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giovedì 18 agosto 2011

Nota al libro Isole e terre di Puttini Hall

Premio Il Portone, Pisa 2011
Secondo Premio
a
Luisa Puttini Hall
per il libro
Isole e terre

Il libro si suddivide in due sezioni: Isole e Terre. Il filo conduttore che unisce le pièces della prima sezione è l’ampia capacità di spaziare da parte della poetessa sulle estensioni dei mari. Sì!, perché proprio il mare nella sua dimensione che più si avvicina all’inarrivabile, rappresenta la voglia di fuga, onirica forse, ma fondamentalmente umana nella ricerca di andare oltre.  Ed essere baciati una sola volta dalla linea della battigia crea un’inquietudine che solo il mare può placare. La poetessa spazia: dalla Scozia, all’Irlanda, da Lesbo a Madeira, dalle Azzorre all’Arcipelago toscano, dall’Egitto al Galles … E di ogni località delinea con tratti e pennellate colorite, e polpose di acquerelli, oggetti, acque, coste, genti: la sabbia argento vivo di Andrews, il tramonto vetro di finestra dell’Irlanda, la foresta pietrificata di Lesbo, il transatlantico di luce della Ihla Do Corvo, le scale di lavagna di Tellaro, fino a Istanbul e oltre. Immagini rappresentate non solo con intento paesaggistico. Ma frammenti d’anima di una poetessa/pittrice concretizzati in affascinanti paesaggi. La Hall con il linguaggio della natura parla di se stessa; ricama il suo sentire: l’amore, la vita, la gioia, anche la malinconia in quei tramonti che staccano la luce dalle isole per creare lo stupore delle notti. O la sorpresa: “Non ti ho mai vista così / gelida sotto il sole / nudo d’inverno.” (Venezia di gelo). La seconda sezione, Terre, è più intimistica, più volta ad analizzare sentimenti e stati d’animo, meno bisognosa di sciali panoramici, ma più diretta a persone care all’autrice: Badante, Figli, A Giovanni, Mafalda, Eleonora o a Nicoletta nel giorno delle sue nozze. Ma è sempre la scoperta che anima, e irrobustisce la poesia come la vita stessa della poetessa: “Un bambino non sa / d’essere infelice / prende la vita / come la pioggia / non conosce altri cieli / Quando è grande abbastanza / riesce a vedere il sole / al di là del muro di casa / e si chiede / dove sia la porta”. (Un bambino non sa).

La struttura stlistico-metrica è articolata in diverse misure; ma sembra che l’autrice voglia far risaltare l’efficacia degli endecasillabi, facendoli precedere da versi di minore misura. E’ così che la musicalità del tessuto poetico rende, e al contempo accompagna con efficacia il dipanarsi delle sensazioni e dei sentimenti, rendendoli visivi:

“Il tramonto è un vetro di finestra / fra le case abbandonate / ai venti dell’oceano / e il papavero sfavilla senza posa / nelle crepe dei muri diroccati.”. (Irlanda).   





Nazario Pardini

Arena Metato 11/07/2011


martedì 16 agosto 2011

Salotto culturale: la pagina per amici e non, per dibattere su arte, cultura, storia, letteratura e soprattutto poesia contemporanea.





Ninnj Di Stefano Busà, Quella luce che tocca il mondo, Bastogi, 2010. Con prefazione di  E.Giachery.

Quella luce che tocca il mondo è il bellissimo titolo dell'ultima fatica di NdSB, che consta di 80 liriche articolate in tre sezioni e tramate di  versi armoniosi e ombrosi/luminosi che ancorano la poetessa di Partanna alla linea novecentista di matrice simbolista-ermetica. Questa  valutazione non si fonda unicamente su elementi formali, ma anche sui temi privilegiati dall’autrice, ad es. l’assenza (opportunamente evidenziata nella partecipe prefazione di E.Giachery) che, stante la famosa intuizione di A.Bertolucci, diventa una “più acuta presenza”. La sua è una poesia pura, che non si contamina con le vicende e le miserie terrene (“Il mondo è senza eroi/vascello che inabissa i suoi marinai”, p.36), limitandosi a sfiorarle con un semplice colpo d'ala, cosicchè risultino sublimate e riscattare per il tramite di un linguaggio prezioso e terso, dalla purezza cristallina. Secondo Montale “i poeti laureati / si muovono soltanto tra le piante / dai nomi poco usati”. L’autrice, che a buon diritto appartiene alla categoria summenzionata, non si muove solo nel regno di Flora (viburno, convolvolo, vetrici, ecc.) ma lo oltrepassa di slancio (albedo, alidore, uligine, ecc.). Insomma NdSB, si mantiene fedele alla poetica seguita nelle precedenti opere, resistendo qui come là alle lusinghe dell'antinovecentismo, delle avanguardie vecchie e nuove e del disincanto postmodernista.
Si resta ammirati di fronte a tanta perizia, affinata in un lungo corso di militanza poetica e critica, su cui si sono pronunciati i più importanti critici letterari italiani. Si resta ammirati di fronte ad un respiro lungo che, di testo in testo, svolge l’avventura dello spirito, intessuta di meditazioni, slanci, ripiegamenti e accensioni. Queste poesie si distribuiscono variamente e tendenzialmente sull'asse verticale terra/cielo e conseguentemente sulle polarità luce/ombra e suono/silenzio, ma tale distribuzione non è ovviamente rigorosa dato che deve scontare quella che chiamerei la "visione fusionale" degli elementi delle tre coppie. Le parole, come prigioni michelangioleschi, tentano di liberarsi dall'ombra per farsi ricettacolo della luce. E non vi deve essere alcun dubbio che tale luce, senza rinnegamento del fenomeno fisico, è quella della poesia “che tocca il mondo” tanto quanto “tocca al mondo”.
 Le parole che il poeta pronuncia sono sempre una sfida al silenzio che le stringe da presso. Ciò è tanto più vero in questo libro dove la parola/tema "silenzio" è talmente ricorrente che non può essere ignorata (“C’è un discorso inconchiuso / tra me e il silenzio” si legge a pag.68). NdSB sa bene che la parola poetica, anzi ogni parola, si deve giustificare di fronte al silenzio e alla sua infrazione; deve essere perciò se non una parola assoluta, almeno una parola necessaria o urgente. E di necessità e urgenza si può e si deve correttamente parlare per Quella luce. Ma neanche il silenzio sfugge all’ambivalenza generale delle cose del nostro mondo. Ora assume una connotazione negativa come stato contiguo all’ombra (“La sconfitta è rimanere / fianco a fianco nel precipizio / d’ombre, nei silenzi arresi / dell’ultima imperfezione”, p.47); più spesso è premessa di rigenerazione e di apertura alla verità (“Ti rigeneri ai riflessi di un silenzio / che ti attraversa l’anima e ti narra / i pochi istanti di verità”, p.21) o approdo finale dell’anima inquieta (“E poi spingere l’anima a quel silenzio / che spande in mille rivoli l’aurora”, p.91).
La poesia di NdSB aspira a farsi canto: ora spiegato e effuso quando è la nostalgia del cielo che lo muove, ora umbratile e dimesso quando lo sguardo si posa sulla terra. E a proposito di quest’ultimo aspetto si deve porre in risalto un naturalismo continuamente rampollante e continuamente trasfigurato dal variare degli stati d’animo del soggetto. A questo punto mi pare evidente che la cifra di fondo di questa poesia è quella di un alto, superbo manierismo elegiaco, che riconosce le proprie radici e le proprie ascendenze nella coppia Pascoli-D'Annunzio  e nel Quasimodo prima maniera.
Quella luce che tocca il mondo appartiene per molti aspetti alla categoria dei libri conclusivi, cioè di quei libri dopo i quali è difficile se non impossibile immaginarne altri, ovviamente da parte dello stesso autore. A meno che non si voglia commettere l’errore di ripetersi. Ma NdSB è una donna e una poetessa capace di qualsiasi sorpresa.
                                                                                                   Giorgio POLI








giovedì 11 agosto 2011

Nota al libro Aspetterò l'arrivo delle rondini, di Giannicola Ceccarossi

Premio Il Portone, Pisa 2011
Terzo Premio
a
Giannicola Ceccarossi
per il libro
Aspetterò l’arrivo delle rondini

Poesia complessa e al contempo lineare quella di Ceccarossi. Il titolo deriva dalla poesia eponima che introduce il testo, e che già contiene quel dolce substrato di soffusa malinconia, volta in speranza d’amore, ad intrecciare il diacronico succedersi delle pièces; poesia, dicevamo, che già rivela quelle che sono le costanti stlistiche dell’autore: la prima è l’uso sapiente di un importante significante metrico, e da lì la ricerca laboriosa, anche se fondamentalmente spontanea, del termine a vestire simbioticamente gli impulsi dell’anima: un lessico, che è frutto di un lavoro di scavo, d’intarsio, di certosina cesellatura e incastonatura: un impiego tecnico-fonico di grande impatto che affabula il lettore; la seconda la presenza di una musicalità che, anche se nascosta, quasi baudelairiana, fuoriesce da ogni dove, contestuale, dal fonema, dal sintagma, dalla parola, dai legami che intrecciano i versi, creando compattezza, e organicità dell’insieme. E l’altra, molto più evidente, l’impiego di un panismo esistenziale come rivelazione e scoperta. Esemplare la lirica  Eravamo coriandoli di cielo. In essa le ombre, i fiori recisi, i petali ruggine, i fiocchi di primavera, i mandorli impalliditi, le mani imbrattate di sole, l’alba, l’erba piegata dalla falce sono tanti segmenti di un memoriale trasformati nel tempo in una sorta d’irreale-realtà. L’autore

ha bisogno di coinvolgere la natura, farla complice, per ritrattare la sua interiorità; e gli impulsi diventano, così, più meditati in questa traduzione, argine a possibili esondazioni. Una metamorfosi quasi fisica. Un allegorismo suadente e accattivante, che non ha niente di eccessivo e complicato, ma che ci arriva, mediato, quale luce che nella speranza del poeta tornerà a dipanare le ombre. In Aspetterò l’arrivo delle rondini  tutto sembra risolversi in ombra e luce, in buio e foschia. Ma anche se un tramonto segna una fine, come gioia di pochi istanti, in Ceccarossi sembra dominare la speranza di un ricordo infinito.      


Nazario Pardini
Arena Metato, 11/07/2010

Nota al libro Nelle parole di Pierangelo Scatena

Premio Il Portone, Pisa 2011
Primo Premio
a
Pierangelo Scatena
per il libro
Nelle parole

Fin dall’inizio della sua plaquette il poeta mette in luce quelle che saranno le caratteristiche essenziali del dettato poetico. Le esprime subito nella prima lirica Le parole che siamo; perché, in fin dei conti, noi siamo parole, quelle dette, quelle non dette, le più tristi, le più felici, e quelle esatte tese a qualche meta o aperte nel futuro e infine quelle che potevamo e che non siamo stati. E cosa alimenta principalmente l’anima dei poeti, se non che  quegli interrogativi esistenziali che comportano il fatto di esistere e il destino del patrimonio delle nostre parole? Sì!, perché le nostre parole siamo noi, coi nostri dubbi, le nostre incertezze, le nostre memorie. E c’è chi le affida ad un credo religioso, chi ad un credo laico, chi ad un’isola, quale Leucade, che rappresenta la poesia, lo scoglio della dimenticanza e della vita. Ed il poeta spera che queste parole possano prolungare il loro cammino oltre l’esistenza umana: “vorrei accoglierle qui nell’illusione / che resteranno un po’ più in là di me.” Quindi il leit motiv della silloge è questo senso di fugacità del tempo, della caducità della vita, (“siamo nel tempo impronte di passaggi”), toccato da un sentimento di sottile melanconia, come un terriccio fertile a partorire versi di arrivante lettura. E quel che resta è poco: “Tutto compreso dentro il dizionario / tutto intruppato dentro le parole / ciò che in parole si squaderna e muore”. Anche la poesia, in fin dei conti, non è che serva a molto: la si scrive, perché non si ha niente da dire: “per questo scriviamo poesie”. E questo morire della luce, strappandosi dalle cose, evidenzia con efficacia il passaggio alla memoria, e dalla memoria al nulla: “Come sapremo ch’era primavera?”.  L’opera si suddivide in tre sezioni così distribuite: Le parole che siamo, Tra le parole e l’assenza, In fondo alle parole.

Lo spartito è caratterizzato da una versificazione varia e articolata: versi ora più brevi, ora più ampi, come nella lirica Il mare nel cuore; o versi in sonetti dallo spartito perfetto sotto il profilo della tradizione letteraria: Era, Sonetto dello scacco matto, Sonetto dei troppi anni. Ma a dominare il tutto è l’endecasillabo costruito con esperienza tecnica in tutte le sue complesse soluzioni. Ed è l’endecasillabo ad intrecciare il tessuto verbale con una musicalità che rende piacevole la lettura. Le fanno da supporto figure tecnico-foniche quali assonanze, consonanze, rime, anastrofi, sinestesie impiegate, con malizia poetica, a rafforzare la plasticità delle immagini.      



Nazario Pardini

Arena Metato 11/07/2011








Nota alla Silloge Un cesto di paglia...di Fulvia Marconi

Premio Il Portone, Pisa 2011
Terzo Premio
a
Fulvia Marconi
per la silloge
Un cesto di paglia intrecciata di more e di fiori

La silloge di Fulvia Marconi si snoda su un percorso che fa della musicalità la sua arma vincente. E tutto sembra demandato a contribuire alla sua realizzazione. Dalla serie di tripli trisillabi in novenari; alla serie di tripli quaternari; dall’uso di versi ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che ha bisogno di prolungamenti che soddisfino l’esondazione dell’anima; fino all’impiego di un endecasillabo che, nelle sue combinazioni, accompagna i giochi sentimentali. E sono proprio gli endecasillabi, che come vere esplosioni musicali, contribuiscono non poco alla fluidità, all’armonia del canto. Poi, a completare il panorama stlistico, l’uso di un sonetto perfettamente costruito sui parametri della tradizione letteraria; e l’uso di pièces composte di settenari filtrati da un soffuso sottofondo di malinconia. E quel cesto di more e di fiori, la sera, le fronde che impigliano un canto, la casa, i ciliegi, la luna, il profumo del mare sono tante concretizzazioni di un’anima volta a trovare se stessa nel mondo naturale. Le assonanze, le rime, gli enjambements, l’uso di figure retoriche quali

l’anafora (“Un pensiero si conficca nel silenzio / un pensiero …”), l’anadiplosi (“E mi perdo e mi dissolvo come l’onda / … come l’onda cerco e anelo una battigia, …”), concorrono a dare forza alla liricità del canto.                      

            E Fulvia Marconi crede nel potere della poesia, quasi foscolianamente le assegna il compito di vivere in eterno. Anche se:

La vita è solo un fremito celato

in quell’abbaglio che è la giovinezza,

tanto rimpianto come spore erranti

e il resto … è solo il perdersi nel tempo.


  Nazario Pardini

Arena Metato 11/07/2011








Nota alla Silloge Scacco al re, di Maria Ebe Argenti

Premio Il Portone, Pisa 2011
Secondo Premio
a
Maria Ebe  Argenti
Per la silloge
Scacco al re

Dalla lettura della silloge di Maria Ebe Argenti risalta chiara la malizia tecnico-fonica nel trattare il verso in tutte le sue varianti. A dominare il tutto è un endecasillabo nutrito di scintillanti creazioni verbali, di immagini luminose di cielo e di luce, dove i contenuti, fortemente vissuti, e dettati da un sentire immediato, spaziano toccando i vari tasti del pentagramma dell’anima. Dal Canto del ritorno, a La piccola foglia (vera impennata lirica di grande impatto per il suo accostamento all’essere e ai quesiti dell’esistere), dal Fascino di vita, a Perché questo dolore. Un tocco leggero di tristezza, ed un leggero pessimismo (terriccio fertile in questa poesia) riportano a una speranza di dare scacco al re, anche se la malinconia del cielo non è rallegrata dalla danza della natura. E la natura con le sue sottili sfumature rappresenta, metaforicamente, i vari stati d’animo dell’autrice. E’ nei suoi colori, nelle sue esplosioni estive, nelle sue decadenze autunnali, che la poetessa ritrova se stessa, ritrova la sua forza lirica: le ortensie hanno strane colorazioni, gli azzurri e i viola sfumano le rose. Questo autunno coi suoi colori stanchi, e romantici, ci chiama a meditare: “Sul sentiero di timo e di lavanda / a grandi macchie nel terreno erboso / rallento il passo e medito il riposo”.  Il registro della tessitura della silloge è immediato, comunicativo, arrivante; le assonanze, le consonanze, le allitterazioni, e le diverse figure stilistiche sono di evidente supporto alla musicalità, già insita, per natura, nel fluente dipanarsi degli endecasillabi.     


 Nazario Pardini
Arena Metato 11/07/2011


Nota alla silloge Sono cicala: mi consumo e canto, di Rosanna Di Iorio


 Premio Il Portone 2011, Pisa

Primo Premio
a
Rosanna Di Iorio
per la silloge
Sono cicala: mi consumo e canto

La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Rosanna Di Iorio è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori, nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il sapiente uso del significante metrico, combinato con le note del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità all’opera. E’ l’impiego di un endecasillabo vario e articolato a intrecciare di una costante musicalità il dipanarsi dei canti. Endecasillabi che come vere cascate musicali, quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la loro fluidità, con il loro apporto lirico. Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a se stanti, ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire.  Ed è proprio nel memoriale che l’autrice, ritessendolo in filigrana, facendolo suo, rinvigorendolo e riportandolo in vita, trova riposo, o trova sconforto di un’assenza. Questa coscienza della fugacità del tempo danno un sapore universale a questi versi che da soggettivi si fanno liricamente oggettivi. E tutto contribuisce a rimarcare il dolore, le sensazioni, le commozioni, i rimpianti, le speranze, le illusioni nell’interazione tra l’autrice ed i personaggi. E sono questi a rafforzare non poco la concretizzazione di un pathos ora drammatico, ora silenzioso, ora quasi rasserenato, ma pur sempre attento ed in tensione nel rovesciarsi sul foglio.         

L’ordito endecasillabo, con l’uso d’interpunzione a centro verso, pur dando un sapore di classicità a questa poesia, ne riceve anche una certa contaminazione di rinnovamento, di rivisitazione personale, con l’uso sapiente e particolare di enjambements (spesso a fine verso troviamo preposizioni, articoli o congiunzioni ), e con la ricerca attenta e sofferta di una parola da incastonare in un tessuto ricco e articolato, tutto volto a delineare un’anima alla ricerca di se stessa.                    

                                                                                                  Nazario Pardini

Arena Metato, 11/07/2011




Prefazione alla silloge Sono cicala: mi consumo e canto, di Rosanna Di Iorio

Premio Il Portone, Pisa, 2011 
Primo Premio
a
Rosanna Di Iorio
per la silloge
Sono cicala: mi consumo e canto



Oggi vorrei tornare ai vecchi giorni.
Al fresco verde della mia vallata.
Ai suoi giochi infiniti. A quei sentieri
che so a memoria ed oggi come un’eco
ripetono miei passi e i miei sospiri.

La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Rosanna Di Iorio è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori, nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il sapiente uso del significante metrico, combinato con le note del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità all’opera. E’ l’impiego di un endecasillabo, adattato da malizia tecnica al variare dei giochi sentimentali, a intrecciare di una costante armonia il dipanarsi dei canti. Endecasillabi che come vere cascate musicali, quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la loro fluidità, con il loro apporto lirico. Endecasillabi che nella loro varietà strutturale, nella loro complessità versificatoria, costituiscono un valore aggiunto alla cifra estetica della poesia; raffigurano, con note di spontanea creatività, immagini di una vita perduta filtrate da un soffuso sottofondo di malinconia: “Sì. Fui cicala anch’io mentre nel cielo / le rondini libravano precise.” (Cicala. Anch’io). Ed è anche l’impiego di versi ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che, per delinearsi nella sua immediatezza, ha bisogno di spazi poetici maggiori e di tecniche verbali che vadano oltre l’umano intrecciarsi del verbo. Eppure non si perde il fascino di quella musicalità insita nella parola, pur prolungando le misure : “E’ triste arrabattarsi tra le mezze verità di / quest’epoca, ostentando, sopra artefatte  / soglie di cristallo, un sorriso seriale: …” (Spes). Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a se stanti, ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire; a fasciare un’anima tutta volta a dire di sé, ad un “aveu” portato a dilatarsi, se questi stilemi non costituissero un argine assai robusto per frenarne l’esondazione. E la parola fa parte di questi giochi espansivi: si articola, si adatta, si trasforma, si dilata per carpire il senso della vita; per andare dietro a un’emozione che, fra memoriale e assorbimento del reale, sembra pretendere sempre di più dalla parola stessa. D’altronde, come il poeta sa, non esiste verbo sufficiente a coprire le scansioni del sentire. Ed è proprio il memoriale a compattare la silloge, a creare quel leit motiv che ne garantisce l’organicità. Quel memoriale che l’autrice ritesse in filigrana, fa suo, rinvigorisce e riporta in vita, traducendolo in alcova dove trovare riposo, o dove trovare lo sconforto di un’assenza; ma dove i grandi sentimenti come le più piccole cose si fanno nutrimento di alta poesia: “Ti ho vestito di morbidi ideali / colorando il grigiore di giornate / tutte uguali. Ho salito assieme a te / ripidissime scale per carpire / i segreti nascosti della vita / e per scoprirvi dentro dove è il giusto.” (Le favole e i giorni. Al figlio); “A volte il tuo ricordo mi tiene compagnia. / Ritorna piano, / senza far rumore. / E ripete le favole di allora”. (A volte il tuo ricordo mi tiene compagnia. Al fratello). Il raddoppiamento del settenario nel verso iniziale rende ancora più incisiva la funzione connitivo-emozionale degli endecasillabi successivi. I grandi sentimenti, sì, le piccole cose, anche, ma sono soprattutto la coscienza degli ambiti mortali, degli spazi ristretti di un “soggiorno”, la voglia di andare oltre, o il motivo del ritorno a completare la circolarità dell’opera: “La meraviglia delle meraviglie, / il sogno; la tua grande Primavera. / Io ti ascolto e un palpito echeggiante / dolci risvegli, cedo fiduciosa / a questo imprevedibile, furtivo / caro inimmaginabile germoglio / di sogno. Puro”. (Io posseggo di te solo il sorriso) “Perché poi chi decide è quella stella / immobile lassù, senza calore. / che si specchia nell’alveo colorato / di mille fatue povere illusioni”. (Tu che non sai sorridere da tempo). Il sentimento di caducità, il senso eracliteo della vita, la morte che incombe sulle persone care e non solo. Questa coscienza della fugacità del tempo danno un sapore universale a questi versi che da soggettivi si fanno liricamente oggettivi. Ed è forse proprio questo sentimento a generare il quesito più annoso dell’uomo: a chi i nostri affetti? A quale ancora affidare il patrimonio delle nostre memorie? Ed è il sogno a simboleggiare quel desiderio di libertà che ognuno di noi cova in seno, e che mai trova appagato. “E, mano nella mano, trepidanti / interpreti di un sogno senza fine, / sfioriamo con le nostre ali di sogno / alte, segrete pagine d’immenso”. (Una favola lunga cinquant’anni. Ai genitori) Il percorso di enjambements esteso quasi ossessivamente, delinea la necessità di ampliare il sintagma, la parola, il verso, di cercare un mezzo verbale sufficiente ad equilibrare un contenuto tanto prezioso quanto esplosivo.  E la cicala, le rondini, l’ultima estate, i balestrucci, il tiglio,  sono tanti momenti esistenziali, tanti ambiti sentimentali, sono tante configurazioni di uno spleen intento a dare corpo ai propri messaggi interiori. E la natura sembra avvolgere tutto, rappresentata, a pennellate, da una mano che fa del panismo, antropologicamente vissuto,  il fulcro del suo dire. Il sole impallidito, l’ombra pungente della sera, le sere al focolare, l’avido cielo, il cielo dal vento fatto chiaro, la luna che non dorme, l’odore di geranio, di lavanda, le rondini, il fresco verde di una vallata, rossi giacinti, primavera rimarcano il grande afflato che la poetessa prova per quelle configurazioni, che puntualmente la ripagano, diventando complici nel giuoco della sua poesia. E più ancora che di naturismo, si deve parlare, in questa silloge, di sprazzi naturali demandati ad una attenta e vissuta analisi psicologica, più che descrizione psicologica. E tutto contribuisce a rimarcare il dolore, le sensazioni, le commozioni, i rimpianti, le speranze, le delusioni nell’interazione tra l’autrice ed i personaggi. E sono questi a rafforzare non poco la concretizzazione di un pathos ora drammatico, ora silenzioso, ora quasi rasserenato, ma pur sempre attento ed in tensione nel rovesciarsi sul foglio: “Se sapessi aggrapparmi alla speranza, / se vedessi sbocciare dentro me / sempre rossi giacinti a primavera: / Allora, l’inesausto ed affamato / mio cuore pellegrino, tormentato, / tornerebbe a cantare una canzone” (Delusioni e speranze). “Ti abbraccio amore sempre più lontano. / Continuamente più vicino. Sogno / adornato di vesti profumate” (Amor de Lonh). E quanto dolore nel ricordo di un fatto, di un momento, di una scena di sangue e di terrore: “Tu nemmeno ricordi lo stupore / di quella sera. Il rito devastante / dell’orribile scena. E dello schermo / che senza sosta, infame, ripeteva / fotogrammi di sangue; il tuo perverso / sguardo incolore che frustava la rabbia / di bocche aperte a grido senza voce” (Turbe dei nostri tempi). O di un rapporto materno logorato e drammaticamente vissuto: “Lo so, non puoi ascoltarmi. Né vedere / la morsa che mi stringe nell’ignavia / dei miei limiti. Mentre tento. E spiego / l’ala del mio canto straripante e / silenzioso: ché non copra, figlia, il / tuo pallido respiro senza voce. / E riprendo a remare. Senza scopo” (Prima di partire). La punteggiatura stessa, con secche interruzioni, con segmentazioni ravvicinate, sta quasi a sottolineare un affannoso groviglio di sentimenti contrastanti che stentano ad uscire, tanta è la loro portata: una fiasca piena che rovesciata gorgoglia affannosamente. Ma tornano anche frangenti in cui un’anima delusa può ritrovare un’alcova, un amore oblativo in cui riposare lo spirito; anche il sogno lo può fare, perché no!, il sogno fa parte della vita, la vita è sogno, o può essere parte della vita : “I nostri gesti misurati si / distendono leggeri, immaginati / come fili di lana. Come in cielo / il librare di rondini precise. / E carezze e parole non più finte / tornano intense e scacciano paure.” (Io posseggo di te solo il sorriso).         

L’ordito endecasillabo, con l’uso d’interpunzione a centro verso, pur dando un sapore di classicità a questa poesia, ne riceve anche una certa contaminazione di rinnovamento, di rivisitazione personale, con l’uso sapiente e particolare di enjambements (spesso a fine verso troviamo preposizioni, articoli o congiunzioni ), e con la ricerca attenta e sofferta di una parola da incastonare in un tessuto ricco e articolato, tutto volto a delineare un’anima alla ricerca di se stessa.                    
            Le assonanze, le consonanze, le allitterazioni, l’uso di figure retoriche quali l’anafora la sinestesia, l’alternarsi di versi ora più brevi, ora più ampi concorrono a dare forza alla liricità del canto, e a quella attualizzazione che l’autrice opera con grande abilità versificatoria.

            Se Quasimodo ha scritto: "Ognuno sta solo / sul cuore della terra"; se Montale ha affermato: vivere è come "seguire una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"; e se Ungaretti ha definito se stesso "uomo di pena" , anche nella Nostra sembra vincere, alfine, un senso di stanchezza e accettazione fatale (Ora, nella mia attesa disperata; / ora ho bisogno solo di silenzio.). (E riprendo a remare. Senza scopo). Ma mi piace cogliere nella sua poesia un raggio di sole che incida le nubi: credere ancora nel canto e nella vita. E Rosanna Di Iorio  crede nel potere della poesia fino ad assegnarle il compito non solo di cantare l’amore, ma anche quello di amare il canto. (Fammi entrare nel tuo sogno infinito). Anche se:

Ed il silenzio in fondo al mio giardino

che custodisce trepide memorie

di ciò che non ho più. Ma grida forte

nelle mie vene.
                                                                                                          Nazario Pardini

Arena Metato, 11/07/2011














Prefazione alla Silloge Il filo del ricordo di Maria Ebe Argenti

Prefazione
a
Il filo del ricordo
di
Maria Ebe Argenti



Dalla lettura della silloge di Maria Ebe Argenti risalta chiara la malizia tecnico-fonica nel trattare il verso in tutte le sue varianti. A dominare il tutto è un endecasillabo nutrito di scintillanti creazioni verbali, di immagini luminose di cielo e di luce, dove i contenuti, fortemente vissuti, e dettati da un sentire immediato, spaziano toccando i vari tasti del pentagramma dell’anima. Dal Canto del ritorno, a La piccola foglia (vera impennata lirica di grande impatto per il suo accostamento all’essere e ai quesiti dell’esistere), dal Fascino di vita, a Perché questo dolore. Un tocco leggero di tristezza, ed un leggero pessimismo (terriccio fertile in questa poesia) riportano a una speranza di dare scacco al re, anche se la malinconia del cielo non è rallegrata dalla danza della natura. E la natura con le sue sottili sfumature rappresenta, metaforicamente, i vari stati d’animo dell’autrice. E’ nei suoi colori, nelle sue esplosioni estive, nelle sue decadenze autunnali, che la poetessa ritrova se stessa, ritrova la sua forza lirica: le ortensie hanno strane colorazioni, gli azzurri e i viola sfumano le rose. Questo autunno coi suoi colori stanchi, e romantici, ci chiama a meditare: “Sul sentiero di timo e di lavanda / a grandi macchie nel terreno erboso / rallento il passo e medito il riposo”.  Il registro della tessitura della silloge è immediato, comunicativo, arrivante; le assonanze, le consonanze, le allitterazioni, le rime, usate con giusta parsimonia, e le diverse figure stilistiche sono di evidente supporto alla musicalità, già insita, per natura, nel fluente dipanarsi degli endecasillabi.    

La poesia de Il filo del ricordo, quindi, si snoda su un pentagramma di note intimamente musicali, e le tecniche dell’autrice sono utilizzate con grande esperienza metrica e stilistica tanto che emerge dal canto una non comune fluidità prosodica nel trattare il verso. Ma quello che dà continuità e compattezza all’insieme è pur sempre la grande musicalità che fa da filo conduttore all’intera silloge. L’endecasillabo è trattato in tutte le sue varianti ad accompagnare i tempi dei giochi introspettivi; così ne vien fuori una evidente compattezza fra stati d’animo e versificazione: importante significante metrico che dà forza e fulgore alle impennate creative dell’opera.

Tante sono le occasioni poetiche dell’Argenti: la coscienza eraclitea dell’esistere, l’accostamento delle grandi o piccole fasi della vita alle configurazioni paniche simbolicamente esistenziali, all’amore per il mondo, per l’esistenza, per la creazione anche se una certa melanconia pervade la pièce per lo scorrere implacabile del tempo: ogni giorno è una piccola morte, come direbbe il poeta; ma è il memoriale uno dei motivi poetici di maggiore impatto emotivo.  Questo sentimento si fa ora nirvana edenico, amore oblativo, dove rifugiarsi per ritrovare riposo e sprazzi di pace soffusa, momenti di ritorno che staccano da una vita spesso troppo umana, nelle sue successioni. Ora si fa motivo di melanconia nella coscienza dell’essere e dell’esistere tanto magistralmente raffigurato in quella piccola foglia che s’abbandona alla corrente del lungo fiume in corsa verso il mare: coscienza della precarietà degli spazi ristretti di un soggiorno: “Dum loquimur fugerit invida aetas” (Q. Orazio Flacco)..  Ed è allora che l’autrice riporta a vita i grandi amori, le grandi passioni, gli scintillanti episodi ricchi di pathos, che costituiscono l’essenza del vivere. Sì, è capace l’autrice, in questa sua operazione di scavo, di ridare forma, colore, animosità a quelle immagini covate in seno. Ed è tanto forte il suo sentire, tanto vero il suo ritorno che mai scade in un sentimentalismo eccessivo, mai in un dire ovvio o scontato, perché il tutto è sempre sorretto da una robusta cifra lessico-metrica, e da un calore emotivo talmente vissuto, che il canto da soggettivo si fa universale e oggettivamente donato. “E’ troppo breve il tempo di una vita / per realizzare appieno i propri sogni /ed ottenere qualche risultato”. (La fiammella).  “Si rinnovella il cuore in un paese / ove natura svela i suoi segreti, / talmente vivo è il frutto dei frutteti / da mantenere le passioni accese, / talmente bello qui guardarsi attorno / da lievitare il canto del ritorno”. ( Canto del ritorno).

Ed è la natura, appunto, a dare supporto creativo e figurativo ai versi della poetessa: ogni immagine paesaggistica, ogni fotogramma non è mai fine a se stesso, non ha mai un semplice valore decorativo, idilliaco; ma tutto è demandato a ritrattare l’anima dell’autrice. La foglia, il sole obliquo, l’autunno, gli azzurri, i viola, la betulla, il muro grigio, il vento, l’acero, il giardino non sono altro che concretizzazioni di un sentire tanto effusivo, e impellente da contaminare una parola mai sufficiente a contenerlo. Da qui un uso costante di enjambements a soddisfare il più possibile l’esigenza di spazi per un’anima tanto straripante. E la natura è presente, offre la sua importante collaborazione, ed è ripagata dal grande amore che l’autrice le riserva: “Intanto il sole obliquo dell’autunno / parole in gran segreto mi sussurra: / vuol portarmi con sé, nei suoi tramonti / dove non ci saranno più segreti”. ( Segreti). “Quante fragranze mi ha donato il vento”. (Titolo). “Ti riconoscerò, cara betulla”.  (Dalla stessa poesia). “Mi fermo accanto al pioppo centenario / dalla chioma gagliarda e cotonosa /che un alito di vento fa vibrare / spandendo fiocchi candidi. / … / Intanto il pioppo seguita a vibrare / e s’involano i fiocchi suoi leggeri / mentre le foglie inventano una danza / per rallegrare un cielo melanconico”. (Perché questo dolore).   

Ma forse gli interrogativi più cocenti di Ebe Argenti, le inquietudini che l’umano corso si trascina dietro, confluiscono in una prospettiva tanto allegoricamente simbolica, quanto poeticamente umana e umanamente trascendente: “ma la mia linfa, che apportò alimento / a fioritrure prospere e longeve, / dovrà salire a quegli spazi eterni / oltre i cieli più alti di quel cielio / ancora tanto gravido di neve…” (Quante fragranze mi ha donato il vento).

      E chiudere con la motivazione da me stilata per la Silloge Il filo del ricordo  al Premio Il Portone dell’anno 2010 contribuisce senz’altro a dare un’idea ancora più consona sulla continuità della cifra poetica della Nostra.

"Come dal titolo è il memoriale a costituire il leit motiv della silloge di Maria Ebe Argenti. Ricordi che ora più sottili, ora più esplosivi tornano a farsi vivi per concretizzarsi in fertili paesi, in parti di cielo, in cigolare di catene, in orti stesi al sole, in impasti a lievitare. E l’autrice rivuole la sua parte di vita, passata troppo in fretta: “rivoglio il cigolare di catene / nel sollevare il secchio dal profondo / con il suo traboccare d’acqua fresca / e placare dell’Anima la sete”". Si fanno vive le cose semplici che magari un tempo non apprezzavamo, ma che ora tornano fasciate da un alone di nostalgia a nutrire, in forma di immagini sacre, il serbatoio della poesia: “Era il profumo delle cose semplici, / del caffellatte caldo nella tazza, / del pane abbrustolito sulla stufa / a riscaldare l’aria dell’ambiente / un’aria che sapeva di carezze / e di felicità fatta di niente”. I contenuti fortemente sentiti e metabolizzati in quadri di grande spessore lirico sono supportati dall’impiego di endecasillabi fluenti e suasivi.

Nazario Pardini

Arena Metato 05/08/2011      






Prefazione alla Silloge Un cesto di more e di fiori di Fulvia Marconi


Prefazione
a
Un cesto di more e di fiori
di
Fulvia Marconi


Un cesto di paglia intrecciata,

farcito di more e di fiori,

compagno di gaie escursioni

nel tempo del gusto alla vita.



La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Fulvia Marconi è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori, nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il sapiente uso del significante metrico combinato con le note del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità all’opera. Dalla serie di tripli trisillabi in novenari a ritmare la calda intensità memoriale dell’autrice [“Cascine dai muri sconnessi / e l’erba spaccava le pietre, / i piccoli piedi giocosi / nascosti da zoccoli grandi.” (Un cesto di more e di fiori)]; alla serie di tripli quaternari a sollecitare una cadenza/involucro di un’immagine “che mi avvolge, non si arrende, non mi lascia…”  [“Un pensiero si conficca nel silenzio, / un pensiero dal colore dei suoi occhi…”(Un pensiero dal colore dei suoi occhi); dall’uso di versi ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che, per delinearsi nella sua immediatezza, ha bisogno di spazi poetici maggiori e di tecniche verbali che vadano oltre l’umano intrecciarsi del verbo; all’impiego di un endecasillabo, frutto di una malizia tecnica, che lo sa adattare, nelle sue combinazioni, al variare dei giochi sentimentali. Endecasillabi che come vere cascate musicali, quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la loro fluidità, con il loro apporto lirico. Endecasillabi nella loro varietà strutturale, nella loro complessità versificatoria, a costituire un valore aggiunto nel contesto dell’opera. Poi, a completare il panorama stlistico, l’uso di un sonetto perfettamente costruito sui parametri della tradizione letteraria; e l’uso di pièces composte di settenari a raffigurare, con note di spontaneità creativa, immagini di una vita perduta filtrate da un soffuso sottofondo di malinconia: “Veglia quel cielo stanco / il colle mesto e il poggio, / dove illusione è vita / dove la vita … illude!” (Dove la vita illude). Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a sé stanti, ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire; a fasciare un’anima tutta volta a dire di sé, ad un “aveu” portato a dilatarsi, se questi stilemi non costituissero un argine assai robusto per frenarne l’esondazione. E la parola fa parte di questi giochi espansivi: si articola, si adatta, si trasforma, si dilata per carpire il senso della vita; per andare dietro a un’emozione che, fra memoriale e assorbimento del reale, sembra pretendere sempre di più dalla parola stessa. D’altronde, come il poeta sa, non esiste verbo sufficiente a coprire le scansioni del sentire. Ed è proprio il memoriale a compattare la silloge, a creare quel leit motiv che ne garantisce l’organicità. Quel memoriale che l’autrice ritesse in filigrana, fa suo, rinvigorisce e riporta in vita, traducendolo in alcova dove trovare riposo, o dove trovare lo sconforto di un’assenza; ma dove i grandi sentimenti come le più piccole cose si fanno nutrimento di alta poesia, ; “Respiro ancora fresco il tuo profumo, / che m’accendeva di vigore il petto.” (Il sole si rifugia ad occidente); “Si condensa nel silenzio il suo ricordo, / la memoria poi mi assilla e mi tortura, / e cancello sopra me quel cielo perso / confidando il mio sconforto a “questo verso””. (Un pensiero dal colore dei suoi occhi). I grandi sentimenti, sì, le piccole cose, anche, ma sono soprattutto la coscienza degli ambiti mortali, degli spazi ristretti di un “soggiorno”, la voglia di andare oltre, o il motivo del ritorno a completare la circolarità dell’opera: “Ma forse, fra le nuvole impazzite, / diamanti e stelle brilleranno ancora / e al soffio di sbandate brezze estive, / forse confusa … riuscirò a volare”. (Riuscirò a volare) “L’esistenza è quell’attimo solo / che imprigiona la vita a promesse; / piedi scalzi e speranze al calare / … sul sentiero odoroso di mare”. (Un sentiero odoroso di mare). Ed è forse proprio il mare a simboleggiare quel desiderio di libertà che ognuno di noi cova in seno, e che mai trova appagato. E quel cesto di more e di fiori, la mia sera, le fronde che impigliano un canto, la casa, i ciliegi, la luna, il profumo del mare sono tanti momenti esistenziali, tanti ambiti sentimentali, sono tante configurazioni di uno spleen intento a dare corpo ai propri messaggi interiori. E la natura sembra avvolgere tutto, rappresentata, a pennellate, da una mano che fa del panismo esistenziale il fulcro del suo dire. I tramonti, il vento, la fragranza di un giorno d’estate, l’antica siepe, la neve “troppo” bianca rimarcano il grande amore che la poetessa prova per quella natura, che puntualmente la ripaga, diventando complice del giuoco della sua poesia.              
            Le assonanze, le rime, gli enjambements, l’uso di figure retoriche quali l’anafora (“Un pensiero si conficca nel silenzio / un pensiero …”), l’anadiplosi (“E mi perdo e mi dissolvo come l’onda / … come l’onda cerco e anelo una battigia, …”), concorrono a dare forza alla liricità del canto.
            Se Quasimodo ha scritto: "Ognuno sta solo / sul cuore della terra"; se Montale ha affermato: vivere è come "seguire una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"; e se Ungaretti ha definito se stesso "uomo di pena" , anche nella Nostra sembra vincere, alfine, un senso di stanchezza e accettazione fatale (“mi poso ormai stanca ed accetto la sorte”).   Ma mi piace cogliere nella sua poesia un raggio di sole che incide le nubi: credere ancora nel canto e nella vita. E Fulvia Marconi crede nel potere della poesia fino ad assegnarle il compito non solo di cantare l’amore, ma anche quello di amare il canto. Anche se:

La vita è solo un fremito celato

in quell’abbaglio che è la giovinezza,

tanto rimpianto come spore erranti

e il resto … è solo il perdersi nel tempo.



Nazario Pardini

Arena Metato 11/07/2011