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giovedì 31 maggio 2018

N. PARDINI LEGGE: SAURO DAMIANI: "QUARTINE E ALTRE POESIE"




Sauro Damiani si presenta alla scena letteraria con questa nuova plaquette editata per i caratteri di Edizioni La Torre, nel maggio 2018: Quartine e altre poesie, il titolo. Una maniera tutta personale di fare poesia e di sviscerare sentimenti e pensieri sul fatto di esistere. Lo sguardo all’oltre, direi, ma niente di escatologico o di metafisico; piuttosto un’ascesa, una scalata, una verticalizzazione, per usare un temine calcistico, verso la luce; insomma una visione plurale e luminosa dei fatti della vita, anche dei più esiziali, in un quadro di ritmica e armonica sonorità: fare delle cose più umane una paradigmatica esemplificazione per trarne conclusioni di filosofica e ontologica costruzione luminosa.  Settanta quartine che “esprimono la mia concezione domenicale della poesia...”, scrive il poeta nella sua prefazione. E continua con il seguente esemplificativo stralcio, che, credo, essenziale per conoscere il succo della sua poetica:
“... Lo sguardo in alto, se c’è, è quasi sempre timido, come se sui poeti incombesse ancora il fantasma del superomismo di cartapesta del Vate pescarese. Lo credo anche io. Perciò nelle mie quartine predomina la luce. Non vi è ignorata l’ombra. Ma da molto, troppo tempo, con l’affermarsi e il radicalizzarsi del nichilismo romantico, sembra che solo essa debba essere il tema della poesia, che solo il negativo sia adeguato al sentire di un uomo adulto e secolarizzato... Per chi non conosce Nodi né le poesie pubblicate sul primo numero della rivista on line Leuké, faccio seguire alle quartine alcuni inediti, scritti il 2008 e il 2018.”.

Dal testo:

35
Dio soltanto fa crescere. A te spetta
gettare il seme, non cercare il frutto.
Forse domani morirai? Getta
Il seme e va’. Nulla sarà distrutto.

40
La primavera splende come un sole.
Gli uomini sembrano dorati dei.
Sono giochi di luce le parole.
Non andrai in cielo, se già non ci sei.

55
Lontano splende il sole, ma trasforma
la vita nostra, celeste vicino.
E la terra profonda par che dorma
ma, sposa al sole, dona pane e vino.

Sì, ci saranno ombre; d’altronde se si vuole essere coerenti per ciò che riguarda la vita, bisogna anche descriverne le opacità, le aporie; ma altra cosa è fare poesia solo e soltanto colle vicissitudini negative: non è vero che per essere poeti bisogna soffrire o aver percorso le tappe della via crucis; qui sembra che ogni ombra abbia bisogno di luce per vivere.

Nazario Pardini

martedì 29 maggio 2018

SAGGISTICA: IL PADUS AMOENUS A FRANCO CAMPEGIANI


Segnaliamo con piacere il link di una testata on line che riporta la notizia del premio ottenuto da Franco Campegiani al Padus Amoenus.

MARCO DEI FERRARI: "L'UTOPIA POETICA NEL "PROGETTO" DI MARISA COSSU"



Marco Dei Ferrari,
collaboratore di Lèucade

COMMENTO DI MARCO DEI FERRARI AL SAGGIO SULLA POESIA DI MARISA COSSU PUBBLICATO SU LEUCADE IL MESE DI MAGGIO COME DA LINK

https://nazariopardini.blogspot.it/2018/05/marisa-cossu-per-un-progetto-di-nuova.html


L'UTOPIA POETICA NEL “PROGETTO”
di
MARISA COSSU

Marisa Cossu in un pregevole prospetto-progetto analitico ha ricercato un “senso” al “fare” poetico contemporaneo e ci offre spunti di ragionamento molto intensi e stimolanti.
Ad esempio: le ricerche “neuro” in atto; il rapporto artisti-scienziati in divenire; il correntismo-frazionismo dilagante; il dominio irreversibile del mercato che uccide la libertà creativa dei poeti (artisti); il declino dei “temi” fondanti e del linguaggio (confuso) ancora lontano da un “nuovo” tracciare poetico...
Tali considerazioni sono rilevanti per il secolo XX come la compatibile assonanza tra principi  socio-politico dominanti e risposta poetica sino alla barbarie e all'orrore del martirio di intere popolazioni.
In effetti dopo il 1945 (così Adorno sembra esprimersi) si stenta a trovare la via artistica della libertà, dell'amore, della bellezza, ecc. e si entra in un intimismo manieristico e micro-letterario ovvero in un rifugio privato e personalizzato che rifiuta l'oggettività della realtà circostante dei fattori storici-socio/culturali-economici.
La sequenza successiva e l'avvento del tecno (intelligenza artificiale,robotica, ciberspazio, ecc. ecc.)costituisce la negazione finale dell'espressività libera e umanistica da qualsiasi punto di vista.
Le persone e le cose si smarriscono nel digitale e il web domina la scena.
Non basta il “travaso” poetico di Contini, né bastano gli “indicatori” di Domenici (citati dalla Cossu): tutto il 900 poetico viene travolto  dal dilagante potere della tecnetronica mediatica: né dolore, né amore possono resistere al tornado, perché l'essere umano trasformandosi progressivamente perde valore e consistenza e rinnega quindi i valori-fondatori.
Non basta la tradizione, né lo “sperimentalismo” frenetico denunciato da Nazario Pardini, né il “volo” perduto del poeta oltre il confine nel tentativo estremo di attirare in versi il sentire e la condivisione di sentimenti nobili, ma in crisi. Neppure è sufficiente la capacità dell'attività poetica di cambiare il mondo come sostiene Octavio Paz. L'empatia tra artista-opera-fruitore si riduce ad un'espressività pubblicitaria ingoiata dai   mass-media tecno: nulla di più.
Oggi la “poesia” è solo un'indicazione linguistica, un esercizio schematicamente vuoto che non cambia nulla, ma subisce la globalità del tutto e Linguaglossa con il suo coraggioso lodevole obiettivo (il grande progetto) si trasforma in filosofo di un'ontologia estetica che rimane confinata negli ultimi residuali “umani” operatori di arte letteraria, in attesa della “rivoluzione” definitiva che robot e avatar (immagini in rete) umanoidi tradurranno in estinzione nella “realtà virtuale” di valori e memorie emozionali.
Il futuro è iniziato. Comunque sia rimane interessante il “progetto” (a mio avviso senza speranza) di Marisa Cossu che ritengo “difensore” in trincea estrema di stimoli comunicanti già peraltro condannati dal XXI°secolo irreversibilmente. “Rifare l'uomo” è l'appello iniziale del “progetto”, ma di quale “uomo” stiamo parlando? Di quale prospettiva etica o di quale interiorità discutiamo nel mondo dei robot super-intelligenti, dei post-umani con banchi di memoria caricati nel cervello e impianti per affinare i sensi eliminando i geni letali?
Si prevede che la nostra “intelligenza biologica” sia solo un fenomeno transitorio nell'evoluzione universale e che entro il 2100 sarà predominante la presenza di robot forse non “separati” da noi, ma connessi. Tutto ciò dimostra che l'interiorità quale oggi concepiamo, si relega in mini-dimensioni marginali destinate alla scomparsa.
Il futuro è iniziato; la gestualità interiormente creativa come la “poesia” (così oggi la interpretiamo) è finita.  

Marco dei Ferrari           

VALERIA SEROFILLI: APPUNTAMENTO LETTERARIO


Lèucade informa che la scadenza del premio Astrolabio è stata prorogata al 10 giugno per le numerose richieste da parte degli autori


Valeria Serofilli, docente, saggista,
critico letterario 

APPUNTAMENTO LETTERARIO CON LA PROFESSORESSA VAERIA SEROFILLI

Il 31 maggio alle ore 17:30 un nuovo appuntamento letterario con la professoressa Valeria Serofilli, presidente fondatrice di AstrolabioCultura, con due variazioni di rilievo rispetto alla prassi ormai consolidata: una la sede, invece dello storico caffè dell'ussero,  la moderna e funzionale biblioteca SMS di San Michele degli Scalzi, l'altra l'oggetto della presentazione, che non saranno editori, libri e riviste presentate dalla Serofilli ma le sue due più recenti pubblicazioni "Ulisse"(racconti) e "Vestali"(poesia) entrambe edite da Ibiskus Ulivieri Editrice, anche se la raccolta "Ulisse" era già uscita in versione e-book nel 2014 per La Recherche di Roberto Maggiani.Dialogherà con l autrice Giuseppe Panella della Scuola Normale Superiore di Pisa.Letture di Rodolfo Baglioni e Cristina Sagliocco, sax contralto di Luca Mariotti.
Valeria Serofilli, insegnante di  Lettere, come operatrice culturale è Presidente di AstrolabioCultura, associazione che promuove il Premio Nazionale di Poesia “Astrolabio”e gli Incontri Letterari presso il Caffè storico dell'Ussero di Pisa e di Villa di Corliano. ( www.corliano.it). Ha diretto dal 2004 le collane "Passi - Poesia, I libri dell'Astrolabio" per puntoacapo Editrice di Novi Ligure, annessa all’omonimo premio letterario e “I Quaderni dell’Ussero” (Collezione di puntoacapo) nonché dal 2015 “Le PetitUssero”, Quaderni collettivi  per l’editrice Ibiskos Ulivieri di Empoli (Pisa);  cura il sito personalewww.valeriaserofilli.it .E’ autrice di poesia di cui ha pubblicato 11 libri, saggistica, critica letteraria e testi di prosa.
Poesia
Sua opera prima è Acini d’Anima  (Pisangrafica, Snc,Pisa, 2000);
 Tela di Eràto, (Sovera Multimedia, Roma, 2002) nella Collana “La Fronda Peneia”, con nota critica di Giorgio Bàrberi Squarotti;
Fedro rivisitato (Ed. Bastogi, Foggia 2004), collana di poesia “Il Capricorno”, curata da Maria Grazia Lenisa, con prefazione di Dino Carlesi e nota critica di Giorgio Bárberi Squarotti;
il cofanetto libro con audiolibro Nel senso del verso (Ed. ETS, Pisa 2006), contenitore multimediale che comprende un estratto delle varie raccolte poetiche dell’autrice e nuove poesie, recitate e interpretate liricamente, con accompagnamento musicale al pianoforte e clarino, rappresentato al Teatro Verdi di Pisa in forma di spettacolo;
Chiedo i cerchi (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure, 2008);
Nel senso del verso - Nuovo Volume (Leonida Edizioni, Reggio Calabria 2009) opera vincitrice del Premio Gaetano Cingari 2008;
Amalgama in Valeria Serofilli - La parola e la cura (Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2010), Collana I quaderni di Poiein.;
I Quaderni dell’Ussero - Valeria Serofilli (Collezione di puntoacapo Editrice 2013) nell’ambito della Collana da lei stessa diretta fino al 2015;
l’ebook antologico di poesia Resoconto e senso ( LaRecherche 2013);
Vestali, ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa, 2015);

 Racconti
Racconti brevi, (alcuni inseriti in Pisanthology della collana antologica di Perrone editore,  già finalisti al premio Teramo 2005 e vincitori del Castelfiorentino 2007); raccolte di racconti brevi per ragazzi “Comete per la coda” pubblicati nei volumi antologici I Quaderni di Dedalus - Annuario di narrativa contemporanea 1 (puntoacapo Editrice , Novi Ligure 2014);
 “Come essere tondi in un mondo di Quadrati” e altri racconti,  pubblicati nei volumi antologici I Quaderni di Dedalus - Annuario di narrativa contemporanea 2, (puntoacapo Editrice , Novi Ligure 2014);
 l’ebook antologico di racconti Ulisse (LaRecherche, 2013);
Ulisse, versione cartacea dell’ebook ( Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli,Pisa,2015);
 
 Critica letteraria
Serie I Quaderni dell’Ussero  da lei curati e  prefati (puntoacapo di Collezione,2010,11, 12, 13, 14.).
 
La figura femminile nella poesia barberiana in:

Passione Poesia, letture di poesia contemporanea 1990-2015 (CFR Edizioni) a cura di Aglieco, Cannillo,Iacovella.
 
Passione Poesia, letture di poesia contemporanea 1990-2015 (CFR Edizioni) a cura di Aglieco, Cannillo,Iacovella.
 
E’ inserita in Letteratura Italiana dal secondo Novecento ad oggi (Bastogi, Foggia 2007, vol. 1) e in numerose antologie e riviste italiane e straniere fra cui “Gradiva” e “Lo Scorpione Letterario”.
E’ stata ospite di  trasmissioni televisive nonché radiofoniche tra cui Radio Alma di Bruxelles,  la rubrica culturale La Tela Sonora, e nel programma Carta Vetrata curato da Gaffi Editore di Roma.

In qualità di saggista ha pubblicato il volume I Gigli di Nola, pp. 254, Rotary Club, Nola – Pomigliano d’Arco, 1993. 



venerdì 25 maggio 2018

FLORIANO ROMBOLI: "SAGGIO SU N. PARDINI"


E’ uscito il libro del critico Floriano Romboli “L’azzardo e l’amore. La ricerca poetica di Nazario Pardini” editato per i caratteri di The Writer Edizioni, 2018


Un saggio di 150 pag. sull’attività letteraria di N. Pardini, nutrito di citazioni poetico-saggistico-narrative tratte dalle sue prime pubblicazioni fino alle più recenti del 2018. Il Prof. Romboli, laureatosi alla Scuola Normale di Pisa, e ordinario di Letteratura  Italiana, vanta al suo attivo scritti di notevole interesse: si è dedicato alla cultura rinascimentale, studiando soprattutto l’epica del Tasso; è poi passato ad occuparsi della letteratura italiana ed europea fra Otto e Novecento, nonché di narrativa e di poesia contemporanee. È stato docente di letteratura italiana presso la Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) dell’Università di Pisa. Tra le sue numerose pubblicazioni: Un’ipotesi per D’Annunzio, Pisa, ETS, 1986; Le ragioni della natura. Un profilo critico di Bino Sanminiatelli, Chieti, Solfanelli, 1991; La letteratura come valore. Scritti su Carducci, D’Annunzio, Fogazzaro, Torino, Tirrenia Stampatori, 1998; Fogazzaro, Palermo, Palumbo, 2000; Natura e civiltà, Palermo, Palumbo, 2005. Ha curato l’edizione dei Racconti di Fogazzaro (Milano, Mursia,1992) e di opere di Bino Sanminiatelli e di Eugenio Niccolini. Collabora a riviste specialistiche e a periodici di cultura generale e politica.
In definitiva, una proteiforme selezione che, sotto la penna vigile del Prof. Romboli, permette di conoscere a fondo il pensiero, lo stile, e la poetica dell’autore.
Per ordinare il testo:
Casa Editrice e-mail:  thewritersrl@gmail.com
Casa Editrice tel: 345/9777527

                                 

RITA FULVIA FAZIO: "INEDITI"


Rita Fulvia Fazio

Infinità
(A Giacomo Leopardi)

C'è acqua e vento 
nel giorno di violenza 
che la sera 
raccoglie
E pure
è giunta
E scende 
col suo manto ombroso
ad offuscare la luna
ma mai spegne 
gli arditi sogni
E mostra il luccichio
che memoria
le altrui doti
E veemente spero 
che il suo sogno
continui col mio
E sollecita e lesta 
il mio sguardo 
estendo
a rimirar le stelle
E strappa una
all'altra 
a donare questa
a quella 
E pari 
la sua alla mia 
l'infinito dolcemente emula nel di Lui infinito
Eppure oltre  
io migro 
nei suoi versi 
odo l'ode
che fu gioia 
e affanno
Senti 
Risuona nell'aria 
il ritmo antico e aulico
che è 
vita alla vita
che è 
lode all'arte 
della meraviglia ancestrale.






giovedì 24 maggio 2018

RODOLFO LETTORE: "LINKS DI POESIE RECITATE"

https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/248042449270574/
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https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/posts/248280879246731
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/248476872560465/
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/248477325893753/
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/posts/248478065893679
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/248478279226991/
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/248478912560261/
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https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/250608782347274/
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/250609259013893/
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/250609709013848/
https://www.facebook.com/letture.dirodolfo.1/videos/250610662347086/

PASQUALINO CINNIRELLA: "IN MORTE DI G. FALCONE E P. BORSELLINO"


PALERMO  23 MAGGIO 1992
             In morte di G.Falcone e P.Borsellino

                    

I fiori d’arancio nella “ conca “ (*)
ora stilleranno gocciole di sangue
dai petali ridenti nell’aria
di un maggio senza nubi;
e dalla mia terra, che piange da secoli
lacrime perenni d’abbandono,
fuggirà per sempre il sogno di un riscatto.
Muore con noi ciò che edificammo
(in un’icona giusta di rivalsa)
e nel tempo di un tremore che divelse
anche suoli lastricati nel lampo del boato.
Come detriti, dall’alto di un cielo senza macchia
cadde, senza più alito d’eterno, la fragile carne
frantumata, intrisa nella lamina contorta
- e il pensiero audace;
così la fede nei giorni del domani
squarciata ancora come un velo sacro
in un tempio tra i  “ gentili ”.
Fuggì in un lampo la colomba spaventata;
attonita, più non tornerà tra quei rami e fiori
a covare, nel chiuso delle foglie, germi di vita
su un nido di speranza che s’attesta illuderci
nei giorni che verranno e che qui s’anela,
nell’ansia così forte, più che l’amore sappia
quando il verde dell’età sommuove.
Olocausto inutile alla storia che esige oramai
nuovi capitoli e certezze…in un tempo di rapidi eventi.
Dal sangue raggrumato nel fondo della conca
rifioriranno solo petali neri di fiori intonati
alla moda di quei lunghi scialli
delle nostre madri  ancora come sempre addolorate.
A latere degli steli, come in un angolo,
in silenzio per lo strazio,
il cuore del sicano ...è pietra millenaria.

(*) La conca d’oro di Palermo
Giu. 1992/ 35    

              

mercoledì 23 maggio 2018

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "COME VELE BRUCIANTI" DI M. T. CODOVILLI



LIKE BURNING SAILS
(COME VELE BRUCIANTI)
testo poetico (bilingue) di Maria Teresa Codovilli
(Gradiva Publications)

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade


Uno sperimentalismo sui generis quello di Maria Teresa Codovilli, che ha dato recentemente alle stampe Like burning sails (Come vele brucianti), testo bilingue, tradotto in inglese da Ada Ugolini Filippini. Edite da Gradiva Publications, queste pagine propongono il suggestivo fuoco pirotecnico della nota poetessa di Cattolica, con quel suo stile inconfondibile che non ha alcunché di fatuo o di effimero, come è tipico dei tanti sperimentalismi usa e getta dei tempi attuali, ma che attinge al mistero semplice e complesso della coscienza cosmica, di cui nulla si sa e nulla si può sapere, ma che balena nella creatività dell'uomo, se e quando sia libera dai miasmi dell'ego, dal manierismo eccentrico che troppo spesso s'impone (non da oggi) nelle formule espressive.
Il fuoco della Codovilli non è intellettualistico, non è costruito a tavolino e risulta appeso all'incontro/scontro incandescente dell'Essere e del Tempo, perennemente divergenti e convergenti tra di loro. Un moto oscillante che cattura l'armonia nella frammentazione stessa dell'immenso mosaico. Armonia di contrari. Dodecafonia, musicalità viva e stridente. Luce sghemba e paradossale che sgorga dal connubio inscindibile di negazioni e affermazioni. Poesia ossimorica, contraddittoria in superficie, ma armoniosa nel profondo, capace di evocare l'ordine implicito, incomprensibile, che governa dall'interno tutte le cose, giacché sta nella frattura, nella moltiplicazione, il segno inconfutabile della presenza dell'Uno.
Poesia di conoscenza, pertanto, nuova nel diorama sostanzialmente manieristico e narcisistico dei tempi attuali. Lo sperimentalismo della Codovilli fa spicco perché non è un gioco di prestigio, ma è interrogazione tesa alla ricerca della "fonte-poesia che disseta". E' atto che attende "la profezia possibile a intravedere ancora / un esito di rinascita e di luce". "Brucio d'insonnia / nella notte illune/ - quando, l'aurora?", si chiede la poetessa. E ancora: "Dove va tutto questo verde, il prato / il campo / la selva?", "da quale immenso dove primario viene, / e a quale dove si avvia / quando lo divora l'inverso cammino?". Dove tutto scompare, da dove tutto viene? Poesia appesa al tempo sacro delle origini, al big bang intramontabile che è sempre con noi, vicino a noi, a dispetto di ogni caducità, e anzi proprio in virtù di essa.
Noi viviamo e vivremo sempre nella magia delle origini, almeno fin quando un fiore nascerà e fin quando dal profondo potrà germinare la vita. La creazione è perenne, come ogni spirito creativo sa. E il poeta è un tramite attraverso cui è la vita stessa a cantare, rinascendo in continuazione "da un altro dove, / in un diverso come, / a un nuovo altrove". Poesia metafisica, pertanto, e per questo problematica, colta in una terra di mezzo, "duplice sete di  partenza e di definitivo approdo". Si è in una posizione di limite estremo, dove tutto si corrompe e si liquefa, ma dove tutto è pronto per riprendere vigore e spiccare nuovi voli: "S'apre / si chiude / la verdità del grano / (oro segreto)". Una sospensione che è equilibrio, e sta qui la vera conquista.
Essere e Divenire fusi in un unico respiro, dacché ciò che è scorre e ciò che scorre è. Il passato e il futuro stanno l'uno nell'altro, si rincorrono come i ricordi e le attese. Le arcane radici ci sospingono verso l'avventura dello spazio e del tempo, ma questa ci riconduce inesorabilmente a quelle (al "Dove di ogni dove", scrive la poetessa). E' dal semplice che viene il complesso, e viceversa, in quell'"accenno di multipla danza avvolgente" che la Codovilli può scoprire nel campo di avena matura scosso dal vento. Ed è questo il leitmotiv del canto, avvinghiato alla pulsazione (diastole/sistole) di ogni battito vitale, all'intermittenza luminosa delle lucciole, come del pulviscolo stellare, all'inspirazione/espirazione propria di ogni respiro.
Interessante la struttura del verso: pieno di incisi, di parentesi, di flashback, di accelerazioni e decelerazioni, a significare un percorso labirintico dalle imprevedibili soluzioni armoniche. Una complessità delle cose sorretta e tenuta insieme da un principio semplice e unitario più profondo, misterioso. E cita Holderlin, la poetessa ("Là, ovunque io sono, tutto sta insieme"), ad esergo della poesia suddetta (Il campo di avena maturo). Tutto è in movimento nello spazio e nel tempo, ma c'è una coscienza immutabile, interna alla dimensione spaziotemporale, che vigila ed è presente ad ogni mutazione. Eternità e contingenza, due piani distinti e collegati di ogni essere, di ogni singola esperienza creaturale.
Ci sono versi struggenti dedicati al marito scomparso: "Sono imprigionata nel pensiero dell'assenza di te, / labirinto che su di sé si chiude / e a cerchi sempre più stretti mi cattura: //... // Eppure, / affilata e impotente come la zagaglia dell'arcaico guerriero, / esigo un esito di verde da tutto questo mistero del male, / e da tutto il male del mondo; / nel tempo che ci resta, esigo il rifiorire dal dolore, sempre... / E per noi - vinta la stanchezza, nel sogno più lieto - / non so in quale dove, né come, tu mi vieni incontro e ridi / e sei salvo, sei sano, di nuovo giovane e pieno di vita, e  ci amiamo / mano nella mano, come allora, esultanti". Canto di fede profonda, canto dell'Araba Fenice. Antiorfico per eccellenza, induce a fidarsi della vita, a dispetto di ogni lato negativo.
Parlavamo di dodecafonia. E' il timbro musicale della nostra epoca sferragliante e caotica, che, se armonia può celare, non può che essere armonia di contrari: armonia della realtà, inclusiva, contrastata, sgraziata. Come era agli albori, probabilmente, quando la musica che accompagnava la poesia, non poteva che possedere sonorità realistiche, rusticane, lontane dalle edulcorate tonalità dell'astratta e raffinata armonia successiva, decadente e a senso unico, mentale, culturale. E tuttavia la poesia può stare dovunque, se c'è il poeta che riesce a cogliere i lati sottili della vita. Il sommo Dante l'ha trovata perfino all'Inferno, ponendo la dolorosa esperienza del male al servizio di un viaggio catartico verso le rarefatte armonie del Paradiso. Ciò che conta, scrivendo secondo il gusto e la moda del tempo, è di nominare le essenze, gli archetipi, i valori eterni dello spirito umano.   
                            
                                            Franco Campegiani




CLAUDIO FIORENTINI SU: "LA MACCHINA ANATOMICA" DI L. SANDON



Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

Le opere letterarie che vanno per la maggiore sono gialli, noir e incredibili raccolte erotiche che ti fanno credere che il mondo sia popolato da giustizieri, commissari, magistrati, criminali e assatanati. Si prova più gusto se invece parliamo di giustiziere, criminalesse, magistrate, e... assatanate. Insomma, delle migliaia di romanzi che vengono pubblicati, pochi brillano per originalità, ma ci insegnano, tutti, chi sono i buoni, chi sono i cattivi, e come si fanno certe cose nell’intimità. Troviamo, quindi, molti titoli di dubbio valore che, invece di proporre valori, si adeguano alla tendenza del mercato, o almeno di quello che percepiamo come tale.
Quando però capita di leggere un libro che esce da queste riduzioni schematiche, occorre parlarne. È il caso di alcuni romanzi ad ambientamento storico che sembra abbiano una decorosa collocazione nella letteratura contemporanea, e ancor di più è il caso del libro che presentiamo oggi, un piccolo gioiello che propone un misto di immaginazione, di erudizione e di saggia scrittura.
Lucio Sandon è un autore che conosciamo, l’abbiamo già presentato quando il suo trentottesimo elefante ha fatto vivere la storia di Annibale raccontata dal figlio che il condottiero non ha voluto sacrificare a Tanit, un importante elemento della narrazione che l’autore ripropone anche in questo libro.
Ma chi è Tanit?
Tanit era la dea che deteneva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica.
Tanit era una delle consorti di Baal ed era venerata come dea protettrice della città e godeva di speciali favori e venerazione da parte dei cittadini di Cartagine e del suo impero.

Dea cartaginese, quindi, e anche assetata di sangue. La ritroviamo nella macchina anatomica in ben altre vesti, quasi una dea protettrice che dialoga con il protagonista, Angelo, un architetto che, nel 1740 viene incaricato dal re borbone di cercare il tesoro di Alarico.
E ancora, chi era Alarico?

Alarico I, o Alarico dei Balti, noto anche come Flavio Alarico, Flavius Alaricus in latino (370 circa – Cosenza, 410), è stato Re dei Visigoti dal 395 alla morte. Fu l'autore del celebre saccheggio di Roma del 410 dopo il quale morì improvvisamente mentre si dirigeva forse verso l'Africa.

Lucio Sandon è un autore di romanzi fantastici ad ambientamento storico; un esperimento lodevole perché unisce alla ricerca e all’erudizione l’elemento fantastico che ci permette di immaginare una storia, di viverla in modo diverso, dandoci chiavi di lettura inedite che ci consentono di dire: e se fosse stato così?

Eccolo, viene avanti.
Silenzioso, terribile. Invisibile, in questo nero di morte.
Il suo incedere nelle tenebre non produce alcun rumore.
Mentre si avvicina, non si riesce a intuire nemmeno la più piccola increspatura sull’acqua ferma del sotterraneo.
Ma le creature che, come me, abitano il buio, lo sentono ugualmente. Nessuno lo vede, però quando lui si avvicina tutto il mondo dell’oscurità diventa immediatamente consapevole del suo sopraggiungere, e improvvisamente, qui sotto, tutti i suoni si cristallizzano in una lunga pausa di silenzio.
Hanno paura di lui, tutti hanno paura di lui.
Tremano perché sanno perfettamente che, quando andrà via, porterà con sé qualcuno di loro, qualcuno che non farà più ritorno.
Ora si sta avvicinando a me: ecco, in questo momento riesco a udire distintamente il suo respiro pesante, il suo delicato e agghiacciante sciabordio nell’acqua immobile e demoniaca di questo abisso.
Non riesco a vederlo, ma so che i suoi occhi di pietra invisibili e crudeli mi hanno già individuato nel profondo dell’oscurità, in cui ormai vivo da tempo, e mi stanno già fissando immoti, dal buio profondo del fossato. Si è fermato esattamente qui di fronte. È venuto proprio da me, perché è sicuro di ricevere il tributo che gli è dovuto. Lui è certo che lo avrà, lo aspettavo e lo sa.

È così che Lucio Sandon introduce la storia. Un prologo misterioso, un corsivo che non chiarisce, ma incuriosisce. Ora entriamo nel romanzo, e per farlo entriamo anche nei sotterranei del Maschio Angioino dove il protagonista è rinchiuso da mesi, e dove nasce la sua amicizia con un … coccodrillo.

Napoli, Castel Nuovo
Giugno 1740

Credo che sia un maschio, non me ne intendo molto di coccodrilli. Grosso lo è di certo, anche troppo per i miei gusti. Per forza, lui al contrario di me mangia bene, anzi sicuramente mangia meglio qui che nel posto in cui è nato. Non so esattamente come abbia fatto ad arrivare fino al porto della mia città e poi infilarsi dentro a questa prigione: probabilmente, quando era un tenero cucciolo di poche settimane, potrebbe essere rimasto incastrato alla catena di un’ancora o magari è possibile che si sia aggrappato al fasciame di qualche bastimento nel porto di Alessandria d’Egitto o da dove diavolo vengono questi mostri, e abbia navigato fino ai nostri moli come clandestino inconsapevole.
Arrivato qui, sarà stato sicuramente facile per lui penetrare dal porto nel fossato del castello, e poi trovarsi una tana sicura qui sotto. Prima di vederlo con i miei occhi, ero convinto che il coccodrillo
del Maschio Angioino fosse solo una leggenda: in tutte le taverne, e in verità anche nei salotti buoni di questa città, ne avevo spesso sentito discutere. Il mostro corazzato che infesta i sotterranei di Castel Nuovo era un argomento che andava per la maggiore in città, almeno fino a qualche mese fa. Adesso non saprei.
Non frequento più le taverne, e tantomeno i salotti, buoni o meno. Ora che potrei disquisire di lui in tutti i particolari, sapendo descriverne con minuzia le scaglie rugose del suo dorso, il suo aspetto terribile e le relative abitudini alimentari ancora peggiori, non ho invece assolutamente nessuno con cui condividere le mie impressioni. Anzi, credo proprio che tra non molto farò esperienza diretta dei denti del mio feroce compagno di prigionia, dopodiché del sottoscritto resteranno solo dei bei ricordi.

“Il Maschio Angioino ha due locali sotterranei adibiti a prigioni: uno si chiamava “fossa del miglio” un altro “prigione della congiura dei Baroni”.  Il primo era un deposito per il grano, poi utilizzato come prigione, e prese il nome di “fossa del coccodrillo”. Narra la leggenda che i prigionieri ivi rinchiusi scomparivano all’improvviso; fu allora predisposto un controllo maggiore e si venne a conoscenza della presenza di un coccodrillo che entrava da un’apertura nella parete, azzannava i prigionieri e li trascinava con sé in mare. Pare che l’animale fosse giunto a Napoli seguendo una nave proveniente dall’Egitto. L’uccisione del rettile fu attuata utilizzando come esca una coscia di cavallo.  Il coccodrillo fu poi impagliato ed appeso sulla porta d’ingresso.”

L’autore non prende di petto la storia per deformarla, ma ci gioca, la modella a piacimento, la sottomette all’immaginazione e la rende viva. I personaggi che incontriamo nei suoi libri non sono contorti come in Proust, sono semmai semplici come semplici erano le persone nelle epoche in cui è ambientata la macchina anatomica, e come è giusto che sia per un romanzo storico con tinte di giallo perché, anche se non sembra, un po’ di giallo c’è, ma nelle sue migliori tonalità.

Il comandante supremo dei Goti era ormai il fantasma del baldanzoso generale che, nella notte del 23 agosto di quello stesso anno, alla testa del suo esercito di fulvi e selvaggi guerrieri aveva messo a ferro e fuoco la capitale dell’impero romano, al termine di un crudele assedio.
I Visigoti, Wesgote nella loro lingua, eranbo una tribù di nomadi, originaria di una piccola isola al largo della Scandinavia. Si erano poi spostati nelle pianure danubiane, sospinti e cacciati verso est dell’avanzata delle legioni romane, oltre i confini della Dacia. 

Prima ho detto epoche, termine usato volutamente al plurale, perché l’autore, come avete appena ascoltato e come ha fatto anche con Il irentottesimo elefante, intreccia diverse narrazioni ricollegandole al presente narrato, in questo caso il settecento, a Napoli, quando il misterioso principe di Sansevero si diletta in esperimenti di oscura origine.

Nel giorno di San Giovanni, il sole si sposa con la luna e l’acqua fa l’amore con il fuoco. In fondo alle campagne si accendono grandi falò per glorificare il sole, propiziarne la benevolenza e anche per tener lontani quei demoni che nella notte precedente erano stati liberi di scorrazzare liberamente in giro per il mondo.
Lo sanno tutti. A San Giovanni, nel tempo brevissimo in cui sboccia un fiore, nel brillare di un fuoco e perfino nell’istante della morte, proprio allora si liberano le energie della natura. Nel suo seno, in
quell’attimo preciso, avviene uno sposalizio ed è proprio in quel momento magico, nel giorno di Mezza estate, che il cielo e la terra si uniscono in un rapido, tragico amplesso.
“La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco” dice l’antico proverbio.
Tutto succede nella notte più breve prima del giorno più lungo dell’anno. Al culmine di quella notte, mentre una luna rossa andava ad affogare nel mare, all’interno della camera attrezzata del laboratorio
segreto nascosta nei sotterranei di Palazzo Sansevero, il sergente Antonio dè Monaci detto Totò aprì lentamente un occhio, si guardò intorno per qualche breve istante, poi lo richiuse immediatamente.
Non era possibile, stava sognando. Rimase per qualche secondo così, le palpebre strette per non vedere, in bilico, con la coscienza sospesa tra l’oblio della droga e la debole luce riflessa di una lontana lampada ad olio sul punto di spegnersi.
Dopo un tempo che gli sembrò lunghissimo, riaprì tutti e due gli occhi, ma una tremenda fitta di bruciore lo costrinse a stringere di nuovo le palpebre.


L’autore è dotato di grandi capacità narrative, lo si capisce benissimo da questo frammento che parte da una bellissima narrazione della notte di San Giovanni per poi sprofondare, lentamente, gradualmente nell’orrore delle palpebre che non si riescono ad aprire. Una narrazione a intarsi, come a intarsi vengono presentate le storie che si narrano, partendo dal passaggio da Alarico in Calabria, quindi la sua morte, la sua sepoltura, e con questa la sepoltura del suo incredibile tesoro, con tanto di candelabro d’oro a sette punte, la Menorah, altro straordinario spunto narrativo che consente di mettere sulle tracce di quel tesoro anche i cavalieri templari che come ombre si aggirano nella narrazione principale e alla fine incontrano Angelo, l’architetto protetto da Tanit, in un momento di narrazione corale che unisce gli elementi e li trasforma in pilastri dell’intera struttura del romanzo. Giustamente, questo accade verso la fine perché, in tutti i romanzi che si rispettano, non si può arrivare a conclusione senza prima narrare gran parte della storia.
Ma sentiamo di nuovo la voce dell’autore, che ci racconta il male:

Quando iniziò a mostrarsi, affacciandosi da dietro il fronte delle coltri compatte di nuvole antracite, l’alba del nuovo giorno si presentò scarlatta di fronte al mare, che con pazienza l’aveva attesa
per tutta la notte. Il sole, nel suo lento cammino di risalita da dietro le spalle del vulcano, quella mattina sembrava voler scivolare al di sopra delle tenebre. Lento e inesorabile, come la lama di un boia.
Era grigio e immobile, quel mattino il Mediterraneo. Più che un mare, sembrava un lago di pianura. La città dormiva ancora, intontita dall’umidità della notte, Fiordarancio, invece, era sveglio già da molto tempo prima dell’aurora e in quel momento, fermo nel centro dalla piazza, fissava il disco di fuoco che si affacciava alla notte. Osservava quello spettacolo della natura senza emozioni, semplicemente perché il suo cuore non ne conosceva.
In quel momento, con tutto il suo essere, lui pregustava solo la sofferenza che quella giornata gli avrebbe elargito, ma anche questo senza gioia e senza dolore, con lo stesso atteggiamento di
chi attende l’impiccagione di un feroce assassino sulla pubblica piazza.
La sofferenza era per lui un nutrimento, e lui anelava il suo cibo. Attendeva solo il momento in cui avrebbe avuto il permesso di scatenare i suoi istinti più neri, laggiù nel regno del suo padrone.
Quello era il posto più simile agli inferi, quelli che lui aveva sempre visto soltanto dipinti nei quadri, che Fiordarancio avesse mai sognato. Non aveva dormito molto quella notte: il suo pensiero correva sempre a lei, la sua prigioniera inerme nel sotterraneo, legata sopra un tavolo di marmo. Lui pregustava nella sua mente tutto quello che avrebbe fatto per trarre la maggiore soddisfazione possibile dal suo strazio. Un sorriso sghembo gli attraversò il viso.

Linguaggio denso, ritmo costante, ottimo lavoro redazionale e grande erudizione sono altri ingredienti che fanno di questo libro un’opera di pregio, che va letta con attenzione e che va anche studiata.
I personaggi, ben lontani da descrizioni proustiane, sono ricchi di sentimenti e di valori. Alcuni risultano anche grotteschi, è il caso di re Carlo terzo, altri sono trattati con profonda delicatezza, plasmandosi nella storia per il valore che gli danno, perché questo rappresentano: un valore umano. È il caso del robusto sergente Cicciotto e del capo dei templari, o anche di Fiordarancio, un personaggio secondario che diventa primario perché unisce i due elementi: il bene e il male. Ed è proprio Fiordarancio uno spunto importante: sappiamo chi sono i buoni e sappiamo chi sono i cattivi, ma questi sono solo cattivi?
Tra le pagine più belle del libro segnalo proprio quelle che parlano della nascita di Fiordarancio, un mostro sia fisicamente che umanamente, ma pur sempre un uomo, vittima inconsapevole della disgrazia umana.

Tutti lo chiamavano Fiordarancio, ma nessuno ne sapeva il perché. Forse nemmeno lui avrebbe saputo dirlo, sempre se ne
avesse avuta l’intenzione, ma semplicemente lui non ci aveva mai pensato. Alcuni pensavano quel nome fosse dovuto ai suoi capelli biondo-rossicci, ma probabilmente chi, all’epoca, per la prima volta, aveva suggerito quel soprannome conosceva la leggenda secondo la quale il primo albero delle arance era stato piantato da Dio stesso nel giardino delle tre figlie della Notte. E lui era figlio della notte.
La mamma di Fiordarancio, fin da giovanissima, si era sempre venduta a chiunque per pochi spiccioli, ma non era mai rimasta incastrata da gravidanze indesiderate, un po’ per una buona dose di fortuna, ma anche perché aveva imparato tutti i trucchi da sua madre, la quale, essendo una vera e propria strega, conosceva tutti i metodi e tutte le erbe da usare per evitare la malaugurata evenienza.
Dal momento in cui aveva raggiunto la quarantina, smarriti i suoi flussi mensili e perduto quasi tutti i denti, la brava donna aveva pensato di essere definitivamente fuori pericolo e stante anche l’allarmante diminuzione della clientela, aveva eliminato parecchie precauzioni. Il diavolo invece, come si sa, è sempre in agguato dietro l’angolo e un bel giorno lei si accorse di aspettare un figlio. Quella rogna non se l’aspettava. Cercò di ricordare, di risalire a chi potesse essere stato il colpevole, e come potesse essere capitata una disgrazia del genere. Quando ritornò con la mente alle settimane precedenti, rabbrividì, nonostante fosse una tiepida giornata di fine aprile: la lista dei potenziali indiziati avrebbe potuto ben figurare nel museo degli orrori, ma comunque decise che non era il caso di pensarci troppo. Aveva ben chiaro cosa fare.
Si preparò immediatamente un decotto potentissimo, lo ingurgitò tutto d’un fiato superando il disgusto per la sua puzza mefitica, ma pregustandone gli effetti sul suo corpo, e attese con fiducia. Lo aveva tracannato tutto, fino all’ultimo residuo nero e amarissimo, ed era sicura che avrebbe funzionato subito, come le altre volte. Passarono alcune ore: nulla, nemmeno una goccia di sangue o un crampo, un indizio che il veleno con il quale voleva uccidere il suo bambino avesse sortito qualche effetto, ma non successe niente. Provò anche a trafiggere quel corpo che cresceva dentro di sé usando un ferro da calza, ma quello reagiva attaccandosi a lei con maggior vigore e scalciandole dolorosamente il ventre dall’interno.
Lo odiava, lo odiava con tutto il suo cuore di mamma. Attese il momento del parto tra i morsi della fame. Nessuno,
infatti, voleva più avvicinarsi al suo corpo sformato e ai suoi occhi allucinati. Quando finalmente venne l’ora, era notte fonda. Fece tutto da sola, prese il fagotto insanguinato e urlante e lo gettò tra l’immondizia, all’angolo della strada, poi tornò alla sua misera stanza e cadde sfinita sul letto, il suo posto di lavoro.
Morì dissanguata prima dell’alba.

E i personaggi femminili? Certo, le epoche e le epopee narrate lasciano spazi narginali alla sfera femminile, ma rimangono pur sempre dei pilastri perché lo spirito guida è sempre l’amore. Quindi il ruolo di Marianna, la donna di Angelo, di carattere forte e di tempra invisiabile, Rosina, la mamma di Angelo, l’unica a conoscere il segreto di Tanit, la stessa Tanit che sorveglia e manipola la realtà con la sua misteriosa potenza.
E infine, la macchina anatomica, cos’è veramente? Sentiamo:

La realizzazione dei modelli fu commissionata da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, ad un anatomista palermitano, tale Giuseppe Salerno, intorno al 1763. L'eccezionale realizzazione del sistema circolatorio artificiale dei modelli ha alimentato la credenza popolare secondo cui i due corpi sarebbero stati il risultato di esperimenti alchemici condotti dal Principe di Sansevero su due servi ancora in vita. Nel 2008 i ricercatori dell'University College London hanno ricevuto l'autorizzazione da parte degli attuali proprietari della cappella ad eseguire esami scientifici sui due modelli; da tali studi è emerso che gli scheletri sono effettivamente umani, ma i sistemi circolatori sono completamente artificiali e costituiti da filo metallico, cera colorata e fibre di seta con tecniche artigianali comunemente utilizzate dagli studiosi di anatomia dell'epoca.

Ed è qui che la storia supera la realtà e l’autore ci sorprende nel finale con una macchina anatomica figlia di una altro, meraviglioso mistero, che rivive in un sogno letterario che ci fa dire con un filo di impietosa speranza: e... se fosse veramente così?
 
Claudio Fiorentini