Premio Il Portone, Pisa, 2011
Primo Premio
a
Rosanna Di Iorio
per la silloge
Sono cicala: mi consumo e canto
Oggi vorrei tornare ai vecchi giorni.
Al fresco verde della mia vallata.
Ai suoi giochi infiniti. A quei sentieri
che so a memoria ed oggi come un’eco
ripetono miei passi e i miei sospiri.
La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Rosanna Di Iorio è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori, nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il sapiente uso del significante metrico, combinato con le note del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità all’opera. E’ l’impiego di un endecasillabo, adattato da malizia tecnica al variare dei giochi sentimentali, a intrecciare di una costante armonia il dipanarsi dei canti. Endecasillabi che come vere cascate musicali, quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la loro fluidità, con il loro apporto lirico. Endecasillabi che nella loro varietà strutturale, nella loro complessità versificatoria, costituiscono un valore aggiunto alla cifra estetica della poesia; raffigurano, con note di spontanea creatività, immagini di una vita perduta filtrate da un soffuso sottofondo di malinconia: “Sì. Fui cicala anch’io mentre nel cielo / le rondini libravano precise.” (Cicala. Anch’io). Ed è anche l’impiego di versi ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che, per delinearsi nella sua immediatezza, ha bisogno di spazi poetici maggiori e di tecniche verbali che vadano oltre l’umano intrecciarsi del verbo. Eppure non si perde il fascino di quella musicalità insita nella parola, pur prolungando le misure : “E’ triste arrabattarsi tra le mezze verità di / quest’epoca, ostentando, sopra artefatte / soglie di cristallo, un sorriso seriale: …” (Spes). Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a se stanti, ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire; a fasciare un’anima tutta volta a dire di sé, ad un “aveu” portato a dilatarsi, se questi stilemi non costituissero un argine assai robusto per frenarne l’esondazione. E la parola fa parte di questi giochi espansivi: si articola, si adatta, si trasforma, si dilata per carpire il senso della vita; per andare dietro a un’emozione che, fra memoriale e assorbimento del reale, sembra pretendere sempre di più dalla parola stessa. D’altronde, come il poeta sa, non esiste verbo sufficiente a coprire le scansioni del sentire. Ed è proprio il memoriale a compattare la silloge, a creare quel leit motiv che ne garantisce l’organicità. Quel memoriale che l’autrice ritesse in filigrana, fa suo, rinvigorisce e riporta in vita, traducendolo in alcova dove trovare riposo, o dove trovare lo sconforto di un’assenza; ma dove i grandi sentimenti come le più piccole cose si fanno nutrimento di alta poesia: “Ti ho vestito di morbidi ideali / colorando il grigiore di giornate / tutte uguali. Ho salito assieme a te / ripidissime scale per carpire / i segreti nascosti della vita / e per scoprirvi dentro dove è il giusto.” (Le favole e i giorni. Al figlio); “A volte il tuo ricordo mi tiene compagnia. / Ritorna piano, / senza far rumore. / E ripete le favole di allora”. (A volte il tuo ricordo mi tiene compagnia. Al fratello). Il raddoppiamento del settenario nel verso iniziale rende ancora più incisiva la funzione connitivo-emozionale degli endecasillabi successivi. I grandi sentimenti, sì, le piccole cose, anche, ma sono soprattutto la coscienza degli ambiti mortali, degli spazi ristretti di un “soggiorno”, la voglia di andare oltre, o il motivo del ritorno a completare la circolarità dell’opera: “La meraviglia delle meraviglie, / il sogno; la tua grande Primavera. / Io ti ascolto e un palpito echeggiante / dolci risvegli, cedo fiduciosa / a questo imprevedibile, furtivo / caro inimmaginabile germoglio / di sogno. Puro”. (Io posseggo di te solo il sorriso) “Perché poi chi decide è quella stella / immobile lassù, senza calore. / che si specchia nell’alveo colorato / di mille fatue povere illusioni”. (Tu che non sai sorridere da tempo). Il sentimento di caducità, il senso eracliteo della vita, la morte che incombe sulle persone care e non solo. Questa coscienza della fugacità del tempo danno un sapore universale a questi versi che da soggettivi si fanno liricamente oggettivi. Ed è forse proprio questo sentimento a generare il quesito più annoso dell’uomo: a chi i nostri affetti? A quale ancora affidare il patrimonio delle nostre memorie? Ed è il sogno a simboleggiare quel desiderio di libertà che ognuno di noi cova in seno, e che mai trova appagato. “E, mano nella mano, trepidanti / interpreti di un sogno senza fine, / sfioriamo con le nostre ali di sogno / alte, segrete pagine d’immenso”. (Una favola lunga cinquant’anni. Ai genitori) Il percorso di enjambements esteso quasi ossessivamente, delinea la necessità di ampliare il sintagma, la parola, il verso, di cercare un mezzo verbale sufficiente ad equilibrare un contenuto tanto prezioso quanto esplosivo. E la cicala, le rondini, l’ultima estate, i balestrucci, il tiglio, sono tanti momenti esistenziali, tanti ambiti sentimentali, sono tante configurazioni di uno spleen intento a dare corpo ai propri messaggi interiori. E la natura sembra avvolgere tutto, rappresentata, a pennellate, da una mano che fa del panismo, antropologicamente vissuto, il fulcro del suo dire. Il sole impallidito, l’ombra pungente della sera, le sere al focolare, l’avido cielo, il cielo dal vento fatto chiaro, la luna che non dorme, l’odore di geranio, di lavanda, le rondini, il fresco verde di una vallata, rossi giacinti, primavera rimarcano il grande afflato che la poetessa prova per quelle configurazioni, che puntualmente la ripagano, diventando complici nel giuoco della sua poesia. E più ancora che di naturismo, si deve parlare, in questa silloge, di sprazzi naturali demandati ad una attenta e vissuta analisi psicologica, più che descrizione psicologica. E tutto contribuisce a rimarcare il dolore, le sensazioni, le commozioni, i rimpianti, le speranze, le delusioni nell’interazione tra l’autrice ed i personaggi. E sono questi a rafforzare non poco la concretizzazione di un pathos ora drammatico, ora silenzioso, ora quasi rasserenato, ma pur sempre attento ed in tensione nel rovesciarsi sul foglio: “Se sapessi aggrapparmi alla speranza, / se vedessi sbocciare dentro me / sempre rossi giacinti a primavera: / Allora, l’inesausto ed affamato / mio cuore pellegrino, tormentato, / tornerebbe a cantare una canzone” (Delusioni e speranze). “Ti abbraccio amore sempre più lontano. / Continuamente più vicino. Sogno / adornato di vesti profumate” (Amor de Lonh). E quanto dolore nel ricordo di un fatto, di un momento, di una scena di sangue e di terrore: “Tu nemmeno ricordi lo stupore / di quella sera. Il rito devastante / dell’orribile scena. E dello schermo / che senza sosta, infame, ripeteva / fotogrammi di sangue; il tuo perverso / sguardo incolore che frustava la rabbia / di bocche aperte a grido senza voce” (Turbe dei nostri tempi). O di un rapporto materno logorato e drammaticamente vissuto: “Lo so, non puoi ascoltarmi. Né vedere / la morsa che mi stringe nell’ignavia / dei miei limiti. Mentre tento. E spiego / l’ala del mio canto straripante e / silenzioso: ché non copra, figlia, il / tuo pallido respiro senza voce. / E riprendo a remare. Senza scopo” (Prima di partire). La punteggiatura stessa, con secche interruzioni, con segmentazioni ravvicinate, sta quasi a sottolineare un affannoso groviglio di sentimenti contrastanti che stentano ad uscire, tanta è la loro portata: una fiasca piena che rovesciata gorgoglia affannosamente. Ma tornano anche frangenti in cui un’anima delusa può ritrovare un’alcova, un amore oblativo in cui riposare lo spirito; anche il sogno lo può fare, perché no!, il sogno fa parte della vita, la vita è sogno, o può essere parte della vita : “I nostri gesti misurati si / distendono leggeri, immaginati / come fili di lana. Come in cielo / il librare di rondini precise. / E carezze e parole non più finte / tornano intense e scacciano paure.” (Io posseggo di te solo il sorriso).
L’ordito endecasillabo, con l’uso d’interpunzione a centro verso, pur dando un sapore di classicità a questa poesia, ne riceve anche una certa contaminazione di rinnovamento, di rivisitazione personale, con l’uso sapiente e particolare di enjambements (spesso a fine verso troviamo preposizioni, articoli o congiunzioni ), e con la ricerca attenta e sofferta di una parola da incastonare in un tessuto ricco e articolato, tutto volto a delineare un’anima alla ricerca di se stessa.
Le assonanze, le consonanze, le allitterazioni, l’uso di figure retoriche quali l’anafora la sinestesia, l’alternarsi di versi ora più brevi, ora più ampi concorrono a dare forza alla liricità del canto, e a quella attualizzazione che l’autrice opera con grande abilità versificatoria.
Se Quasimodo ha scritto: "Ognuno sta solo / sul cuore della terra"; se Montale ha affermato: vivere è come "seguire una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"; e se Ungaretti ha definito se stesso "uomo di pena" , anche nella Nostra sembra vincere, alfine, un senso di stanchezza e accettazione fatale (Ora, nella mia attesa disperata; / ora ho bisogno solo di silenzio.). (E riprendo a remare. Senza scopo). Ma mi piace cogliere nella sua poesia un raggio di sole che incida le nubi: credere ancora nel canto e nella vita. E Rosanna Di Iorio crede nel potere della poesia fino ad assegnarle il compito non solo di cantare l’amore, ma anche quello di amare il canto. (Fammi entrare nel tuo sogno infinito). Anche se:
Ed il silenzio in fondo al mio giardino
che custodisce trepide memorie
di ciò che non ho più. Ma grida forte
nelle mie vene.
Nazario Pardini
Arena Metato, 11/07/2011