martedì 29 maggio 2012

Diego Repetto, dal "Il baco e la farfalla". (Romanzo)



"Luglio 1952"

Un nome, un cognome, un paese. Non era molto, ne ero consapevole, ma era tutto ciò che possedevo. Erano trascorsi molti anni, inoltre. Forse non viveva nemmeno più a Camogli. Nonostante tutto ero fiducioso. Salii sul treno diretto a Genova convinto che presto avrei conosciuto colei che mi aveva messo al mondo.
Feci scorrere la porta dello scompartimento e domandai a un signore in giacca e cravatta se c’era un posto libero. Mi accomodai di fronte a una bella donna sulla quarantina che sollevò appena lo sguardo per immer­gersi poi nuovamente nelle pagine di un libro. Una volta seduto iniziai a osservarli, facendo attenzione che non se ne accorgessero. Lui sfogliava il giornale, distrattamente. Ebbi l’impressione che stesse leggendo so­lamente i titoli. Lei alternava lo sguardo tra il libro e il finestrino. Gli occhi velati di malinconia. Entrambi sembravano non curarsi della mia presenza. Chissà se osservandomi avrebbero potuto rendersi conto delle mie emozioni. Tensione, attesa, eccitazione, angustia. Altre domande si fecero spazio nella mia mente. Cosa avrei fatto una volta arrivato a Camogli? Sarei riuscito a trovare mia madre? E se la mia ricerca avesse avuto successo, cosa ci saremmo detti quando ci saremmo ritrovati uno di fronte all’altro? Sarei riuscito a farle le domande a cui per tutti quegli anni avevo risposto solamente con astio e risentimento?
Alla stazione di Genova Principe scesi dal treno e aspettai che giungesse il diretto per Roma. Restai in piedi, le panchine erano tutte occupate. Il marciapiede era affollato. Come mi spiegò una signora particolarmente loquace, tra quelle persone c’era chi partiva per le vacanze e chi invece rientrava per qualche tempo al Sud, così diverso e così caro, abbando­nato a malincuore per inseguire il sogno di un lavoro. Una terra ricca di calore umano, mai dimenticata e spesso rimpianta, soprattutto dopo essersi accorti che non era affatto facile sbarcare il lunario in un Nord che faticava ad uscire dalla crisi economica del dopoguerra.
Erano i pionieri di un esodo interno che solamente una decina di anni dopo avrebbe assunto proporzioni straordinarie.
La giornata era afosa, senza una bava di vento, il caldo era soffocante. Uomini e donne trascinavano a fatica valigie enormi. L’odore rancido di sudore appestava l’aria. Dalla quantità e dalle dimensioni dei bagagli sembrava un trasloco definitivo più che un ritorno di qualche settimana alle proprie origini.
Un fischio acuto annunciò l’arrivo del convoglio ferroviario e i com­ponenti dei vari gruppi iniziarono a posizionarsi a qualche metro l’uno dall’altro, sul bordo del marciapiede, per poter essere i primi ad avven­tarsi sulla porta, salire sul vagone e occupare i posti per i propri amici e famigliari. Non ero pronto per spintoni e gomitate. Salii per ultimo. Rinunciai a cercare un posto a sedere e mi fermai in piedi nel corridoio, vicino al finestrino. Anche le cose più belle, per poter essere ammirate e apprezzate, hanno bisogno del giusto stato d’animo e il mio, in quel momento, non era adatto alla contemplazione. Indifferente all’accecan­te bellezza dei raggi solari riflessi da un mare leggermente increspato, desiderai che quella mezz’ora che mi separava da Camogli passasse il più rapidamente possibile.
Scesi dal treno scortato da un chiassoso nugolo di bagnanti. Uscii dalla stazione e mi guardai intorno. Non ero mai stato a Camogli. Non avevo idea di dove fosse il centro del paese. Partivo da zero, non sapevo nem­meno se svoltare a destra o a sinistra. Vidi un bar dall’altro lato della strada. In fondo un posto valeva l’altro, pensai, e decisi di iniziare da lì la mia ricerca.
Il barista scosse la testa.
“Mi spiace ragazzo, non la conosco”.
“Grazie lo stesso, arrivederci”. Mi avviai all’uscita con la stessa sensazio­ne con cui ero entrato. Non sarebbe stato facile, tutt’altro. Dovevo avere pazienza e non lasciarmi scoraggiare dai primi inevitabili insuccessi. Nemmeno il fabbro e il calzolaio mi furono di aiuto. Scesi le ripide scale che portavano al mare. Una lunga fila ininterrotta di case colorate bordeggiava la passeggiata lungo il litorale. Si ergevano al­te e strette, con le facciate dai toni sfumati, una di fianco all’altra, alcune appena un po’ più basse delle altre, come pastelli leggermente consumati in una scatola. Un mosaico variopinto di asciugamani ricopriva quasi interamente i ciottoli della spiaggia. La distesa di sassi terminava sotto la basilica, protetta dal mare da un castello medioevale e separata dal borgo abitato da uno stretto passaggio attraverso il quale si accedeva al porticciolo. Quel pittoresco paesino di pescatori mi piacque immediata­mente. Pensai che se non avessi trovato mia madre avrei potuto in ogni caso trasferirmi lì e cercare un lavoro…



"Febbraio 1960"

Sentii un fluido viscoso colare lungo le natiche e un liquido caldo ba­gnarmi le cosce. Il fetore si diffuse rapidamente nell’atmosfera insalubre della cella. Il fascio di luce che penetrava dalla finestrella vicino al soffit­to illuminava il pulviscolo sospeso nell’aria fredda e umida. Immaginai i gas fuoriusciti dalle mie viscere mischiarsi alle molecole di ossigeno e mi domandai se fosse possibile morire soffocati dalle esalazioni dei propri escrementi. Dall’inclinazione dei raggi solari calcolai che doveva essere pomeriggio inoltrato. Avrei dovuto aspettare ancora due o tre ore prima di essere spruzzato. Rabbrividii al pensiero del metallo bagnato a contatto con la pelle. Erano già due giorni che ero legato, nudo, a quella gelida tavola di ferro con un ampio foro circolare all’altezza del sedere. Isolamento rie­ducativo, così lo chiamavano. Era la punizione più temuta dai detenuti. C’ero finito per uno stupido screzio con una guardia frustrata. Mi aveva preso di mira da alcune settimane, ogni suo sguardo o parola erano state una provocazione. Quando, saturo della sua subdola prepotenza, avevo reagito insultandola, una smorfia sadica e un ghigno feroce mi avevano gelato il sangue.
Il suono metallico del chiavistello riecheggiò nello spazio vuoto.
“Puah, che schifo! La tua merda puzza più di un animale putrefatto” esclamò la guardia di turno. “Lavalo” ordinò l’uomo che la accompagnava. La guardia sollevò la coperta, afferrò il tubo di gomma, aprì al massimo il rubinetto e mi sparò addosso il getto potente di acqua ghiacciata. Quan­do si accanì sui genitali strinsi i denti e sopportai in silenzio il dolore. Avevo imparato che il sadismo di alcune guardie durava meno se non era alimentato da urla e suppliche.
“È tutto suo, dottore”.
Il medico del carcere si avvicinò e mi analizzò con una rapida occhiata. “Come si sente?” domandò con tono professionale, lo stesso che avrebbe usato se si fosse trovato di fronte a un paziente nel suo studio privato.
La mia permanenza in quel posto dipendeva dal mio autocontrollo. Il giorno prima, alla medesima domanda, avevo risposto mandandolo a quel paese. Si era rivolto serio alla guardia suggerendole di lasciarmi lì ancora un po’, perché ero troppo nervoso.
“Starei meglio altrove” ribattei, sforzandomi di rimanere calmo.
“Ah sì? E dove?”.
“Nella mia cella”.
“Eppure qui se ne può stare da solo, tranquillo... pensare... riflette­re...”.
Si era spostato di fianco ai miei piedi, costringendomi a tenere solle­vata la testa per poterlo vedere. La cinghia di cuoio premeva sul pomo d’Adamo, come a volerlo respingere in gola. “In cella siete in tre in otto metri quadrati”. Chiuse gli occhi. “Nemmeno tre metri quadrati a testa” aggiunse dopo qualche secondo con un sorriso, fiero della propria rapidità di calcolo.
Sentii i muscoli del collo irrigidirsi. Abbandonai la testa all’indietro, cercando di non farla sbattere sulla tavola di ferro. Quell’uomo avrebbe fatto perdere la pazienza anche a un monaco buddista.
“Lo spazio non è un problema” mentii.
Si mosse nuovamente e si posizionò in modo che potessi guardarlo senza sollevare il capo.
“Però deve ammettere che qui ha delle comodità particolari. Per esempio, non deve fare la coda per andare in bagno”.
La guardia soffocò a stento una risata. Il medico si massaggiò il mento con l’indice e il pollice, compiaciuto che la propria ironia venisse apprez­zata dal pubblico presente. Avvertii un formicolio propagarsi dalle dita alle mani fino alle braccia. Serrai i pugni. Il medico si accorse del gesto. I suoi occhi si accesero della soddisfazione di chi si considera ormai vincitore. Sentii i nervi cedere. Con un ultimo sforzo provai a ritardare la risposta, sostenuto dalla flebile speranza che accadesse qualcosa che mettesse fine a quel martirio psicologico.
Silenzio.
Le gocce d’acqua che cadevano sul pavimento bagnato dalla struttura metallica sulla quale giacevo scandivano il lento e inesorabile scorrere del tempo.
Respirai profondamente. Sentii l’aria fluire per il corpo, allentare le tensioni, massaggiare i muscoli, sciogliere le articolazioni, accarezza­re i tendini. Il formicolio stava scomparendo. Ruotai leggermente il collo da una parte, poi dall’altra, come per verificarne la riacquistata mobilità.
“O forse preferisce fare i suoi bisogni in compagnia?”.
Si portò la mano destra davanti alla bocca e spalancò gli occhi, simulan­do un atteggiamento di scusa per avere azzardato tale ipotesi. La sensa­zione di scandalo che provava nel visualizzarsi la scena e che traspariva dal suo sguardo era invece reale.
“Ha ragione dottore, qui non ho fretta. Posso concentrarmi con calma, riflettere, pensare, immaginare che la sua orrenda faccia da culo sia qui sotto e ricoprirla di merda”.
Il viso gli si incendiò. Alzò il braccio per colpirmi, ma si ravvide un attimo prima di scaricare sul mio corpo inerme i cocci della sua autorità calpestata e offesa. Visibilmente seccato per aver perso, seppur per un istante, il controllo della situazione, mi diede le spalle e si avviò con passo deciso verso l’uscita, inseguito dalla guardia.
“Ti concederemo ancora un po’ di tempo per le tue fantasie” sentenziò sprezzante. “Non dimenticarti mai che non sei altro che un rifiuto del­la società, un piccolo stronzo insignificante. Fosse per me, ti lascerei marcire qui dentro per il resto della pena” concluse minaccioso prima di abbandonare la cella.
Il rumore freddo del chiavistello risuonò più forte di quando erano ar­rivati. La visita giornaliera era finita. Ero di nuovo solo in quel tugurio fetido. Mi assalì il panico. Non avrei resistito fino all’indomani. Ebbi l’impressione che le cinghie di cuoio si stringessero ancor di più intorno ai polsi e alle caviglie e che il soffitto mi crollasse addosso. Chiusi gli occhi con la speranza, vana, di addormentarmi in fretta.



Tratto dal cap. "Luglio 1964"

... Abbandonammo la villa cullata dal canto perpetuo delle cicale e prima che fossi completamente sveglio stavamo già correndo sulla statale verso ovest. Marco si dilungò a elogiare le doti aerodinamiche e la potenza del bolide su cui ci trovavamo. L’argomento non mi interessava particolarmente e approfittai di una sua pausa per accendersi una sigaretta per cambiare discorso.
“Non sei mai a casa, Marco, il lavoro ti assorbe completamente. Non ti manca mai la tua famiglia?”.
Era una domanda intima, non avevo idea di come avrebbe reagito.
“Mia moglie e i miei figli sono il mio tesoro. Mi piacerebbe poter trascorrere più tempo insieme a loro, ma so che con il mio lavoro posso garantirgli un avvenire fatto di prosperità e ricchezza in un paese moderno e sviluppato” disse tutto d’un fiato.
Immaginai il vuoto che Marco lasciava tra le sue persone più care, il paradosso di chi un padre lo avrebbe voluto ma non lo aveva più e chi un padre lo aveva ma non poteva goderselo perché impegnato a costruire il futuro piuttosto che condividere il presente. Potevano i soldi ricompensare l’assenza della persona amata? Poteva un futuro agiato fugare il ricordo di un passato che si sarebbe desiderato diverso? Ne aveva mai parlato Marco con sua moglie e con i suoi figli? Gli aveva mai chiesto che cosa pensassero della sua scelta di dedicarsi anima e corpo al lavoro, di agire e vivere per loro invece che insieme a loro?
“Ti sei ammutolito. A cosa pensi?” chiese Marco, interrompendo il flusso dei miei pensieri. “Nulla” risposi titubante, preoccupato che avesse intuito ciò che mi era passato per la testa. “In fondo è un tuo diritto non rendermi partecipe delle tue riflessioni”.
La sua replica aumentò ancor di più il mio imbarazzo e fui costretto a volgere lo sguardo fuori dal finestrino. Non vidi altro che una piatta distesa sconfinata. Sembrava che nei dintorni fosse tutto finito sotto una pressa gigantesca. Lo sviluppo invocato e auspicato da Marco consisteva nel rimodellare continuamente quell’enorme substrato, costruendo altre strade, progettando nuovi edifici, impiantando grandi e moderne industrie. Senza alcun timore di apparire presuntuoso, soleva ripetere di sentirsi investito dell’arduo ma allo stesso tempo stimolante compito di completare, con le sue costruzioni, l’opera che Dio aveva lasciato incompiuta. La macchina che aveva ideato e assemblato per realizzare il suo sogno doveva essere complessa e difficile da gestire. Decisi che era il momento di iniziare a conoscere meglio il mondo di Marco Lomellini.
“Come funziona un’azienda così grande come la tua? Come fai a mantenerne il controllo?”.
Socchiuse impercettibilmente gli occhi e stirò leggermente le labbra. Tardò qualche secondo prima di rispondere, come se ciò che stava per rivelare gli stesse particolarmente a cuore. 
“Hai mai sentito parlare di olismo?”.
Era la prima volta che udivo quel termine. Scossi la testa.
“È una corrente filosofica secondo la quale le proprietà di un sistema non sono riconducibili a quelle dei singoli componenti. Considera per esempio i mattoncini elementari che compongono la materia. Ogni atomo preso singolarmente ha delle proprietà fisiche che sono diverse da quelle che presenta un insieme di atomi, anche se tutti identici. Sono le interazioni tra i vari atomi che formano il cristallo a determinarne le caratteristiche macroscopiche, per esempio la conducibilità elettrica, la durezza, le proprietà magnetiche”.
Marco soppesava le parole, come se stesse tenendo una lezione all’università di fronte a un’aula gremita. Con la coda dell’occhio si assicurò che lo stessi ascoltando.
“Per un’azienda vale la stessa cosa. Le capacità dei singoli sono certamente importanti. Una selezione oculata del personale è il primo passo verso un’impresa di successo. Ma non basta. Fondamentale è la rete che unisce i vari nodi. Sono le interazioni tra le parti che determinano il risultato finale, iniziando dalla comunicazione tra i vari dipartimenti fino a giungere alle relazioni tra i dipendenti, nessuno escluso. Occorre una struttura leggera, in cui lo scambio di informazioni possa avvenire in modo rapido ed efficace. Sarebbe una follia pretendere di controllare in prima persona ogni decisione, valutare ogni scelta. È necessario delegare e avere fiducia nei propri collaboratori. Uno dei compiti più difficili è far sì che si sentano responsabilizzati e, altro aspetto non trascurabile, soddisfatti del proprio lavoro. Questo vale, senza distinzione, dal capo progetto all’ultimo degli impiegati. Più le persone sono contente, più si impegnano per raggiungere gli obiettivi prefissati. Tanto più regna l’armonia, maggiore è la produttività dell’azienda”.
Era la sua vita e aveva le idee chiare. Interazione, responsabilità, soddisfazione, produttività. Tutte parole chiave per descrivere un gioiello di cui si sentiva estremamente orgoglioso. Dal suo discorso la felicità dei dipendenti appariva molto più uno strumento per ottenere il massimo profitto che un principio su cui basare le relazioni interpersonali. Mi venne in mente il rispetto che portava nei confronti di Margherita e Peppino. In che percentuale era sincero e quanto invece interessato per ricevere un servizio migliore? E anche se così fosse stato, perché avrei dovuto giudicare tale comportamento? In fondo non mi interessava. Avevo molto più di quanto potessi sperare, molto più di quanto mai avessi avuto. Personalmente non avevo nulla da rimproverargli, al contrario, mi sentivo in debito nei suoi confronti. Comunque, più che le questioni morali, erano gli aspetti tecnici a stimolare la mia curiosità. Marco aveva descritto una macchina perfetta. Era efficiente, ben organizzata, snella. Filava sempre tutto liscio o c’erano ogni tanto delle difficoltà da
affrontare, dei problemi da risolvere?
“E funziona sempre tutto? O la pratica si discosta ogni tanto dalla teoria?”.
Rise.
“Sarebbe fantastico. Purtroppo non è così. Ci sono decisioni che non vengono prese senza prima consultarmi e l’ultima parola spetta sempre e comunque a me. È per questo che sono costretto a viaggiare in continuazione da una parte all’altra. Nel mio lavoro si incontrano spesso degli ostacoli, il segreto è non vederli mai come insormontabili”.
Il suo ottimismo era incredibile, sembrava che per lui nulla fosse impossibile. Mi accompagnerai in giro per la penisola, sarai la mia ombra. Mi era sempre mancato un punto di riferimento solido e sicuro, sul quale fare affidamento e appoggiarmi senza timore di cadere. Non lo era stato mio padre, troppo impegnato con la politica. Ancor meno mia madre. Lo era stato in parte Enrico, ma in una situazione particolare, circoscritta e difficilmente esportabile al di fuori del carcere. In ogni caso ne avevo perso completamente le tracce. Pensai che forse ora lo avevo incontrato. Si trovava di fianco a me. Guardai Marco e provai una sensazione di dolce euforia.
Ci fermammo solamente una volta per una breve sosta. Lomellini non aveva risparmiato l’Alfa e Milano distava meno di venti chilometri. Giunti alla periferia della città, svoltammo sulla tangenziale. Dopo una decina di minuti eravamo a destinazione. Un deposito col tetto di lamiera si stagliava in prossimità di un bosco di faggi. Nonostante la strada proseguisse fino all’ingresso del capannone, Marco fermò la macchina a una cinquantina di metri e spense il motore.
“Dammi la tua foto e aspettami qui”.
Raggiunse a passo svelto l’entrata, bussò e rimase in attesa. Dopo qualche istante un uomo con indosso una tuta da meccanico apparve sulla soglia. Si scambiarono una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Parlarono alcuni secondi, poi Marco gli porse la mia foto, lo salutò e ritornò verso la macchina.
“Entro stasera avrai una patente nuova di zecca”.
Lomellini trascorse il resto della mattinata in ufficio, io ingannai il tempo discorrendo con il portiere del palazzo.
Pranzammo in un raffinato ristorante con vista sul Castello Sforzesco. Lomellini conosceva il padrone e ci furono serviti piatti speciali che non facevano parte del menù.
Nel pomeriggio Marco si concesse eccezionalmente una mezza giornata di libertà. Mi propose di entrare nel duomo. Ci sedemmo su una panca uno di fianco all’altro, lui a mani incrociate, mormorando con gli occhi serrati e la bocca socchiusa alcune preghiere, io intento ad ammirare la vastità dello spazio in cui ci trovavamo e a scrutare le mosse dei pochi fedeli presenti all’interno della chiesa. Passeggiammo poi per le vie del centro. Ci infilammo in un negozio di vestiti da uomo e Marco insistette affinché ne provassi uno. L’abito mi calzava a pennello e non aveva bisogno di alcuna rifinitura.
“Ti sta benissimo” commentò compiaciuto.
Dopo aver scelto una cravatta anche per lui, pagò e proseguimmo il nostro giro a piedi.
Conoscevo Milano, uscito dal carcere c’ero sopravvissuto per sei mesi. Ora però era diverso, le mie prospettive erano cambiate. Percorrevo le stesse strade, eppure era come se vedessi quei palazzi per la prima volta, come se indossassi un paio di occhiali attraverso i quali non apparivano più sfumati e grigi, ma, finalmente, nitidi e colorati.
Poco prima del tramonto recuperammo l’Alfa e ritornammo nel luogo in cui eravamo stati al mattino. Di nuovo Marco accostò prima di giungere al capannone e proseguì a piedi. Nella penombra intravvidi un uomo uscire dal magazzino e consegnargli qualcosa. Marco si soffermò un istante ad analizzare ciò che gli era stato dato, poi infilò una mano nella tasca interna della giacca, estrasse alcune banconote e le porse al falsificatore.
La scena mi lasciò attonito. In galera ero entrato in contatto con il vasto e variegato universo della criminalità. Sapevo di persone che all’ombra di un lavoro legale si dedicavano a ben più remunerative attività illecite. Ciò che mi disorientava era come il mondo regolare potesse intrecciarsi con apparente disinvoltura con quello irregolare. Lomellini, che consideravo appartenente al primo, non aveva avuto alcuna difficoltà a rivolgersi al secondo per ottenere un documento falso. L’uomo con la tuta da meccanico costituiva un nodo della rete a cui aveva fatto riferimento Marco per descrivere il funzionamento della sua azienda? Il rumore della portiera interruppe i miei pensieri.
“Ha fatto un ottimo lavoro. Il foglio è stato leggermente consumato di proposito. In un controllo, uno troppo nuovo darebbe adito a sospetti. Ora scendi, siediti qui e fammi vedere se ne è valsa la pena”.
Ci scambiammo di posto. Sentii salire la tensione. Una tensione simile a quella che mi assaliva da bambino prima dei compiti in classe di matematica. Strinsi forte il volante, inserii la prima, mollai la frizione e schiacciai il pedale dell’acceleratore. Il motore rispose con un grugnito sordo e l’Alfa schizzò in avanti con un balzo. La mia avventura come autista di Marco Lomellini era iniziata.








Diego Repetto è nato a Genova nel 1975 e ha vissuto i primi vent’anni della sua vita a Camogli, pittoresco borgo della riviera ligure. Laureato in Fisica all’Università di Genova e dottorato in Nano-Scienza al Politecnico di Losanna, è emigrato all’estero spinto dal desiderio di conoscere nuovi luoghi e confrontarsi con persone di diversa cultura. Ha lavorato come ricercatore in Svizzera, Germania e Spagna. Scienziato per professione, scrittore per passione, nell’aprile del 2012 ha fatto ritorno in Italia e attualmente vive a Genova con la sua famiglia. Autore di numerose e prestigiose pubblicazioni scientifiche, Il baco e la farfalla (Italia Press Edizioni, I ed. apr. 2011, II ed. nov. 2011) è il suo primo romanzo.

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