Doxa ed Epistéme
Franco Campegiani
Ha scritto Marcel Proust, ne Il
tempo ritrovato: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera
dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al
lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe
forse visto in se stesso”. Un pensiero, questo, che Davide Rondoni ribadisce ne Il
fuoco della poesia: “Quando
si ascolta una poesia di Leopardi o di un vero poeta, non ci si commuove per la
vita di lui, ma per la propria”. Quello che ci interessa realmente, attraverso
la lettura, è di capire chi siamo noi. L’opera pertanto, se
genuinamente creativa, non stabilisce
una relazione del fruitore con l’autore, ma del fruitore con se stesso. E in
fondo ciò riguarda lo stesso autore, come primo fruitore di quello che lui
stesso scrive.
Non dice nulla –
l’opera – della biografia, della personalità esteriore di colui che la scrive
(né di colui che la legge), bensì dell’uomo che, nell’interiorità profonda, è
ciascuno di noi. Tanto più si può capire un autore, quanto più quell’autore si
eclissa dietro ciò che scrive (o dipinge), lasciando che l’opera faccia da
specchio per il fruitore, specchio dove costui possa vedere riflesso qualche
segreto e ignoto aspetto di sé. Paradossalmente ciò impone allo stesso autore
di scrivere (o dipingere, scolpire, eccetera) solo per se stesso, per la
propria festa spirituale. L’arte non parla infatti a tutti, ma al cuore di ognuno,
a partire da quell’ognuno che in primis l’autore stesso è. Sta qui l’universalità dell’arte e della poesia,
la sua capacità di superare il particolarismo, l’intimismo, eccetera.
Non è sufficiente sostituire l’Io con
il Noi per ottenere un livello più
universale della scrittura. Il Noi non
offre alcuna garanzia di universalità, visto che è pur sempre una delimitazione
soggettiva. Universalità non è
sinonimo di totalità. La Divina
Commedia non è
universale perché ottiene il consenso di tutti, o di molti, come in un’elezione
politica, ma perché riesce a toccare le corde più intime del singolo, nella sua
interiorità. La comunicazione poetica
pretende questa comunione profonda, e
ciò non può avvenire ai livelli superficiali dell’Io o del Noi, dove il
soggettivismo la fa sempre e comunque da padrone. E’ necessario che l’ego ponga fra parentesi se stesso per
fare spazio all’alter ego
(anticamente la Musa ), immerso nel
flusso misterioso dell’Essere e della vita.
Occorre, in altri termini, che l’Io riesca a trascendersi, facendo
spazio al Sé, all’essenza universale che dimora dentro di sé. E’ questa la modalità
della comunicazione artistica, dove il primo anello della catena relazionale è
costituito dalla comunione dell’autore con se stesso. Se si salta questo
anello, va in pezzi l’intera catena, in quanto la comunicazione diviene
inautentica. E se ciò può essere accettabile nell’eloquio convenzionale, non
può assolutamente esserlo nel linguaggio creativo, dove ad esporsi sono le
regioni più profonde del nostro essere, che impegnano la nostra autenticità, la
nostra universalità, la nostra verità.
Ciò capovolge l’antico pregiudizio greco, di cui è permeato
l’intero tessuto della nostra civiltà, secondo cui la poìesis, il mythos,
sarebbe il campo per eccellenza del soggettivismo umano, mentre l’epistéme, la verità, si manifesterebbe
nel logos, peraltro confuso con
l’intelletto razionale. Il mio punto di vista si trova agli antipodi di questo
assioma, le cui formule non credo fossero nelle corde del substrato più arcaico
della grecità, che fu profondamente misterico prima dell’insorgere del pensiero
metafisico. Io ritengo che le cose si diano così come sono al nostro
intelletto, senza manipolazione alcuna, soltanto nell’attività mitopoietica, ovvero nel mito allo stato
sorgivo (ovviamente non parliamo di mitologia,
dove il mito si presenta decaduto a favola ripetitiva).
Ha scritto Umberto Galimberti ne “Le origini della filosofia greca”, primo
capitolo della “Storia del pensiero
occidentale” diretta da Emanuele Severino (Armando Curcio Editore): “Nel raccoglimento del logos, l’uomo, con la sua parola, dice
come le cose nella loro esposizione si danno. Mentre nel mito le cose sono
usate per dire il vissuto dell’uomo, nel logos
sono lasciate essere così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin). La parola poiéin in greco significa “produrre”. Da poiéin deriva la parola poìesis
da cui la nostra poesia. La poesia, di cui si alimenta il mito, è una
produzione di significati che non lascia parlare le cose come sono, ma impone
alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose,
ma ciò che l’uomo impone alle cose, in altri termini è la violenza poetica sul
contenuto quale si dà. La filosofia rappresenta il tentativo riuscito di
liberarsi da questa imposizione… La parola greca che nomina l’imporsi di ciò
che ha la forza di farlo senza ricorrere alla manipolazione poetica è epistéme”.
Non mi trovo d’accordo con questa
impostazione di pensiero. Quando Eraclito nomina la maestà del logos, contrapponendolo al favolismo
della mitologia, in realtà non fa che
esaltare la potenza della mitopoiesi,
che allo stato sorgivo non manipola un bel nulla, in quanto è totalmente nelle
mani del logos, quando questi si
affaccia negli orizzonti dell’intelletto umano. Sta qui l’ispirazione delle
cosiddette Muse, qui il carattere
universale della poesia (e dunque epistemico, se epistéme significa “ciò che sta sopra”). La ragione dell’uomo è
sempre schematica, pretestuosa, partigiana. Essa tende a distinguere, a
dividere, a separare, per cui resta costituzionalmente impermeabile
all’universalità. Nel particolarismo sta la sua più vera
natura. Essa è sempre e comunque doxa
(opinione), e vano risulta qualsiasi tentativo di trasformarla in epistéme.
E’ giunta l’ora di dire che non c’è
nulla di universale nella ragione umana, per sua natura settaria, mentre
l’universalità prende corpo esclusivamente nella mitopoiesi, nel mythos,
ossia, non ancora decaduto a mitologia.
Ciò che è costruito, prodotto, manipolato dall’uomo è frutto del suo intelletto
razionale, non certo frutto di quella verginità dell’intelletto, aperto verso
il logos, che è invece tipica della mitopoiesi creativa. E’ certamente vero
che la poìesis (da poièin, fare) impegna la sfera dell’agire
umano, ma occorre distinguere il fare
dallo strafare: l’azione secondo
natura (cosmocentrica), dall’azione (antropocentrica) dettata dall’intelletto
razionale. L’uomo diviene creativo nel momento in cui pone le mani in pasta nei
processi creativi del creato. E’ quello il momento in cui si lascia veramente
ispirare dal logos, che è
intelligenza pura, aschematica, fuori dai pregiudizi e dalle gabbie della
razionalità.
Non è vero che lo sguardo del
mitopoieta si distragga nelle variazioni del molteplice, che si perda nella
frivolezza del mondo esteriore. Egli, al contrario, ha sguardi tutti puntati
sull’unità del molteplice (o, se si preferisce, sulla molteplicità dell’uno).
Ciò che gli interessa è di immergersi nel mondo fenomenico per prendere
contatto con la radice stessa da cui la vita viene. E’ la cosa in sé a catturare le sue attenzioni: quell’inseità, quella verità, che giustamente Kant ha dichiarato inaccessibile alla
ragione umana. E tuttavia, con buona pace di Kant, sarebbe ora di comprendere
che la cosa in sé non può più venire
ignorata. Oggi, più che mai, occorre ristabilire un
contatto con le profonde radici dell’Essere (che è poi l’Essere che noi stessi
siamo), dando corpo ad una nuova spinta mitopoietica,
di inusitate ed inedite proporzioni. Solo così potremo tentare di uscire dall’impasse culturale in cui ci troviamo.
E sarebbe opportuno avvertire Wittgenstein che non
tutto il linguaggio è tautologico o convenzionale, perché l’uomo ha la
capacità, a seconda delle esigenze, di pensare non soltanto in fotocopia, ma
anche in originale. Quando si abbandona alla mitopoiesi, egli davvero
pensa ed opera in originale, giacché il pensiero che gli viene dall’oltre (che è poi l’oltre di se stesso)
non fa che nominare per la prima volta il mondo. Al di fuori di questo dire non c’è davvero nulla da dire,
giacché c’è solo il detto e ridetto,
o come suol dirsi il fritto e rifritto,
utilissimo nella vita pratica, ma distante dalla vita reale, dalla vita delle
origini, dove tutto è assolutamente originale. Socrate parlava di maieutica, ovvero dell’arte
di far partorire, di tirar fuori (ex-ducare)
ciò che nell’individuo esiste già come valore.
Ci sono valori innati nell’uomo, che
soltanto l’attività mitopoietica, la
cultura creativa, ha il compito di rintracciare. Naturalmente non parlo di spontaneismo, ma di una facoltà
anamnestica, autoanalitica, capace di riportare in vita valori totalmente
dimenticati. Non dunque di una memoria, privata o collettiva, che conserva e
tramanda eventi del passato. I valori innati appartengono ad un passato ancora
più remoto, totalmente rimosso e caduto in oblio. L’innatismo dà voce ai principi che vengono dall’oltre (che è poi l’oltre di se stessi),
mentre lo spontaneismo, con la
variante dell’intellettualismo, dà
voce ai pregiudizi costruiti nel
laboratorio storico-culturale.
Si sbaglia a credere che nell’intellettualismo ci sia problematizzazione:
quella facoltà critica, ossia, che si ritiene fuori dagli orizzonti creativi,
qualora si pensino ispirati dalla Musa. C’è un immenso lavoro da fare su se stessi
affinché appaia la Musa.
Questa , infatti, non è altro che un particolare volto o
aspetto di se stessi, non ancora conosciuto. La vera attività critica risulta
pertanto essere strettamente connessa con l’attività creativa, mentre nell’intellettualismo non si dà alcuna
problematicità, giacché si viaggia a senso unico sul terreno dell’acquisito.
Soltanto l’originalità è problematica, in quanto ha bisogno di essere corteggiata
per concedere le proprie grazie e le proprie attenzioni. Colui che non coltiva
le origini (le proprie origini), non ha un pensiero proprio, autonomo, ossia un
pensiero problematico, lungamente sofferto e meditato, ma un pensiero duplicato
su quello altrui.
Franco
Campegiani
Questo saggio sulla Poesia, sull'arte, e, per essere precisi, sul rapporto fra autore e fruitore, è una diagnosi linguistico-speculativa veramente autorevole e convincente. L’autore frequenta la parola con una scioltezza e una padronanza filosofico-estetica tali da creare invidia. Che eleganza!, che assennatezza!, quale intarsio di citazioni ben appropriate ed eloquenti! Ed è sempre la teoria filosofica di Campegiani in primis, la sua coerenza sulla storia dell'uomo, sulle sue origini, e il suo fieri, ad emergere e a dare consistenza a questa trattazione: "Universalità non è sinonimo di totalità". Che profondità di pensiero! Quale puntualità filologica, e storiografica. Lo scritto è da manuale. E' da proporlo a scuola come esempio di tracciato sul tema dell'arte e della comunicazione poetica: “E’ necessario che l’ego ponga fra parentesi se stesso per fare spazio all’alter ego (anticamente la Musa), immerso nel flusso misterioso dell’Essere e della vita". Cultura vasta, da vendere. Spesso si scrive con tanti bla bla bla. Senza elementi dimostrativi alla mano. E' un po' la superficialità e il male dei nostri tempi, adducendo come scusa che "siamo viandanti sperduti" (Cardarelli). Il fatto sta che siamo sperduti anche perché mancano le sostanze utili, mentre abbondano quei disvalori in cui sguazziamo. Cultura vasta, quindi, ma anche, e, soprattutto, spiccata personalità nell'utilizzo delle molteplici citazioni non a uso di una becera sapientia vocis, ma perché finalizzate ad una dimostrazione organica, e autentica per vivacità intellettiva. Questo è il metodo. Non deve essere campato in aria o approssimativo. Ma basato su dati di fatto che convergano verso l'enunciato. Basta, e non è poco, citare il passo che tratta la differenza fra mythos e epistéme, fra mitopoitetica e mitologia, per constatare, soprattutto per chi conosce le teorie di Campegiani, la grande coerenza del tuo dire; e quella conclusione che si staglia in alto, quasi come regola umanamente umana e infinitamente saporosa di Poesia: “Colui che non coltiva le origini (le proprie origini), non ha un pensiero proprio, autonomo, ossia un pensiero problematico, lungamente sofferto e meditato, ma un pensiero duplicato su quello altrui” è una chiusa da ciliegina sulla torta.
RispondiEliminaNazario Pardini
Quando scrivevo poesia sperimentale avevo la presunzione di toccare qualcosa di profondo, di archetipico, e dare, nel mio scritto, al fruitore qualcosa di suo, non certo di mio. Nella postfazione al mio primo libro, siamo nel 1992, scrivo quanto segue: "Esulando dai significati acquisiti, infatti, si può sperimentare la riesumazione del significato primordiale dell’insieme suono-ritmo, reinstaurando un rapporto fisiologico tra uomo ed espressione fonetica". Per significati acquisiti intendo ciò che gli anni, gli studi e le esperienze hanno costruito intorno ad un evento specifico. Ma ahimé, ciò che per me evoca piacere, o paura, non è detto che evochi piacere, o paura, in chi mi è vicino, quindi il significato acquisito è puramente personale. Ma vi è un altro significato, profondo e misterioso, che non è acquisito, che scava nella nostra fibra animale e animata, che fa che l'anima si manifesti attraverso messaggi che noi, spesso, rifiutiamo, perché imprevisti e irrazionali. Quei significati non li trova il raziocinio, semmai li evoca l'arte. Pensate a una sinfonia, cosa c'è di più inutile? Eppure, quante volte ci capita di sentire un volo di farfalle nella pancia ascoltando la nostra sinfonia preferita... e quante volte ci succede di sorprenderci con un'esecuzione diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare...
RispondiEliminaQuel momento, quella sorpresa, quella magia inutile, è pur sempre imprescindibile. Che faremmo senza quelle sensazioni?
L'autore della sinfonia non l'ha certo composta per farci sentire quei brividi, ma perché cercava i suoi brividi, e li ha trovati toccando le fibre più intime della sua verità, la verità che non si spiega con significati acquisiti, quindi ha esplorato il mistero della creazione, ed ha creato un nuovo mistero, che ha la virtù far esplorare, al fruitore, un suo mistero.
Così la poesia, quella vera, quella che evoca... l'autore ha avuto l'intuizione creativa, ci ha lavorato sopra, cercando il pozzo senza fondo che ha dentro e che non trova mai, poi questa ricerca ha preso forma ed è diventata un insieme suono-ritmo, che evoca nel fruitore qualcosa che non è dell'autore, ma del fruitore. Ecco il miracolo del linguaggio artistico e creativo.
Come ancora scrivo nella post-fazione "...vi è bensì il risultato di una intima ricerca del suono proprio e consono dello spirito, introiezione – quindi – che sfocia in comunicazione da cui il fruitore trarrà qualcosa di proprio e non dell’autore...."
Basta, mi sono troppo autocitato... saluto tutti con un abbraccio
Claudio
Carissimo Nazario, quando compongo un saggio o una poesia, sono sempre molto incerto sul risultato, ma le tue lusinghiere parole mi rinfrancano ed hanno il potere di sfaldare ogni nebbia. Ne sono fortemente incoraggiato. Nel tuo commento hai centrato il bersaglio: l'universale risiede nel profondo, non nella superficie. Bisogna pertanto sapersi trascendere. Non per vedere miraggi nel deserto, ma per tuffarsi nel cuore e nel centro di se stessi, della propria più alta, autentica ed autonoma persona. Ti sono grato, Nazario, non soltanto per avere ospitato questo saggio nel tuo prestigiosissimo blog, ma anche per la chiarificante maestria con cui lo hai interpretato e posto per i tuoi (nostri) attenti lettori.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Carissimo Professor Nazario,
RispondiEliminaseguo Franco da moltissimi anni e dire che mi sento discepola della sua dottrina mi sembra a dir poco riduttivo. Nel saggio "La teoria autocentrica", che il nostro amico
completerà, perché è ricco di nuovi spunti e di idee rivoluzionarie nel campo etico - filosofico, Egli mette in risalto il valore della creatività, che in questo splendido articolo paragona a 'una sinfonia', a qualcosa che trascende l'intelligenza e la percettività e che Franco definisce 'facoltà anamnesica, capace di riportare in vita valori dimenticati'. Qualcosa di molto più profondo dello 'spontaneismo', che riporta alle radici del nostro vivere, alla mitopoiesi, sulla quale il nostro amico tanto insiste, in quanto consente di volgere lo sguardo alle origini, di nascere nuovi, ricorrendo all'arte che il caro, vecchio Socrate definiva 'maieutica', ovvero arte di partorire ogni giorno ciò che nell'individuo esiste sin dalle origini.
La tesi del nostro Amico è la radice della nuova filosofia, quella che caratterizza e sempre più caratterizzerà il Terzo Millennio...
Leggere il suo brillante articolo e le risposte Sue, carissimo Professore e del caro Claudio Fiorentini, è stato un modo per salire nuovi gradini di conoscenza e ve ne sono infinitamente grata! Maria Rizzi
Sono davvero grato a Maria Rizzi, anche se non so fino a qual punto queste idee possano venire recepite dal Terzo Millennio, e sinceramente mi sembra esagerato pensarlo. Io non m'illudo su questo punto, ma concordo con lei nel ritenere oramai indispensabile un certo risveglio nelle conoscenze e nei valori universali. A tal proposito, mi giunge assai caro il chiarimento di Claudio Fiorentini a proposito dell'equivalenza tra ciò che è archetipico e ciò che è strettamente interiore o profondamente personale. Ringrazio entrambi con slancio ed effusione.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Il terzo millennio, caro Franco, non è poi tanto male. Io dico che le idee possono venir recepite tanto quanto nel secondo, se non di più... i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione sono tanti, molti sono efficaci, altri sono dispersivi. Credo che la capacità di recepire un messaggio dipenda dalla capacità di ben utilizzare i mezzi di comunicazione, e mi sembra che questo Blog sia un ottimo mezzo. Comunque, caro Franco, le idee vanno usate, vanno consumate, vanno vissute, tanto ne vengono sempre altre, le idee non finiscono mai... se vengono usate fanno una strada tutta loro, se non vengono usate rimangono lì e fanno da tappo alle altre che ancora non si sono manifestate...
RispondiEliminaL'inizio del terzo millennio, per ora, è l'unico tempo che ci è dato vivere... non abbiamo alternative, e le nostre idee dobbiamo usarle con la ricettività del terzo millennio... e questo articolo, questi commenti, fanno parte del tempo in cui vivono e si propongono come un'alternativa al pensiero buio che ci circonda!
Alla prossima
Claudio
Il pensiero di Franco non soltanto mi è noto (a lungo ci siamo confrontati su questi argomenti) ma - l'amico lo sa - corrisponde con la mia visione del mondo. Non voglio però, con questo, appropriarmi delle sue profonde e originali conclusioni: finirei col pensare "in fotocopia" (come lui stesso sostiene) dove non può e non deve esserci spazio per questo tipo di comunicazione. La "spinta mitopoietica" è frenata continuamente a livello collettivo ma - e qui sta la rivoluzionarietà di questo pensiero - è sempre pronta a scattare come una molla dentro l'uomo che non ha perso il contatto con il suo alter-ego, con tutto ciò che non è frutto di acquisizione razionale ma è innato, immacolatamente innato. Si dirà: come non farsi condizionare dalla ragione visto che la stessa è prerogativa dell'umano? E' vero, ma lo è nel momento in cui si mette a disposizione dell'Essere che - come dice Franco - è infine l'essere di noi stessi. Quest'ultima considerazione è straordinaria perché scalza ogni equivoco: la confusione nel considerare il logos "intelletto razionale" e non espressione del mistero di cui siamo parte e, dunque, del divino di cui siamo impastati. Se l'uomo arriva a certe orribili atrocità, cui ci hanno abituato i telegiornali, è perché, davvero, è sempre più barbaro in quanto non sa più riconoscere la voce di quella "musa" misteriosa che gli suggerisce amore. Non è mia intenzione addentrarmi ulteriormente nel concetto filosofico (c'è chi lo ha fatto molto meglio di me); dirò solo che, per quanto mi riguarda, quella voce (anche quando ero inconsapevole della sua identità, chissà forse maggiormente) l'ho sempre ascoltata. A me si rivela con la poesia, che - tengo a precisarlo - è scrittura in versi e conditio sine qua non per l'esistenza ("l'attività critica - dice ancora Franco - è strettamente connessa con l'attività creativa". Che il tuo pensiero sia nel giusto, caro Franco, non me lo conferma la ragione ma ciò che provo in questo momento, mentre ti rispondo, ti ringrazio e ti abbraccio.
RispondiEliminaSandro Angelucci
Ritengo che lo studioso, filosofo e poeta Franco Campegiani, come gli è consueto, abbia colto nel segno, fisolosico ed antroplogico dell'essere.
EliminaGrazie dei ricorrenti contributi dati al nostro vivere quotidiano.
Alberto Campegiani
Carissimo Sandro, la nostra amicizia è a prova di bomba per un motivo molto semplice: noi guardiamo nella stessa direzione, partendo da valori innati del tutto autonomi, da angolazioni originali e diverse di pensiero. In poche e vivaci battute, tu hai espresso quello che io ho detto in circonlocuzioni noiose di pensiero, sottolineando che l'attività mitopoietica è frenata a livello collettivo, ma è pronta a rinascere in qualsiasi momento in chi non perde il contatto con se stesso, con le proprie fonti battesimali nell'assoluto. Ricambio il tuo abbraccio e le tue espressioni di amicizia fraterna e sincera.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Ciao, Alberto, cugino carissimo! E' un vero piacere trovarti su questo prestigioso blog letterario a commentare pensieri distanti dalle incombenze del tuo avviatissimo studio legale. E' questa una conferma della ricchezza della tua cultura, della tua sensibilità e della tua apertura mentale. Grazie per essere venuto a salutarmi. Il tuo incoraggiamento mi è particolarmente prezioso e caro.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Io da persona razionale
RispondiEliminachiedo a questo signor Campegiani come fa ad essere cosi sicuro? Anche quando dice che ogni lettore legge se stesso? Si in un certo verso sono io che leggo ma fino ad un certo punto perche', talvolta anche per fare conoscenze di altri fatti, oltre me voglio anche conoscere altri personaggi che hanno diverse esperienze e idee. Allora fammi capire, posso dire che sono un cuoco, anche se in tutta la mia vita ho cucinato qualche spaghetto alla matriciana? Oppure mi invento un esperto di musica anche se ascolto solo Gianna? Oppure mi facio una bella lettura e poi mi dico filosofo e magari mi piaccio tanto da sentirmi un divo. Credo nella ragione altrimenti come faccio a capire che tante cose sono scritte da chi ne sa piu' di me , a differenza di altre cose scritte o magari anche dette da incompetenti ? Elio (Roma)
Caro signor Elio, a mio parere il nostro cervello seleziona. Non riesce ad apprendere tutto lo scibile ed assimila dall'esterno soltanto ciò che gli interessa di assimilare: quelle nozioni, ossia, che veramente gli occorrono per il proprio sviluppo pratico ed intellettuale. Cuochi si nasce, non si diventa, a parer mio. Se la cucina non è nel mio dna, potrò frequentare le migliori scuole di cucina, ma resterò per sempre un asino, incapace di cucinare più di un uovo al tegamino. Al contrario, potrò eguagliare il mio maestro, ed anche superarlo, soltanto se il suo insegnamento riuscirà a risvegliare qualità in me latenti dalla nascita, che, essendo già mie, io avrei comunque sviluppato nel tempo, sia pure con maggiori difficoltà e probabilmente con risultati inferiori.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Gent.mo Franco,
RispondiEliminai tuoi interventi come sempre sono ricchi di "pensiero" che non è pensiero spicciolo, banale, logoro, al contrario, è bisognoso di porsi in essere, di farsi ascoltare e interpretare; è pensiero filosofico in linea con la visione del mondo attuale messo a confronto con la metafisica e la Storia. Una cosa è certa, sviluppa interesse e si mostra sempre interessante dal lato umano, psicologico e sociale. Auguri
Ninnj Di Stefano Busà
Il tuo scritto caro Franco apre di certo una prospettiva molto interessante riguardo al rapporto tra autore e fruitore. Superi così una grande problematica che ha interessato le opere d'arte, soprattutto in campo letterario, per il modo in cui dovessero essere fruibili, poichè la necessità stava nel dover decodificare il testo e comprendere le intenzioni dello scrittore, pittore o poeta. Tu infatti sostieni: "Tanto più si può capire un autore, quanto più quell'autore si eclissa dentro ciò che scrive..." E poi aggiungi:" L'arte non parla infatti a tutti, ma al cuore di ognuno, a partire da quell'ognuno che in primis l'autore stesso è".
RispondiEliminaPer quanto riguarda la querelle tra doxa ed epistéme mi sembra di capire che tu la risolva con il concetto di Mitopoiesi, ossia "realtà mitica allo stato sorgivo", che scava nel profondo dell'uomo e lo rende più autentico. E forse come anche tu sostieni il ritorno all' In se potrebbe essere pedagogico e curativo nella quotidianità che viviamo, perchè molto spesso i rapporti non sono autentici, ma frutto di grande superficialità.
Grazie per avermi fatto partecipe di questo tuo intervento. Angiolina
Gent.ma Ninnj,
RispondiEliminal'incoraggiamento di un intelletto ammirevole, vivo ed acuto come il tuo, così moderno e radicato nel tempo che viviamo, è davvero uno stimolo insostituibile per andare avanti, per migliorarsi e responsabilizzarsi in continuazione. Le tue attenzioni non possono che esaltarmi. Ti sono grato.
Franco Campegiani
Cara Angiolina, a ben guardare, qualsiasi esegeta non fa che tradurre la risonanza che una determinata opera ha avuto dentro di sé. Potrà anche illudersi di lavorare in maniera oggettiva, ma non è così e lo dimostrano le interpretazioni differenti della mesdesima opera, anche tra critici appartenenti al medesimo indirizzo estetico. Con questo, io non cerco certo di avallare lo psicologismo, che è doxa, mentre, come tu osservi, io cerco l'epistéme proprio nell'arte e nella poesia. L'ha detto prima anche Fiorentini, sottolineando la virtù dell'arte di esplorare e far esplorare il mistero della creazione. Grazie per essere intervenuta.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Caro Franco
RispondiEliminaGrazie per aver ricordato a noi poeti cosa sia la poesia e l'arte, chiarendole con la Mitopoiesi creativa. Hai còlto nel segno dall'alto della tua capacità speculativa davvero rilevante, mettendo in luce dove cercare l'originalità creativa( lo stato sorgivo) e la sua separazione dall'intellettualismo, dal già detto e scritto nella storia. Il vero poeta nel comporre, spesso inconsapevolmente, entra in un processo di profonda anamnesi ed è così in grado di attingere a profondità di verità sconosciute ad altri, le quali risiedono nell'inconscio e nell'Oltre di se stesso e che una volta rivelate attivano la loro funzione universale, oltrepassando le problematiche del contingente e del particolare. Così facendo, contribuiscono ad innalzare il valore e la funzione della vita. La purezza poetica attinge all'Innatismo per essere in grado di connettersi con misterico che è in tutti noi allo stato latente, per arrivare alla radice della vita. E la poesia, l'arte tanto più sono pure tanto più hanno valore universale e divinatorio.
Un caro saluto.
Carmelo
Grazie a te, Carmelo. Ogni poeta sa che il mito non è il modo primordiale, infantile ed imperfetto di esprimersi dell’umanità: quel modo, ossia, immaginifico e sentimentale, successivamente superato dalle espressioni razionali del pensiero stesso, ritenute a torto più mature. Il mio intento è di ribaltare questa visione delle cose, proponendo un eroico superamento della filosofia, come scienza della razionalità, per accedere ad una forma più profonda ed universale di conoscenza e di verità.
EliminaFranco Campegiani
Caro Franco,
RispondiEliminaè stato un piacere leggere il tuo trattato “Doxa ed Epistéme” e costatare quanto la vita è misteriosamente misteriosa quando, al di sopra e all’insaputa del singolo, unisce l’intera umanità.
Leggendoti ho capito come menti apparentemente lontane e scollegate lavorano nella stessa vigna e producono lo stesso vino, sinonimo di spirito.
Ho ritrovato nel tuo scritto le tematiche legate alla creatività, alla Genesi del pensiero, per quello che mi riguarda, sporcandomi le mani, come tu sai, con la Genesi sia biblica che di Michelangelo, mi sto rompendo la testa per capire quello che sta sopra, sotto, dietro, insomma da tutte le parti ma alla fine le radici non possono che essere dentro di noi. Hai perfettamente ragione quando dici che si lavora (scrivere, dipingere, scolpire) “per la propria festa spirituale” e che l’arte non parla a tutti ma al cuore di ognuno. Sapessi come è vero perché lì portano le mie fatiche, nel cuore dell’artista che cerca di superare continuamente le barriere del conosciuto.
Qui mi fermo perché la mia penna non è forte e precisa come la tua, spero comunque chiara nel comunicarti che condivido il tuo pensiero.
Ciao
Giancarlo Litofino
Ciao Giancarlo. La tua arte ed il tuo pensiero mi sono chiari (e cari) da molto tempo, così come le tue ricerche sorprendenti nell’ambito della simbologia rinascimentale e michelangiolesca. Tu cerchi, sulle orme del grande fiorentino, di scoprire la scintilla divina che è nell’uomo stesso. Quella scintilla che anima ogni vero poeta e che Dante, sul finire del XXXIII Canto del Paradiso, definisce così: “Dentro di sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effigie / perché ‘l mio viso in lei tutto era messo”. Per questo, hai ragione, ci somigliamo.
EliminaFranco Campegiani
Caro Franco Campegiani, per prima cosa, ti ringrazio per avermi coinvolto in questa interessante conversazione che ha per oggetto: "doxa /episteme". Per quanto riguarda la tua asserzione relativa l'attività mitopoietica, ovvero il mito allo stato puro o sorgivo, la tua lezione fornisce nuove interpretazioni per pervenire ad una nuova consapevolezza artistica.
RispondiEliminaPer quanto riguarda invece la tua opinione che, come tu asserisci, si trova agli antipodi con l'episteme che si manifesta nel logos, confuso con intelletto razionale. A me, personalmente sembra che il logos oggi non è sublimato da funzioni superiori o categoriali, puramente cognitive in quanto interagisce con le opinioni che fanno uso d tecnologie con l'ausilio di codici e nuove stipulazioni linguistiche (ex: nuovi linguaggi di programmazione - anche questo blog-Alla volta di Leucade-è un veicolo di informazioni). La poesia, ci da’ la possibilità di esplorare e provare nel nostro immaginario, una varietà di esperienze ed emozioni differenti , l'elaborazione di essa ha comunque bisongo di conoscenza; quindi doxa o episteme? Non si escludono a vicenda poiché - ogni discorso artistico - entra in combinazione con entrambe - almeno da un punto di vista ermeneutico per nulla scontato.
Di nuovo un cari saluti. Miriam
Cara Miriam, grazie per il tuo contributo. Il fatto che il logos oggi non sia sublimato da funzioni superiori, non significa che non possa tornare ad esserlo domani. Che poi l’arte abbia bisogno di codici e stipulazioni linguistiche, di tecnologie consolidate, è noto dalla notte dei tempi e non sarò certo io a negarlo. Tutto questo però non dovrebbe servire a confondere le acque e a capovolgere il rapporto tra mezzi e fini. Il fine dell'arte è a mio parere cognitivo. Nel mito c'è la rivelazione dell’alter ego: “I’ mi son un che quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’ei ditta dentro vo significando”. Un caro saluto e ancora grazie.
EliminaFranco Campegiani
Un dibattito vivificante e interessante è uscito fuori dall'analitico saggio di Franco Campegiani, uomo colto e preparato che al sistema cognitivo e logico presta da lungo tempo attenzione. Le capacità di esprimere il fenomeno della conoscenza è per tutti noi sinonimo di interpretazione del logos così come ogni intellettuale o studioso lo avverte. Difficile è credere al razionale che interagisce e spesso si confonde con l'episteme già ìnsito nella categoria del pensiero . Le nuove strutture linguistiche del terzo millennio mal si confanno con quelle del pensiero filosofico razionalistico del passato. La strada per giungere a rivoluzionare il sistema linguistico della modernità deve, però, per sua stessa esigenza, transitare anche dal passato...Volenti o nolenti dobbiamo collegarci ai pensatori che ci hanno preceduto per addivenire ad un discorso unitario che sia il <sapere in senso stretto. Come si evolverà il rapporto tra il passato e la modernità non è dato sapere. I mezzi e le tecnologie oggi sono diversificate, il telematico ha usurpato molto spazio del nostro episteme culturale. La visione del mondo ne risulta contaminata da un codice differenziale di elaborazione satellitare, (meccanicistico) senza esperienze emozionali. Sta di fatto che la necessità di conoscenza si esaurisce, non produce più l'ermeneutica e la propedeutica richieste in passato. Oggi la tecnologia avanzata ha ribaltato le condizioni delle capacità di apprendere. Siamo in balia di una trasformazione epocale che sta per soppiantare il carattere ricettivo ad es. della Poesia. Cosa mai potrà sostituirla non sappiamo, ma siamo sospesi tra i veicoli d'informazione più primitivi e l'immaginario che ci proietta più avanti in consapevolezza non sublimata ma necessaria al nuovo corso della Storia.
RispondiEliminaGrazie, Franco per aver indotto alcuni pensatori ad esprimersi. Il dibattito dal punto di vista della rivelazione di noi stessi si fa ogni giorno più vivace. Spero intervengano altri lettori del blog a rafforzare la voglia di capire, di interpretare il nuovo millennio.
Intanto, dobbiamo essere grati a Franco per aver instaurato un dibattito di alto livello.
Scusate non mi sono firmata, la nota di cui sono è mia, e desidero complimentarmi con Franco per la carica intellettuale e la verve che il dibattito consente. Auguri a tutti
RispondiEliminaNinnj Di Stefano Busà
Il mio grazie a te, carissima Ninnj. Le tue costanti attenzioni mi galvanizzano e questo tuo secondo intervento susciterà sicuramente l’interesse di altri intellettuali e di altri spiriti creativi. Sono d’accordo con te: nell’età della tecnica il problema della conoscenza sembra purtroppo essere superato e abbandonato. Ciò, tuttavia, lungi dall’essere una sconfitta, rappresenta una vittoria della filosofia, il cui razionalismo ha finito per svilupparsi nelle uniche forme ad essa possibili e congeniali: appunto quelle della cultura scientifico-tecnologica. L’affermazione delle tecniche, pertanto, non è altro che l’affermazione di quel processo razionalistico che trae origini proprio dal pensiero filosofico, e ciò smaschera finalmente la vera natura antiepistemica di ogni razionalismo, per sua natura partigiano fin dal suo primo apparire nella cultura greca. Convengo con te, Ninnj: per andare avanti c’è bisogno di recuperare le antiche modalità del pensiero. Ma molto antiche, mi permetto di aggiungere – anzi, addirittura arcaiche – scavalcando per intero la fase razionalistica e sviluppando quelle aurorali e misteriche fasi speculative che giunsero al “conosci te stesso” socratico, purtroppo fraintese in senso razionalistico dal pensiero successivo. Ciò di cui abbiamo oggi bisogno, per reggere l’urto del vuoto imperante, oggi e ancor più domani, è l’arricchimento interiore, la conoscenza del profondo e l’alleanza con il mistero. Un abbraccio.
EliminaFranco Campegiani
Concordo con te, Franco, quando dici della necessità di recuperare le radici antropologiche (intese non nel senso di tornare allo "status" del pensiero arcaico, ma superarle sotto un diverso profilo di civiltà e di modernismo, adeguandolo alle nuove epoche che hanno frainteso il senso razionalistico della specie umana, proiettandolo nel nuovo disastro della postmodernità.)
EliminaL'intelletto dell'uomo "nuovo" ha bisogno di superamento del significato meccanicistico, ma non umano della storia. Bisogna tenere in grande considerazione proprio questo che potrà sviluppare quelle sinergie che ci faranno progredire, senza crogiolarsi nel vuoto che oggi è divenuto imperativo categorico. Il nostro depauperamento razionale e logico ci ammonisce!... Un affettuoso saluto
Ninnj Di Stefano Busà
Con grande interesse ho letto questo limpido saggio di Franco Campegiani. Se il primo debito dello scrittore verso il lettore è la chiarezza, ebbene, di fronte a questo scritto, dovremo riconoscere che tale debito è stato magnificamente onorato. Sicché, il mio ottimo amico Franco, civilissimo nelle relazioni umane, dimostra con il testo in oggetto anche un alto grado di civiltà espressiva; offrendo al lettore il "prodotto finito" della sua riflessione filosofico-artistica, "chiara e distinta" (non addossando cioè al lettore il peso di gravosi processi di pensiero tortuosi e oscuri, prima ancora che "complessi"). Ciò premesso, e sottolineata la fertile distinzione di Campegiani a proposito dell'arte che non parla "a tutti", "ma al cuore di ognuno", vorrei tornare sopra l'abbrivo dello scritto, laddove viene citato Marcel Proust. Per integrare se mi è consentito tale citazione con quanto Gustave Flaubert ebbe a dire circa MADAME BOVARY: "MADAME BOVARY sono io"; alludendo evidentemente alla parcellizzazione delle sue fibre umano-artistiche (di lui, Flaubert) nel flusso narrativo del romanzo; romanzo ormai separato -nel senso di un vero e proprio divario ontologico- dal suo autore. Romanzo vivente per sé e da sé (e dunque in grado, per la sua statura, di stimolare nel tempo quella molteplice fruizione critica che, divenuta condivisione, conoscenza acquisita e stabilizzata, va a incrementare il patrimonio artistico-sapienziale dell'umanità). Si legga ciò che ho appena detto nel senso di una appassionata dichiarazione d'amore per i "classici" d'ogni tempo della letteratura, soprattutto; costituendo essi, essenzialmente ("classici" giacché attuali) quei testi che fanno "da specchio per il fruitore", come giustamente osserva Campegiani (che non a caso si appoggia alla "autorictas" di un colosso come Proust per il suo argomentare). Da qui prendendo le mosse, ecco pertanto Campegiani sviluppare nel suo saggio con travolgente efficacia una riflessione filosofico-artistica atta a risvegliare nel lettore-autore la consapevolezza della necessità di coltivare le proprie origini (dunque,in sintesi, di riuscire originali), accantonando il "pensiero duplicato su quello altrui". In altre occasioni ho avuto modo di evidenziare la capacità dell'amico Franco di scrivere veramente in prima persona, assumendosi con vigore la responsabilità di ciò che afferma. Non posso quindi che concludere questo mio commento ringraziandolo per il suo scritto di grande pregnanza umanistica (e non sarà per me disdoro ripetere in suo onore una citazione da COSI' PARLO' ZARATHUSTRA, di F. Nietzsche:"Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò uno scrive col suo sangue. Scrivi col sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito".
RispondiEliminaAndrea Mariotti
Andrea Mariotti
Mi scuso per aver firmato due volte il mio commento allo scritto di Franco Campegiani.
RispondiEliminaA.M.
Caro Andrea, mi riempie di gioia questo tuo intervento chiarificatore. Il tuo scritto, infatti, ha il potere di chiarire implicitamente una contraddizione latente nel mio pensiero. Da un lato l’esigenza di risultare limpido e discorsivo; dall’altro l’attrazione per il mistero e per ciò che supera la sfera razionale. Ed ancora (che in fondo è la stessa cosa): da un lato l’amore per i classici, per ciò che è acquisito e noto; dall’altro il desiderio di svincolarsi da ogni “auctoritas”, per inseguire un pensiero autonomo ed originale. Lo sai meglio di me: ogni contraddizione è fertile. Se il compito primo dell’uomo è di capire se stesso, il proprio mistero, è indubbiamente un conforto (anche se non più di un conforto) accorgersi che altre luci si affiancano alla propria a illuminare il cammino. Grazie per quanto hai scritto.
EliminaFranco Campegiani
Un saggio interessante al quale si possono innescare molte discussioni e teorie individuali. Complimenti vivissimi all'autore Franco Campegiani che di volta in volta porge tematiche valide per sani e costruttivi dibattiti.
RispondiEliminaProf. Anselmo Abbiati
Grazie a lei, Professore. Il suo apprezzamento mi stimola a fare sempre di più e sempre meglio.
EliminaFranco Campegiani