. Quella memoria dove spesso ci rifugiamo
per sottrarsi alle invasioni di un presente aggressivo, o per far rivivere il
passato, qui si tramuta in precisi lineamenti esistenziali; nel tragico bianco
consumarsi della vita e del dolore:
… Tu vedi la dolcezza dell’ora
del ritorno al silenzio e al
riposo
della sera, nel profumo delle
stoppie,
l’abbandono disadorno
delle notti senza luna
e il trepido nascere dell’erba,
arcano come il primo mattino
del mondo (Memorie).
Insomma
il Nostro affronta l’esistenza in tutto il suo dispiegarsi e lo fa con versi
ora risoluti, ora dolci, ora di un bucolico sapore virgiliano, ora di un
suasivo abbandono catulliano. Ma con versi sempre robusti che arginano le
emozioni col ricorso ad un proficuo ardore di metafore, ad una plurivocità espansiva,
o a nessi di polisemica significanza. E la parola, puntuale e oscillatoria, si
adatta con misura di grande valenza etimo-fonica al dettato dell’anima. La
segue ossequiosa facendosi concreto sigillo del suo pathos. Una simbiotica fusione fra gli opposti: amore e morte,
giorno e notte, gioia e dolore, sempre e mai, che determina il cuore
dell’esserci; il polemos; o quel
senso di dismisura pascaliana fra l’essere terreni con l’anima all’oltre. Un
grande poema, però, che risolve il suo canto in un inno all’amore che s’innalza
al di là delle sottrazioni di questo spazio ristretto di un soggiorno:
… e berrò anch’io al fonte di
Epidauro
davanti alle sacerdotesse del
tempio
che cantano i cori del nostro
tempo.
Ed avrò ancora parole d’amore.
Nazario
Pardini
04/02/2014
Ninnj Di Stefano Busà
RispondiEliminaSono versi di eccezionale splendore che illuminano con soave dimestichezza i luoghi deputati all'amore. Vi è dentro la preziosità del verso tanta eleganza e il piacere della conquista, tanta raffinatezza e levigato stupore per un sentimento che è di tutti, ma che solo pochi sanno accogliere con dovizia di particolari e suggestioni ineludibili. L'amore non è semplice, ho scritto qualche tempo fa: L'AMORE S'MPARA...Nazario Pardini, da par suo, unico e inimitabile critico ne ha colto tutta la pregnanza, la validità di un percorso che è umano e al contempo sa di divino, d'infinito. ..non è un complimento - è solo una constatazione - Pardini sa dire cose, sa esprimere moti e sentimenti che restano pietre miliari. Vivi e sinceri complimenti ad entrambi.
Conosco la poesia di Umberto Cerio (anche se non questa pubblicazione in particolare) e trovo che Nazario Pardini nella sua recensione abbia compiuto - come gli è consueto- una fiduciosa e totale immersione in questo mare poetico e ne abbia tratto, con sensibilità e perizia, gli elementi caratteristici e salienti. Voglio dire che mi sono ritrovato in tutto quello che Pardini dice del poeta molisano, del quale ha colto innanzitutto il concetto base per cui il mito (e, di conseguenza il mondo antico) non è un locus in cui quietamente adagiarsi ma uno specimen che ci aiuta a leggere la vita di ieri, di oggi e di domani, a interpretarla e a viverla. Il mito, cioè, contiene in sé la possibilità di ogni esplicazione e decifrazione della vicenda umana, in quanto esso è un'ipostasi della vita, sia pure operata dall’uomo antico, semplice e primigenio; è, cioè, creazione fantastica, accensione creativa della mente umana. Perciò conserva le costante vitale della nostra condizione.
RispondiEliminaOltre a ciò, la poesia di Umberto Cerio è perfusa di forza e grazia, di sogno e visione. E non perde mai di vista il dato reale. Senza il quale non è neppure immaginabile l’atto creativo.
Pasquale Balestriere
Carissimo Nazario,
RispondiEliminacerto la tua lettura di Arcipelago è stata attenta, precisa e puntuale. La tua nota di recensione–che ho avuto la gioia di trovare “sullo scoglio di Leucade”-, ancora più attenta e puntuale, talvolta un po’ generosa, naviga su onde di sicura espansione esegetica, e vorrei dire “culta”. Non posso che dire un grazie dovuto e sincero al tuo commento ricco di sapienti intuizioni e di analisi pregevoli, che dicono, talvolta, più e meglio dei miei stessi versi. La classicità della tua recensione – se vuoi l’aderenza ad una classicità che ci accomuna, forse anche a causa di un simile percorso culturale dettato dal tipo e dal periodo dei nostri studi e della nostra simile professione, ma certamente di un simile intendere l’arte e la poesia- ci rende partecipi di una stessa assonanza e, lasciami dire, ci consente l’esecuzione di un concerto di sentire e di parole. Del resto ciò è testimoniato dalla tua/mia Leucade.
Umberto Cerio
Di fronte al disarmante nitore dei versi di Umberto Cerio, di cui conosco da tempo il nobile poièin, non c’è da stupirsi se perfino la sinuosa e navigata penna di Nazario Pardini resta come abbacinata, conquistata da tanta elegante levità e armonia, da così misurato pathos: la poesia di Umberto Cerio, infatti, sempre si risolve, anche nei momenti di più dolente malinconia, col fiducioso abbandono nella salvifica forza della parola. Una parola, bisogna dire, ancorata alla fonda pura e sempreverde della classicità, tòpos incontaminato dell’ispirazione e dell’anima.
RispondiEliminaE Nazario Pardini ha il merito di saper “leggere” in filigrana, con assoluta perizia critica e con l’abituale, sentimentale partecipazione, il mondo poetico incarnato dalla seducente parola di Umberto Cerio.
Umberto Vicaretti