Artigianato sentimentale di
Gabriele Borgna
Puntoacapo Editrice, 2017
Lettura
di Annalisa Rodeghiero: IL MESTIERE DI SCRIVERE
|
Annalisa Rodeghiero, collaboratrice di Lèucade |
È dunque un
mestiere quello cui allude il titolo, un mestiere del cuore se è in esso che
risiede il sentimento.
A questo,
infatti, mi fa pensare il titolo dell’opera d’esordio di Gabriele Borgna, dove
per mestiere mi piace intendere quel genere d’attività cui l’artigiano si
dedica con fantasia e passione e che lo porta a forgiare oggetti preziosi,
perché frutto di un lavoro coordinato tra l’ingegno e le mani.
Ma qui il
prodotto non è oggetto da esporre e da mettere in vendita bensì materia
d’ordine superiore, qui si tratta di poesia. Poesia “del sentimento”, termine
che origina dal verbo sentire e non
si allude tanto a un sentire del pensiero ma a una percezione interiore dell’essenza
delle cose. Ecco perché posso dire di aver riconosciuto fin dai primi versi l’autenticità
nella poesia di Borgna.
È poesia del
sentimento dei sentimenti, è poesia d’amore. Un amore a tutto tondo che trae
nutrimento dall’aspra terra ligure: Pare
di scorgere il firmamento/ intero scivolare sulle durezze/ di questa dalia
minerale, / dedalo di crinali e muri di scogli, per poi innalzarsi ad
accogliere e cantare la sua donna: Atollo
del bene, terra/ per tutti nei naufragi e il figlio non ancora nato ma già
percepito come il rovescio del nulla, /
il volto di un bene intraducibile/ che tiene tutto in sé e/ tutto, tutto
ricapitola. Colpisce immediatamente la bellezza formale dei primi versi
citati in cui il poeta si avvale anche dell’uso di un efficace enjambement: firmamento/ intero; ma ad incantare qui,
a mio avviso, è soprattutto, l’intensità della parola, che non nasce dalla
parola ma da un sentire interiore, profondo, universale.
Continuiamo
dunque a riflettere su questa parola d’amore. Si tratta di un amore che irrompe
nelle prime poesie come impasto totale di spirito e materia: Amore, / su di noi non neve/ cade ma farina
bianca/ che il pensiero amalgama/ e nel tuo nome lievita. Dell’immensità e
della continuità di questo amore Gabriele è pienamente consapevole e lo
dimostra nella splendida dichiarazione: Io
per te sarò un oceano, un eterno/ flusso senza fine, dall’onda lunga… (altro
stupendo enjambement). E subito si percepisce il bisogno di rivelare la gratitudine
per l’amore ricevuto, nella chiusa sublime di Tesoro mio:
Ma più d’ogni altro tesoro
vale il clima nuovo che dài,
la brezza che rinnovi,
il senso della vela per il viaggio
che ha rotta nel tuo nome.
Questo amore
intenso ha ancora più valore, in quanto sembra essere una conquista recente e
forse, inaspettata: e tu, sei giunta a
Natale/ come il più bello dei doni. E allora accade, che dopo aver letto i
versi sopra riportati, il lettore, ancora altri ne vorrebbe della stessa
intensità e bellezza, ma la scena sembra troppo presto capovolgersi, come se il
poeta avesse scritto quei versi volgendo lo sguardo indietro, a ricordare un
recente nòcciolo duro di solitudine (Apri
il tuo cuore/ o nessuno ci entrerà) e d’insoddisfazione, manifesta nella fugace gloria di un’estate/ nata già morta
di troppo autunno e dove s’intravede
appena la feroce/ bellezza sfiorita nel composto/ duello con l’indifferenza e
ancora nei versi amari in chiusa della lirica Foglie: Vai, vai anche tu/
come le foglie vanno.
Ed è da questa
precarietà che nascono i tanti interrogativi che Gabriele si pone e che
sappiamo essere una prerogativa dei poeti. Interrogarsi, è il loro modo di
esistere, in questo universo che quanto più rivela, tanto più, poi si espande,
allargando sempre orizzonti altri, allo sguardo che mai si stanca di cercare
nuove verità. S’interroga, Gabriele e invita il lettore a seguirlo in un
susseguirsi di domande, volutamente prive di risposta: Ma contro chi/ pensi di trionfare? e ancora: - Dopo la stazione, cosa? E per citarne
un’altra tra quelle che ritengo più significative nel libro: Ma tutto ciò –poi- per quale amore? E
infine, profondissima: Ma cosa provo,
ora, mentre esisto?
Domande poste
come incipit in alcune poesie o come splendide chiuse, in altre.
È normale, in
fondo, che dall’interrogativo si possa partire (pastore d’intime ombre / con la bocca
cariata / alla base del cuore) o all’interrogativo si possa giungere nel
vagabondare d’anima e di pensiero. È sprofondando nella sofferenza: Il mio dolore è una pietra, / un pianeta
senz’orbita, è attraversando passioni effimere, vuoti sovrapposti e rimorsi, che si possono, infine, apprezzare
pienamente nuove scoperte: I tuoi fiori
delicati/ rieducano le mani/ a carezze più vere.
Infatti, per
l’inevitabile ciclicità della vita, mentre
qualcosa dentro scivola, degrada, mentre qualcosa dentro muore, uno sguardo nuovo si apre con implacabile chiarezza:
Su questa panchina,
in questo abbraccio
principio e termino
con implacabile chiarezza.
C’è uno sguardo nuovo
in questi occhi stanchi.
E nessun senso ulteriore.
Questi gli ultimi
versi di Piazza Chiesa Vecchia (au
Portu), a conferma che è la sua terra, dove il vento è il suono del cosmo, dove si sente l’odore del silenzio attraverso raggi di luce, a riporta(rlo) per mano agli albori dei sogni
di sabbia e la natura parla aiuta(ndolo)
a impiccare ogni/ singola afflizione ai fili/ delle stese, educate all’inchino/
duro dalla tramontana.
Dalle radici
quindi origina la forza interiore di Gabriele, dal solco tracciato dai grandi
poeti di quella terra, origina la sua intensa poesia, spiccatamente sua ma
ancorata alla tradizione. Questo l’intento che si percepisce dai suoi versi e
dalle parole rilasciate in una recente intervista a Rai Tre Regione Liguria, nell’ambito della rubrica Libriamoci.
Non a caso, ha
scritto di lui Giuseppe Conte, prefatore del libro: “Oso dire che Sbarbaro e il
giovane Montale sarebbero stati contenti come lo sono io di leggere versi
così.”
Così, come a me è
accaduto leggendoli e scrivendone.
Annalisa
Rodeghiero