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martedì 9 dicembre 2014

N. PARDINI SU "UN PUGNO DI SOGNI NEL CUORE" DI ALDA MAGNANI

Prefazione
a
Alda Magnani: Un pugno di sogni nel cuore
(inedito)


          Se afferro, per fissarlo sulla carta, il filo evanescente
          di un’idea, provo la sensazione di presenze
          annidate nell’intimo, immagini globali, suoni, lettere,
          fonemi rettamente segmentati, sillabe compitate
          mentalmente, insiemi che cavalcano sull’onda
          dei pensieri, come cavalli in corsa, da domare (Immagini e parole).

Silloge compatta, armoniosa, duttile e complessa, i cui versi si ampliano con raddoppiamenti o estensioni per abbracciare le latebre di un’anima in cerca di se stessa. E si sa che, per cristallizzare l’ebollizione emotivo-intellettiva,  urge, prima di tutto, una parola vasta, un verbo di estrema generosità, che si inanelli in nessi di urgente creatività, e che tenda ad andare oltre il senso della canonica sintassi. È quello che fa la Nostra nella sua ricerca puntigliosa di corpi etimo-fonici che abbraccino con la loro substantia gli slanci cospirativi e le inquietudini del fatto di esistere: saudade, spleen, melanconia, nostalgia, sottrazioni, e rievocazioni di giorni e figure che costituiscono il focus della nostra vera vicenda terrena: “sillabe compilate/ mentalmente, insiemi che cavalcano sull’onda/ dei pensieri, come cavalli in corsa, da domare”. Sì, proprio da domare, tanta è la loro irruenza e il loro gorgogliare; dacché la Nostra sa che l’equilibrio fra dire e sentire, fra fughe emotive ed argini ben solidi, è il nerbo focale della poesia; quella fondamentale simbiosi che qui si traduce in prolungamenti continui di enjambements di cui la Poetessa sente estremo bisogno per scaricare la forza del suo pathos in una semantica linguistica che non di rado assume forma prosastica per soddisfare le esigenze di tanto sentire. Quelle di un memoriale che con tutta la sua vis empatica torna a farsi vivo di immagini da nirvana edenico: paesaggi e colori, infanzie e suggestioni, gesti ed abitudini che nel loro insieme significano antiche primavere, e momenti di generosa rievocazione affettiva:

Lasciate che contempli la mia terra
negli angoli che furono la culla
dei sogni di un’infanzia spensierata.

(…)
           
Lasciatemi lanciare sul pelo di quell’acqua
un sasso piatto che faccia rimbalzello.
Non potrò fare a gara con nessuno,
solo recuperare un po’ d’infanzia (Lasciate…),

ma anche momenti di solitudini e sensi di vuoto per la scomparsa di figure insostituibili; di sorrisi e  abbracci che erano cosa  normale in un tempo e che nella rievocazione si tramutano in immagini di grande effetto sottrattivo:

Ridatemi il richiamo di mia madre
che aveva voce tersa di cristallo,
chiara e squillante
come le mattinate di febbraio
che risplendono ancora
sul ghiaccio screpolato del mio inverno (Attesa).

Sembra quasi che la poetessa chieda aiuto alla natura, ai suoi palpiti cromatici, alle sue vicinanze esplorative, per raggiungere stadi espressivi di reale concretezza. Ed è così che le mattinate di febbraio, o il ghiaccio screpolato dell’inverno si fanno corpi viventi di input interiori vogliosi di rinascere. Un epifanico senso di esplosione vitale che proviamo, forse, solo nel ripercorrere i tanti momenti trangugiati da un tempo che scorre impietoso e senza stasi, lasciando dietro sé cocci, ma anche pietre preziose che con il loro splendore sanno vincere il potere dell’oblio:

Nella mia casa antica anche la luna
ora campeggia grande come il sole,
illumina i ricordi
appesi come quadri alle pareti.

(…)     
Ora vorrei partire. È giunto il tempo.
Vivo ormai ai confini dell’oblio (Ai confini dell’oblio).

Partire; un tema da Voyage baudelairiano: “Ô Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!/
Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!”, che esprime il desiderio del poeta di lasciare
 la vita, tratto breve e doloroso. E nella Nostra c’è intensa l’idea che l’esistenza sia il tempo prestato dalla  morte e  che  lo spazio ristretto di un soggiorno sia destinato a finire proprio nell’oblio; “Tra noi e l’inferno o il cielo c’è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile del mondo” (Blaise Pascal, Pensées); d’altronde la vista terrena non è assai forte da allungare sguardi oltre le ristrettezze del nostro esistere. Ed è proprio per questo, per la sua plurale problematicità, che la silloge raggiunge stadi di tale potenza umana da declinarsi in un lirismo oggettivamente contaminante, e a noi vicino, dacché sono il senso del mistero, e l’incapacità di avvicinarsi al tutto, a creare quelle inquietudini esistenziali che oltre a colpire la nostra essenza ontologica, si fanno anche terriccio fertile per un buon poièin. Per una poesia che si ciba di tristezze e solitudini, di voci e di canti, di tragedie e giovani amanti, di sogni e di storie reinventate:

Sono cresciuta ascoltando le storie
narrate attorno al fuoco del camino,
storie di miracoli e di santi,
di avventurieri e grandi peccatori,
storie di tragedie e di giovani amanti
partiti per la guerra e mai tornati,
storie di pozzi dove ci si sentiva,
di donne ritenute vere streghe,
di pozioni, di filtri e sortilegi,
di licantropi e di cani fedeli.

            (…)
Vorrei tornare ad ascoltare storie
che mi insegnino il senso della vita.
Dopo che da quel posto son partita,
si spensero i camini ad uno ad uno,
si serrarono gli usci
e l’ombra ha ricoperto già da tempo
le strade di un paese in agonia (Attorno al fuoco).

Quanta humanitas in questi versi, quante pulsioni che richiamano alla plurivocità di una storia, alla polisemica significanza del suo estinguersi, all’ombra che “ha ricoperto già da tempo/ le strade di un paese in agonia”.            
Ma quello che alfine domina in questa plaquette di urgente impatto umano è l’amore per la vita, quella a venire, anche, perché la Magnani è pienamente cosciente della sua sacralità, della sua  bellezza; ella la ama, ed è per questo che ne rimpiange i momenti migliori; ed è per questo che la rivive con dolore e con nostalgia, quasi le fosse sufficiente rievocarla per farla di nuovo sua; per trasferirla, tutta intera, in un sorriso che sa tanto di amore:

 Mi appari nel pulviscolo dei sogni
       – quelli dell’alba, ricchi di promesse - .
Guardo sul cassettone la tua foto,
filtra il non detto in lampi di sorriso (Lampi di sorriso).


Nazario Pardini



DA:


Un pugno di sogni
nel cuore


Immagini e parole

La fantasia affonda le radici nel mondo incantato dell’infanzia
dove ritrovo immagini e parole che regalano ancora
carezze d’erba, profumo di lavanda e di mentuccia,
sapore di latte appena munto, di pere, pesche, noci e di uva fragola.

            Quando incontro, pescando nel passato,
            un’eco, un’immagine, un’idea ancora informe,
            ma che sprigiona reminiscenze antiche,
            vorrei usare le parole giuste, parole che trascinino
            la mente in danze poetiche eteroclite, parole spumeggianti,
            in movimento, da accogliere in ondate successive.

Vorrei trovare termini accessibili, che tocchino
altri sensi, oltre l’udito, parole che presentino
visioni simili a folgoranti scorciatoie,
parole vellutate o che scintillino, parole dolci
o dalla scorza ruvida, parole che mi scavino
nell’anima e non mi diano pace.

            Vorrei capire il senso di vertigine che mi prende
            davanti al foglio bianco o mi assale talvolta, se rifletto
            per affidare ai versi i ricordi, gli affetti, i sentimenti…
            ma si tramuta in lacrime il pensiero.

Oggi capto soltanto le parole che vorticano a frotte
nel cervello, ora sbrigliate, pronte, originali,
ma talvolta un po’ assurde, indecifrabili o inghiottite
da altre più banali, scontate, ingenue, prive di sorprese.

            Se afferro, per fissarlo sulla carta, il filo evanescente
            di un’idea, provo la sensazione di presenze
            annidate nell’intimo, immagini globali, suoni, lettere,
            fonemi rettamente segmentati, sillabe compitate
            mentalmente, insiemi che cavalcano sull’onda
            dei pensieri, come cavalli in corsa, da domare.


  
Lasciate…


            Lasciate che contempli la mia terra
negli angoli che furono la culla
dei sogni di un’infanzia spensierata.

            La peschiera selvaggia, pittoresca
mi offriva suggestioni da epopea quando, armata
di un palo come remo, tentavo traversate
fra le sponde su improvvisate zattere.

            Nelle ore assolate del meriggio erano specchio terso
le sue acque verdastre; tremavano increspandosi al vento
di tramontana che passava d’inverno sibilando
tra le fitte gaggie del terrapieno.

            Lasciatemi toccare con la punta
delle mie dita ormai intorpidite quell’acqua gelida
per ridestare sogni e sensazioni. Nel tremolìo confuso
delle immagini vedrò la mia figura capovolta
circondata da alberi e da fiori, leggerezza di nuvole sul capo.
Nel riflesso di luci e di colori forse
potrò captare trame di progetti incompiuti,
struggimento di magiche emozioni,
confini di un perduto paradiso.

            Lasciatemi ammirare la leggerezza
d’ali di libellule e le fronde dei salici piangenti
che scendono adoranti a baciare la punta dei canneti.

            Lasciatemi ascoltare il richiamo di anatre
e di alzavole, l’insistente gracidare di rane,
serenate di grilli nelle notti di luna.

            Lasciatemi lanciare sul pelo di quell’acqua
un sasso piatto che faccia rimbalzello.
Non potrò fare a gara con nessuno,
solo recuperare un po’ d’infanzia.


Attesa

            Ridatemi il richiamo di mia madre
che aveva voce tersa di cristallo,
chiara e squillante
come le mattinate di febbraio
che risplendono ancora
sul ghiaccio screpolato del mio inverno.
            Ridatemi il suo sguardo inquisitore
che mi frugava l’anima
e vigilava sulle mie tristezze.
            Ridatemi parole di saggezza
versate a gocce sopra i miei tormenti,
quelle sue mani abili e sollecite
sulle mie carni tenere
vittime di cadute e ruzzoloni.

            Ora sento
l’incolmabile abbandono.

            Stordita dal frastuono
di un lungo silenzio inappellabile,
avanzo timorosa barcollando
sopra le incerte sabbie del futuro
senza udire il rumore dei suoi passi
e più non vedo quei suoi occhi azzurri
capaci di carpirmi ogni segreto.

            Soltanto nel ricordo
di tutto quello che di lei ho amato
sarà dolce l’attesa dell’incontro.


Perdute stagioni

            Nell’autunno che alterna dissolvenze
di colori e di voci, riaffiorano
alla mente le memorie
d’altri luoghi e di volti, del vissuto.
            Gli echi dei miei filari, fiochi, tentano
ascensioni a questo romitorio
dove vivo reclusa;
e pure un gesto, un suono
mi riportano alle opime vendemmie,
ai canti lenti, al ruggire del Recchio
gonfio d’acqua, all’asprigno
profumo di vinacce.
            Esplodono dai malli delle noci
aspirazioni effimere
e oscure profezie se mi smarrisco,
a volte, dentro un sogno
che accende la memoria.
            Allora si sprigiona un alitare
di perdute stagioni
naufragate nel mare di epoche
lontane, ormai concluse.
Eppure è molto breve
lo spazio che intercorre fra due vite.
            Qui il tempo è fermo, in bilico,
sospeso tra quel che fui
e non sarò mai più
e il mio domani ignoto.
Ad altri lidi approderà il veliero
arreso al vento
che lo sospinge al porto della quiete
mentre declina il giorno e la sua luce.




  

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