Prefazione
a
Alda Magnani:
Un pugno di sogni nel cuore
(inedito)
Se afferro, per fissarlo sulla carta, il filo
evanescente
di un’idea, provo la sensazione di
presenze
annidate nell’intimo, immagini
globali, suoni, lettere,
fonemi rettamente segmentati, sillabe
compitate
mentalmente, insiemi che cavalcano
sull’onda
dei pensieri, come cavalli in corsa,
da domare (Immagini e
parole).
Silloge
compatta, armoniosa, duttile e complessa, i cui versi si ampliano con
raddoppiamenti o estensioni per abbracciare le latebre di un’anima in cerca di
se stessa. E si sa che, per cristallizzare l’ebollizione emotivo-intellettiva, urge, prima di tutto, una parola vasta, un
verbo di estrema generosità, che si inanelli in nessi di urgente creatività, e
che tenda ad andare oltre il senso della canonica sintassi. È quello che fa la
Nostra nella sua ricerca puntigliosa di corpi etimo-fonici che abbraccino con
la loro substantia gli slanci cospirativi e le inquietudini del fatto di
esistere: saudade, spleen, melanconia, nostalgia, sottrazioni, e rievocazioni
di giorni e figure che costituiscono il focus della nostra vera vicenda terrena:
“sillabe compilate/ mentalmente, insiemi che cavalcano sull’onda/ dei pensieri,
come cavalli in corsa, da domare”. Sì, proprio da domare, tanta è la loro
irruenza e il loro gorgogliare; dacché la Nostra sa che l’equilibrio fra dire e
sentire, fra fughe emotive ed argini ben solidi, è il nerbo focale della poesia;
quella fondamentale simbiosi che qui si traduce in prolungamenti continui di
enjambements di cui la Poetessa sente estremo bisogno per scaricare la forza
del suo pathos in una semantica linguistica che non di rado assume forma
prosastica per soddisfare le esigenze di tanto sentire. Quelle di un memoriale che
con tutta la sua vis empatica torna a farsi vivo di immagini da nirvana edenico:
paesaggi e colori, infanzie e suggestioni, gesti ed abitudini che nel loro
insieme significano antiche primavere, e momenti di generosa rievocazione
affettiva:
Lasciate
che contempli la mia terra
negli
angoli che furono la culla
dei
sogni di un’infanzia spensierata.
(…)
Lasciatemi
lanciare sul pelo di quell’acqua
un
sasso piatto che faccia rimbalzello.
Non
potrò fare a gara con nessuno,
solo
recuperare un po’ d’infanzia (Lasciate…),
ma
anche momenti di solitudini e sensi di vuoto per la scomparsa di figure
insostituibili; di sorrisi e abbracci
che erano cosa normale in un tempo e che
nella rievocazione si tramutano in immagini di grande effetto sottrattivo:
Ridatemi
il richiamo di mia madre
che
aveva voce tersa di cristallo,
chiara
e squillante
come
le mattinate di febbraio
che
risplendono ancora
sul
ghiaccio screpolato del mio inverno (Attesa).
Sembra
quasi che la poetessa chieda aiuto alla natura, ai suoi palpiti cromatici, alle
sue vicinanze esplorative, per raggiungere stadi espressivi di reale
concretezza. Ed è così che le mattinate di febbraio, o il ghiaccio screpolato
dell’inverno si fanno corpi viventi di input interiori vogliosi di rinascere.
Un epifanico senso di esplosione vitale che proviamo, forse, solo nel
ripercorrere i tanti momenti trangugiati da un tempo che scorre impietoso e
senza stasi, lasciando dietro sé cocci, ma anche pietre preziose che con il
loro splendore sanno vincere il potere dell’oblio:
Nella
mia casa antica anche la luna
ora
campeggia grande come il sole,
illumina
i ricordi
appesi
come quadri alle pareti.
(…)
Ora
vorrei partire. È giunto il tempo.
Vivo
ormai ai confini dell’oblio (Ai
confini dell’oblio).
Partire;
un tema da Voyage baudelairiano: “Ô Mort, vieux
capitaine, il est temps! levons l’ancre!/
Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!”, che esprime il desiderio del poeta di lasciare
la vita, tratto breve e doloroso. E nella Nostra c’è intensa l’idea che l’esistenza sia il tempo prestato dalla morte e che lo spazio ristretto di un soggiorno sia destinato a finire proprio nell’oblio; “Tra noi e l’inferno o il cielo c’è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile del mondo” (Blaise Pascal, Pensées); d’altronde la vista terrena non è assai forte da allungare sguardi oltre le ristrettezze del nostro esistere. Ed è proprio per questo, per la sua plurale problematicità, che la silloge raggiunge stadi di tale potenza umana da declinarsi in un lirismo oggettivamente contaminante, e a noi vicino, dacché sono il senso del mistero, e l’incapacità di avvicinarsi al tutto, a creare quelle inquietudini esistenziali che oltre a colpire la nostra essenza ontologica, si fanno anche terriccio fertile per un buon poièin. Per una poesia che si ciba di tristezze e solitudini, di voci e di canti, di tragedie e giovani amanti, di sogni e di storie reinventate:
Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!”, che esprime il desiderio del poeta di lasciare
la vita, tratto breve e doloroso. E nella Nostra c’è intensa l’idea che l’esistenza sia il tempo prestato dalla morte e che lo spazio ristretto di un soggiorno sia destinato a finire proprio nell’oblio; “Tra noi e l’inferno o il cielo c’è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile del mondo” (Blaise Pascal, Pensées); d’altronde la vista terrena non è assai forte da allungare sguardi oltre le ristrettezze del nostro esistere. Ed è proprio per questo, per la sua plurale problematicità, che la silloge raggiunge stadi di tale potenza umana da declinarsi in un lirismo oggettivamente contaminante, e a noi vicino, dacché sono il senso del mistero, e l’incapacità di avvicinarsi al tutto, a creare quelle inquietudini esistenziali che oltre a colpire la nostra essenza ontologica, si fanno anche terriccio fertile per un buon poièin. Per una poesia che si ciba di tristezze e solitudini, di voci e di canti, di tragedie e giovani amanti, di sogni e di storie reinventate:
Sono
cresciuta ascoltando le storie
narrate
attorno al fuoco del camino,
storie
di miracoli e di santi,
di
avventurieri e grandi peccatori,
storie
di tragedie e di giovani amanti
partiti
per la guerra e mai tornati,
storie
di pozzi dove ci si sentiva,
di
donne ritenute vere streghe,
di
pozioni, di filtri e sortilegi,
di
licantropi e di cani fedeli.
(…)
Vorrei
tornare ad ascoltare storie
che
mi insegnino il senso della vita.
Dopo
che da quel posto son partita,
si
spensero i camini ad uno ad uno,
si
serrarono gli usci
e
l’ombra ha ricoperto già da tempo
le
strade di un paese in agonia (Attorno
al fuoco).
Quanta
humanitas in questi versi, quante pulsioni che richiamano alla plurivocità di
una storia, alla polisemica significanza del suo estinguersi, all’ombra che “ha
ricoperto già da tempo/ le strade di un paese in agonia”.
Ma quello che alfine domina in questa plaquette di urgente impatto umano è l’amore per la vita, quella a venire, anche, perché la Magnani è pienamente cosciente della sua sacralità, della sua bellezza; ella la ama, ed è per questo che ne rimpiange i momenti migliori; ed è per questo che la rivive con dolore e con nostalgia, quasi le fosse sufficiente rievocarla per farla di nuovo sua; per trasferirla, tutta intera, in un sorriso che sa tanto di amore:
Ma quello che alfine domina in questa plaquette di urgente impatto umano è l’amore per la vita, quella a venire, anche, perché la Magnani è pienamente cosciente della sua sacralità, della sua bellezza; ella la ama, ed è per questo che ne rimpiange i momenti migliori; ed è per questo che la rivive con dolore e con nostalgia, quasi le fosse sufficiente rievocarla per farla di nuovo sua; per trasferirla, tutta intera, in un sorriso che sa tanto di amore:
Mi appari nel pulviscolo dei sogni
– quelli dell’alba, ricchi di promesse - .
Guardo
sul cassettone la tua foto,
filtra
il non detto in lampi di sorriso (Lampi
di sorriso).
Nazario Pardini
DA:
Un pugno di sogni
nel cuore
Immagini e parole
La fantasia affonda le radici nel mondo
incantato dell’infanzia
dove
ritrovo immagini e parole che regalano ancora
carezze
d’erba, profumo di lavanda e di mentuccia,
sapore
di latte appena munto, di pere, pesche, noci e di uva fragola.
Quando incontro, pescando nel passato,
un’eco, un’immagine, un’idea ancora
informe,
ma che sprigiona reminiscenze
antiche,
vorrei usare le parole giuste,
parole che trascinino
la mente in danze poetiche
eteroclite, parole spumeggianti,
in movimento, da accogliere in
ondate successive.
Vorrei
trovare termini accessibili, che tocchino
altri
sensi, oltre l’udito, parole che presentino
visioni
simili a folgoranti scorciatoie,
parole
vellutate o che scintillino, parole dolci
o
dalla scorza ruvida, parole che mi scavino
nell’anima
e non mi diano pace.
Vorrei
capire il senso di vertigine che mi prende
davanti
al foglio bianco o mi assale talvolta, se rifletto
per
affidare ai versi i ricordi, gli affetti, i sentimenti…
ma si tramuta in lacrime il
pensiero.
Oggi capto soltanto le parole che
vorticano a frotte
nel cervello, ora sbrigliate, pronte,
originali,
ma
talvolta un po’ assurde, indecifrabili o inghiottite
da
altre più banali, scontate, ingenue, prive di sorprese.
Se afferro, per fissarlo sulla
carta, il filo evanescente
di un’idea, provo la sensazione di
presenze
annidate nell’intimo, immagini
globali, suoni, lettere,
fonemi rettamente segmentati,
sillabe compitate
mentalmente, insiemi che cavalcano
sull’onda
dei pensieri, come cavalli in corsa,
da domare.
Lasciate…
Lasciate
che contempli la mia terra
negli
angoli che furono la culla
dei
sogni di un’infanzia spensierata.
La
peschiera selvaggia, pittoresca
mi
offriva suggestioni da epopea quando, armata
di
un palo come remo, tentavo traversate
fra
le sponde su improvvisate zattere.
Nelle
ore assolate del meriggio erano specchio terso
le sue acque verdastre; tremavano
increspandosi al vento
di tramontana che passava d’inverno
sibilando
tra
le fitte gaggie del terrapieno.
Lasciatemi
toccare con la punta
delle
mie dita ormai intorpidite quell’acqua gelida
per
ridestare sogni e sensazioni. Nel tremolìo confuso
delle
immagini vedrò la mia figura capovolta
circondata
da alberi e da fiori, leggerezza di nuvole sul capo.
Nel
riflesso di luci e di colori forse
potrò
captare trame di progetti incompiuti,
struggimento
di magiche emozioni,
confini
di un perduto paradiso.
Lasciatemi
ammirare la leggerezza
d’ali di libellule e le fronde dei
salici piangenti
che
scendono adoranti a baciare la punta dei canneti.
Lasciatemi
ascoltare il richiamo di anatre
e di alzavole, l’insistente gracidare di
rane,
serenate
di grilli nelle notti di luna.
Lasciatemi
lanciare sul pelo di quell’acqua
un
sasso piatto che faccia rimbalzello.
Non
potrò fare a gara con nessuno,
solo
recuperare un po’ d’infanzia.
Attesa
Ridatemi il richiamo di mia madre
che aveva voce tersa di cristallo,
chiara e squillante
come le mattinate di febbraio
che risplendono ancora
sul ghiaccio screpolato del mio inverno.
Ridatemi il suo sguardo inquisitore
che mi frugava l’anima
e vigilava sulle mie tristezze.
Ridatemi
parole di saggezza
versate a gocce sopra i miei tormenti,
quelle sue mani abili e sollecite
sulle mie carni tenere
vittime di cadute e ruzzoloni.
Ora sento
l’incolmabile abbandono.
Stordita dal frastuono
di un lungo silenzio inappellabile,
avanzo timorosa barcollando
sopra le incerte sabbie del futuro
senza udire il rumore dei suoi passi
e più non vedo quei suoi occhi azzurri
capaci di carpirmi ogni segreto.
Soltanto nel ricordo
di tutto quello che di lei ho amato
sarà dolce l’attesa dell’incontro.
Perdute stagioni
Nell’autunno
che alterna dissolvenze
di colori e di voci, riaffiorano
alla mente le memorie
d’altri luoghi e di volti, del vissuto.
Gli
echi dei miei filari, fiochi, tentano
ascensioni a questo romitorio
dove vivo reclusa;
e pure un gesto, un suono
mi riportano alle opime vendemmie,
ai canti lenti, al ruggire del Recchio
gonfio d’acqua, all’asprigno
profumo di vinacce.
Esplodono
dai malli delle noci
aspirazioni effimere
e oscure profezie se mi smarrisco,
a volte, dentro un sogno
che accende la memoria.
Allora
si sprigiona un alitare
di perdute stagioni
naufragate nel mare di epoche
lontane, ormai concluse.
Eppure è molto breve
lo spazio che intercorre fra due vite.
Qui il tempo è fermo, in bilico,
sospeso tra quel che fui
e non sarò mai più
e il mio domani ignoto.
Ad altri lidi approderà il veliero
arreso al vento
che lo sospinge al porto della quiete
mentre declina il giorno e la sua luce.
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