Gugliemo Aprile
IL
TALENTO DELL’EQUILIBRISTA
Guglielmo Aprile. IL TALENTO DELL'EQUILIBRISTA. Ladolfi Editore, 2018 |
Una
poesia incalzante, generosa, empaticamente vicina, e splenneticamente moderna,
attuale per le sue nervature ontologiche, per i suoi sobbalzi esistenziali. Si
parte dalle piccole cose, dai minimi avvenimenti e se ne fa materia di studio e
di rielaborazione in vista di una routine che ci sfiacca:
Me ne intendo di cose che finiscono.
La pioggia laverà
senza troppa fatica né scrupolo
dichiarazioni d'amore e scritte oscene
sui muri della stazione...
Come
se tutto fosse labile e volatile; come se ogni cosa, dall’amore alle scritte
oscene..., passasse e finisse nell’oblio al primo sciacquio della pioggia.
Stare
in equilibrio. Camminare sul filo della vita, in precarietà, coscienti del
potere del tempo; della portata della clessidra che misura impietosamente il
tragitto prestatoci dalla morte: le memorie, l’inquietudine dell’esser-ci, la
riflessione, la saudade, il fatto di vivere in spazi ristretti, la dicotomica
frattura fra la nostra terrenità e
l’aspirazione al tanto. Un realismo lirico di stampo capassiano, che
tanto si avvicina al correlativo oggettivo di memoria eliotiana. Ma qui c’è
l’ego, il pensamento, la filosofia minimalista, la melanconica intrusione vicissitudinale
che alimenta il “poema”. E quindi lirismo, anche, dacché il poeta sviscera il
suo stato emotivo in versi caldi e impetuosi; in plastiche visività
epigrammatiche. E tutto passa come le foglie cadute in un autunno ventoso,
magari nell’indifferenza del mondo, delle sorti che guidano il divenire:
Tanto si finisce scaricati
in ogni caso
in un cimitero di scarpe rotte,
tutto intorno papaveri in coro
che fiammeggiano indifferenti;
una botta con il giornale e la mosca
è una macchia su un muro, e sarà
come se non fossimo mai nati.
Questo
è il nocciolo dell’opera: una plaquette che con forza estremamente oggettiva e
plurale ci acchiappa e ci coinvolge. D’altronde è umano correre per le strade
usuali, schiavi dei vortici della vita, senza dare sguardi a ciò che ci
circonda; alle bellezze che abbiamo di fronte: correre, correre, correre è
tutto ciò che ci viene richiesto e noi obbediamo come robots. Sta in questo
dualismo, in questa contrapposizione fra noi e il tempo; fra thanatos ed eros;
fra la luce e il buio; fra il nulla e il tutto, il filo conduttore che dà
compattezza e substantia al dettato poetico. Il verso corre limpido ed
essenziale, si fa cavalier servente di un animo zeppo di vicende; si amplifica
o si riduce, si fa apodittico o fluente in base all’intensità delle confessioni.
E ciò che ci convince sta proprio nell’equilibrio che l’autore riesce a
raggiungere fra dire e sentire, cosa non facile in questo mondo di
pubblicazioni arruffate e senza voce.
Si
parte da una visione piuttosto realistica, quasi da NOE, o da contaminazione
anceschiana, sull’esistere e i suoi movimenti abituali sterili e ripetitivi:
presto avrà fine questa serie
di oneri
così sterile,
digitare il codice di accesso,
orientare lo stendibiancheria
verso nord al mattino,
andare ad urinare ogni tre ore.
Un
andazzo di nichilismo spirituale, lo direi, se non ci fosse tanta vera Arte,
tanta fresca poesia a indirizzare lo sguardo a sfere di alta contaminazione
psicologica, dove la metaforicità ed il parallelismo fanno da assi portanti alla
struttura poematica: oggetti ricevuti,
albergo sgraziato. Quasi una liberazione, la morte, da un assedio di
circostanze assurde e sgraziate:
questo regno dei cieli quando
arriva,
in ogni fine c’è una
liberazione,
sono impaziente di restituire
gli oggetti ricevuti in
prestito,
spero di lasciare questo
albergo sgraziato
al più presto.
Ma
quello che più tormenta il poeta è il fatto di essere relegato in spazi
limitati; in ambiti tanto ristretti da poter solo sognare quello che va oltre; magari
potersi riposare ad una frescura e da lì estendere la vista oltre l’orizzonte
del mare o al di là dei limiti dei colli; sì, avere questo tempo ed esserne
padroni, ma la corsa è così veloce che nemmeno ci accorgiamo di avere vissuto:
nemmeno facciamo caso
al ricco paesaggio lasciato
dietro,
un attimo e si è già a
destinazione
senza accorgersi come.
Forse
Guglielmo Aprile ama troppo la vita, questa vicenda irripetibile che a lui è
toccata. Ne conosce la sacralità, il valore etico, la bellezza. Ed è per questo
che il suo dire si fa acerbo, di un
realismo a volte crudo, risentito. Vorrebbe che fosse sua più a fondo, più
pulita; vorrebbe che le sue grazie durassero più a lungo e che certi limiti non lo condizionassero e che gli
uomini fossero più vicini, più compatti, per
sopperire, con spirito leopardiano, alle magagne di cui la stessa natura
umana è portatrice. E soprattutto desidererebbe non essere preso per matto qualora
immaginasse, da vero poeta, di poter toccare il cielo con un dito o magari di
ritornare bambino per fare ciao agli aeroplani come se i passeggeri potessero
vederlo:
I bambini fanno ciao
all’aeroplano
come se i passeggeri potessero
vederli
e corrispondere il loro gesto,
per l’uomo che prega
l’universo deve avere pareti
sottili,
il buio della stanza
è un compagno dal tenero
orecchio
con molto tempo da spendere in
pettegolezzi;
ma il letto vuoto è solo un
letto vuoto,
chiunque non parla che a se
stesso con chiunque parli,
molti i numeri di telefono non
più attivi,
molti i domicili rimasti
sfitti; testimone unico
dell’apparizione della stella,
non raccontarlo in giro o ti
daranno del matto.
Una
poesia piena, quindi, melanconicamente cucita su stati d’animo reificanti
osservazioni, meditazioni, considerazioni e conclusioni, anche, sulle cose che
ogni giorno giocano col nostro esistere; e tutto sembra scivolare nella
dimenticanza; anche quei nomi epigrafati sulle lapidi saranno destinati ad un
magazzino anonimo, pronti ad essere riciclati: un nulla, un niente, ultima
meta:
La
prostituta si scorda subito dopo
della
faccia del cliente:
così
anche il mondo
di
noi, appena ci chiudiamo dietro la porta.
Un
sentimento negativo sul mondo e sugli esseri sembra dominare nel corso delle
pièces; nel diacronico succedersi dell’opera; o meglio un realismo spietato che
declina, ictu oculi, lo svolgersi apparente delle situazioni terrene e
ultraterrene. E cosa rimane, alfine?
ecco
che rimane
delle corse sul bagnasciuga,
sabbia su sabbia, e il silenzio del mare.
Considerazioni che ogni essere umano è portato
a fare, seppur dotato di talento da equilibrista, quando vive i suoi giorni in
bilico fra lo scorrere della vita e l’impero della sorte.
Nazario
Pardini
DAL TESTO
Di
questo passo
Ci si incammina verso una
probabile
liquidazione totale,
a breve è previsto
l’esproprio,
dichiarato incapace di
intendere e volere
il vecchio che provvedeva a
sfamare
i piccioni dell’intero
quartiere;
a partire dal primo di ogni
mese
scatta la detrazione,
la confisca è immediata,
le ali di paglia finiscono
all’asta,
si mettono i sigilli
ai cassetti in cui non abbiamo guardato,
si archiviano le domande
scadute per decorrenza dei termini.
Tirando
le somme
Quanti leoni mandati in
pensione
e come approdo
un'insalata condita male per
cena;
tutto un adoperarsi
per riempire bottiglie forate,
per battezzare un falò
dall’erba umida;
l’incontro galante sospirato
per mesi
si è concluso in una mezza
cilecca,
nemesi di chi spera.
Solo le mosche si salvano
dagli incendi,
eredi uniche, ironiche
vincitrici sull’apocalisse.
Foce
del mondo
Il bidone dell'indifferenziata
trabocca ogni giorno di più
di cartoline dalla luna di
miele
e attestati di frequenza,
due foche morte sul cuscino,
giuramenti d'amore
e notti in ospedale.
Tanto si finisce scaricati
in ogni caso
in un cimitero di scarpe
rotte,
tutto intorno papaveri in coro
che fiammeggiano indifferenti;
una botta con il giornale e la
mosca
è una macchia su un muro, e
sarà
come se non fossimo mai nati.
Nessuno ci riconoscerà nelle
foto,
nessuno interromperà il
brindisi
per aver notato un posto
all'improvviso vuoto;
i rematori non smettono di
vogare
nemmeno se il mattino dopo un
altro manca all'appello;
la comitiva, al rientro,
conta sempre qualcuno di meno
rispetto al numero dei
presenti alla partenza:
ma fatica a ricordare
nome e connotati di chi
risulta disperso
o è caduto in un dirupo.
La prostituta si scorda subito
dopo
della faccia del cliente:
così anche il mondo
di noi, appena ci chiudiamo
dietro la porta.
Ringrazio il prof. Pardini per la sua bella lettura, di cui non posso che sentirmi lusingato, per aver colto nei miei versi qualità che vanno ben oltre i miei meriti effettivi. Io, sinceramente, mi ritengo ancora distante da una piena maturità di stile: troppe cose in me rimangono inarticolate e mute, non hanno trovato le parole giuste per rendersi comunicabili(non sono riuscito a trasporre sulla pagina il dissidio schopenhaueriano tra realtà e apparenza, la sensazione del muro di cartapesta che ci circonda, oltre il quale una rivelazione terribile temo che ci attenda...)
RispondiEliminaDevo lottare con una certa refrattarietà delle parole a piegarsi ai miei intenti espressivi. Temo l'oscurità del senso: una poesia che non renda il mondo interiore di chi l'ha scritta con la massima approssimazione possibile, e nella quale il lettore non si immedesimi come se quelle parole fossero le sue, è per me una poesia incompiuta.
Il quotidiano c'è, ma è ritratto in immagini surrealisticamente stravolte, e si fa trampolino agli interrogativi metafisici, il cui slancio si rovescia però in amara demistificazione degli inganni su cui si regge la 'maya' della nostra esistenza. Credo che il nucleo esistenziale del libro sia il verso "la verità o la vita, o l'una o l'altra", perché inquadra quella incompatibilità fra sapere ed agire che ebbe inizio a partire dall'Edipo di Sofocle e proseguì con l'Amleto, come ha rilevato un saggio di K. Jaspers 'Sul tragico', vero presupposto alla mia modesta raccolta...
Guglielmo Aprile