Sandro Angelucci collaboratore di Lèucade |
Sandro Angelucci: SI AGGIUNGONO VOCI LietoColle. Faloppio (Co). 2014. Pg. 96. €. 13,00 |
Sandro Angelucci: Si aggiungono voci, LietoColle, 2014
Con
questa silloge Sandro Angelucci consegna ai suoi lettori una lezione sulla
“Poesia” divisa in 72 capitoletti più o meno lunghi, quanti sono esattamente i
testi poetici che la compongono. Sfogliandone le pagine, contiamo moltissimi
punti interrogativi a conferma che la poesia non dà risposte, ma è casomai una
domanda aperta sul mistero che coinvolge le tante e diverse creature del mondo,
e che l’unico filo con il quale essa possa legarle insieme è quello intessuto
dal suono delle parole, le essenziali divinità della più antica religio conosciuta dall’uomo, cui
affidare esistenza e consistenza, se è vero che solo ciò che è nominato esiste.
La
nominazione che fa la poesia è, però, di natura particolare, perché essa non
serve a dare ordine ad un enunciato, tanto da potere scavalcare, se vuole,
anche le norme che regolano la lingua, e
non giova alla sfera pratica, tant’è che sembra votata alla “inutilità”
preziosa della Bellezza. Essa possiede un
linguaggio misterioso che si aggiunge al mistero indagato e che, tuttavia,
sembra contenere una sapienza che va oltre se stesso.
E
così, dopo avere cercato e domandato, il
poeta Angelucci conclude che, solo
se “si aggiungono voci”, le voci delle
altre creature, questo linguaggio può
coincidere con quello cosmico: si tratta, allora, di fare silenzio e di
stare ad ascoltare spartiti e sonorità diverse, e perfino di accogliere i
silenzi degli elementi che non hanno voce, ma sono e partecipano al Grande Respiro, al suo soffio che spira
e non può essere trattenuto.
Entrano,
allora, nei versi di Angelucci fiori, animali, cieli, fiumi e montagne; ed
ognuno di essi canta il flusso perenne d’energia, lo stesso che nell’affresco
michelangiolesco trascorre dal dito del Padre creatore verso la sua prima
creatura umana (come scrive in “Allunga ancora verso me quel dito”, pag.
59). Fra i molti animali, sono più
frequentemente nominati gli uccelli:
usignoli, rondini, pettirossi, tortore, passeri, ma soprattutto i merli con il
loro becco d’oro, simbolo stesso della poesia, così cari a molti poeti e
musicisti. Il simbolismo che li riguarda è fittissimo in ogni epoca e civiltà:
la comprensione del linguaggio degli uccelli apparterrebbe solo agli iniziati
(Sigfrido, San Colombano, Francesco) e alluderebbe alla conquista dell’immortalità,
ossia a quella “reintegrazione -come scrive René Guénon- nel centro dello stato umano, cioè nel punto
in cui si stabilisce la comunicazione con gli stati superiori dell’essere.” Infatti, essi spesso sono considerati anche
come simboli degli angeli.
Se non
si condivide questo pensiero simbolico,
è impossibile comprendere un folto gruppo di poesie di questa silloge
che variamente vi alludono e, specialmente, a cominciare dal suo titolo, “Merlo
infinito” (pag.19), in cui appunto questa creaturina alata suscita domande come: “Ma dove voli, dove ti
rifugi, / quante ali possiedi, / quanto sei grande?” che sono veicolo dello
sgomento suscitato dalla considerazione dell’infinito, o dell’immortalità, che
è, poi, la stessa cosa, se spazio-tempo costituiscono un’entità sola. In un
altro testo (“Lo stormo”, pag. 52) l’arrivo di uno stormo di uccelli
sconosciuti, che solca il cielo e poi improvvisamente sparisce, diventa per il
poeta un’epifania sacra, tanto da fargli credere che degli angeli siano discesi
nei pressi del suo giardino come per concretizzare il suo anelito ad essere uno
di loro. E, sempre sullo stesso tema, leggiamo a pagina 20 uno dei testi più
metafisici della silloge: “L’inventario”,
percorso da un’ ininterrotta vibrazione di ali, una “accanto all’altra”
“tra i cespugli” che annunciano partenze “per cieli nuovi” e la liberazione dei sogni umani; e che mi fa
pensare a quelle pale sacre su cui sono dipinte affollatissime ascensioni
d’angeli che conducono verso il cielo la Vergine o qualche santo. Perché, da
sempre, (è sufficiente, per rendersene conto, leggere i titoli delle due
sillogi precedenti: “Il cerchio che circonda l’infinito” e “Verticalità”)
Angelucci canta lo slancio dell’anima verso l’alto, verso l’infinito, verso
l’Origine.
E però
una novità illumina i versi di “si aggiungono voci” ed è, appunto, come prima
si diceva, l’ascolto dei linguaggi non-umani, sentiti come sapienziali, come
segnali sonori o silenti del sacro. E il fatto che tutto questo possa avvenire nel giardino che
circonda la propria casa, significa anche che il mistero è vicinissimo, che è
là dove decidiamo che ci parli e che la scala di Giacobbe può essere
semplicemente un albero (“All’albero del mio giardino”, pag. 62) da abbracciare
e baciare come “antichissimo padre, madre ed amante”; che l’infinito può
nascere non “oltre”, come accade a Leopardi, ma “sulla” siepe dove decine di
farfalle, simili ad angeli, sembrano creare una colorata “imprevedibile
galassia” (“Intorno al cespuglio, pag. 34). Per questo nella poesia “Icaro”,
pag.17, il mito greco viene riletto in modo diverso, ed il gesto del giovane,
che indossa un paio d’ali in cerca di “paradisi inesistenti” e non si accorge
che già possedeva la stella che desiderava, appare un atto di superbia.
Il
mistero, insomma, ci è accanto, ci sfiora, ci accompagna, ma non ci sottrae alla vicenda terrena ed al
male: anche nell’Eden “domestico” esso giunge attraverso i mass-media che
diffondono notizie di odio e di violenza, di inganni e di disastri che turbano
e confondono, che rendono inspiegabile il disegno divino, la sua logica suprema
(“La logica suprema”, pag.85). Infatti, il mistero, nonostante i molti segnali,
le molte voci, “l’uccello che non finisce di cantare”, resta pur sempre tale,
“vicino e distante”, qualcosa che colloca il pensiero su una soglia,
vacillante, dubbioso, dolente, pur se aggrappato alla speranza ed alla
percezione che quella soglia tra al di qua ed aldilà non sia poi così solida e
che, forse, fine ed inizio si confondono, se l’inizio è votato alla fine solo
perché quest’ultima possa generare altra vita.
Angelucci
affida le sue riflessioni ad un linguaggio trasparente ed elegante, di impronta
classica, animato da una freschezza singolare di sentimenti, nel tentativo
di aderire all’assolutezza delle intuizioni
e alla felicità delle immagini. E, tuttavia, esso conserva spazi di
inafferrabilità e perfino qualche lacerazione di significato come a ribadire
che, nonostante la poesia, la bellezza, la speranza, vivere tenendo alto il
cuore è pur sempre una cosa difficile e, qualche volta, ardua, che non esclude
cadute.
Restano,
a lettura ultimata, una sensazione di grazia musicale per quel che riguarda la
resa espressiva, e un messaggio di
sapore francescano sulla necessità dell’amore come unico strumento di condivisione
e di armonia. Ma, come dicevo all’inizio, la lezione più importante, svolta in
72 capitoli-testi, è quella che non c’è espressione più alta e sacra della
poesia a cui affidare il mistero stesso della vita e della morte, così che non
mi sembra troppo azzardato definire questa silloge di Sandro Angelucci, un
rosario di invocazioni, un mantra sul Grande Respiro universale. E chissà
perché il numero dei testi mi fa pensare ai 72 discepoli, (tanti quanti i nomi
di Jahvé), inviati da Gesù verso tutte le direzioni della terra; e anche (
sembrano cose tanto distanti, ma non è vero se si leggono bene i travasamenti
prima accennati) a quel congedo che chiude la più famosa canzone del Petrarca,
“Chiare, fresche e dolci acque”, che così recita: “Se tu avessi ornamenti,
quant’hai voglia, / poresti arditamente / uscir dal bosco, / e gir in fra la
genti”.
Franca
Alaimo
Stupenda recensione, questa di Franca Alaimo, del nuovo testo poetico di Sandro Angelucci. Il noto critico pone giustamente l'accento sulle voci misteriose ed angeliche della natura da cui il poeta trae ispirazioni formidabili. E' una poesia, quella di Sandro, totalmente dominata dal mistero. Ed è il segno, a mio parere, dei tempi nuovi, tempi in cui occorre superare il monito kantiano a non oltrepassare i limiti della ragione, a non cercare il vincolo dell'uomo con l'"inseità" del mondo. Occorre oramai stabilire una nuova alleanza con l'Essere, senza timori di cadere nell'irrazionalità e nella follia, che sono soltanto il rovescio della medaglia della ragione. L'"in sé" del mondo è un'altra cosa, non ha nulla a che fare con l'irrazionale. Il poeta, in queste sue liriche ispirate, fa istintivamente il vuoto mentale (lo fa senza sapere di farlo) e con questo semplice atto apre la diga dell'Essere, del suo stesso Essere, ossia del suo spirito nascosto (questo è fondamentale). Dal varco fuoriesce una cascata di informazioni sulla realtà del mondo. Sono le voci originarie, interiori ed anteriori, del vivente. E' il Grande Spirito di ogni tradizione nativa a fare di nuovo la sua apparizione, attraverso le corde vocali di una natura intesa come miniera inesauribile di insegnamenti etici.
RispondiEliminaFranco Campegiani