Caro Giannicola,
ho letto “Aspetterò l’arrivo
delle rondini” con crescente coinvolgimento e con adesione via via più
convinta, fino a immedesimarmi, quasi, nella tua mano, a pre-vedere e a
“pre-scrivere” i tuoi versi (anche se non sono un medico, confeziono ricette e
suggerisco “integratori”...). Da viaggiatore clandestino ti ho accompagnato nel
ripercorrere, a ritroso, le tappe e le stagioni trascorse, in una sorta di
proustiano viaggio alla ricerca del tempo perduto, con il rimpianto per una
stagione irripetibile e per sempre svanita e, insieme, con la sorpresa
meraviglia di “come fu breve dispiegare
il silenzio degli anni!” (Eravamo
coriandoli di cielo), una stagione e un tempo che sanciscono
l’irrimediabile cesura tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che
resta.
Ristabilire un contatto e
riannodare memorie elevandole a nobiltà poetica e semantica è operazione congeniale alla sola penna dei
poeti autentici, e tu tra questi. Ma riesumare la felicità di quel tempo, caro
Giannicola, è operazione disperata, perché, come suggerisce Jim Morrison, “Non tornare mai nel luogo dove sei stato felice... La felicità appartiene al
tempo, non al luogo…”. E per te, che ne sei consapevole, la
resa è totale: “Ora non so guardarti
attraverso la siepe / che lenta dirada verso altre sponde / Accanto al muro
dove lasciammo orme calcinate / oggi c’è solo il vuoto” (Quando soffiammo grappoli di viole);
ciò che si è sognato un tempo disvela una realtà ingannatrice e spergiura, un
po’ come la leopardiana Natura matrigna: “Credevo
che gli spini dell’astragalo / fossero gli occhi della luna / Credevo che le
favole / … / rimanessero negli schiamazzi dei bambini / … / Ma oggi cosa
rimane? / Forse il vuoto” (Ma oggi
cosa rimane?).
E la disillusione si snoda
attraverso una sorta di odissea della memoria, una rivisitazione malinconica e
assorta di un tempo favoloso, di “…quando
attendevamo / che l’aurora ci portasse lontano”, e di quando “ Credevi che i colori / avrebbero allontanato
i crucci”. Ma improvvisamente si sfalda il sogno, perché nel novembre
incombente “non trovammo pane né legna da
ardere”, poiché il turbine degli anni aveva “lasciato che le illusioni tagliassero le labbra”. Non rimane,
quindi, che tenersi “stretto il giorno
dalle lunghe spighe” (Il giorno
dalle lunghe spighe), e conservare gelosamente il ricordo dei giorni
felici, i giorni di quelle incantatrici e carezzevoli estati.
E già si profila il tempo degli
addii: “Non so quando il giorno / ci
separerà da questi brividi / che non ci lasciano da tempo”, perché una
stagione è conclusa e “…i sogni
fanciulli / non hanno più sussurri /
perché l’aria che ci ha addormentato / non sa aprire i segni delle mani”,
mentre si fa più acuta la consapevolezza dell’umana fragilità “Siamo minime foglie / … / che la memoria riapre
al silenzio che scompare” (Siamo
minime foglie) e di un ciclo vitale che inesorabilmente si compie; momento
questo, umanamente e cristianamente
accettato: “A volte a me sembra che i
giorni / non lascino ore da consumare / … / Ciò che mi resta è il soffio delle
nuvole” (Quando sarò dal Padre).
Eppure, la dicotomia netta tra
passato e presente, la diacronia solo apparentemente disperante tra un tempo
irrimediabilmente concluso e una realtà che presenta i segni della disillusione
(ma anche la nobile compostezza della dignità del vivere), non induce allo
scoramento e alla rassegnazione, ma produce una reazione, uno scarto vitale e
fidente; apre a una stagione nuova, scopre itinerari e percorsi capaci di
rinverdire il tempo degli affetti e delle corrispondenze: “E quando la malinconia scalfirà i brividi / le nostre implorazioni
filtreranno il corso degli anni / e noi saremo ancora insieme / Altra è la
storia che ci attende” (Altra è la
storia che ci attende). Si delinea, perciò, un nuovo inizio, illuminato da
un afflato onirico e visionario, che prova a superare il contingente e tende ad
esplorare le vie del trascendente e dell’assoluto; esigenza, questa, che già
traspare dall’intera orditura della silloge, ma che trova più slancio e vigore
nelle ultime due parti della raccolta (Perché
questo giorno e Le ombre) : “Forse cercheremo altro pane / prima che
improvvisa scenda la neve / ma non è l’arco celeste / a ridestare rimorsi”.
Si profila il distacco, sereno,
dagli affanni del vivere, come quando, abbandonate le ambasce quotidiane, si stempera l’urgenza del
presente; e allora “Forse ci placheranno
le mareggiate / le pene bruceranno i desideri / … / Se è il respiro a
nascondersi / aspettiamo che le bocche si uniscano / … / Dove nessun sussurro
ci lega ancora / domani riavremo quella scossa del cuore / che ci confuse
all’arrivo della primavera” (Forse
ci placheranno le mareggiate). Ma ancora e ancora preme la nostalgia del
tempo che fu, il tenace ed eterno ritorno della fiamma che brucia e tiene ben
viva la forza gentile del sogno e della poesia, compagna fedele (insieme con le
figure e gli affetti familiari) di un’intera vita: “Se sapessi dove si leggono i versi dei poeti / e sentissi mille spine
ferirmi / questa angoscia che mi è amica cadrebbe in altro luogo / e la luce
falserebbe le mie dita / …/ Forse strapperò zolle quasi verdi / a questo mondo
smarrito / le stringerò e le lascerò gemmare / fino a quando le fate non le
riportino indietro”.
Ma il sogno cede il passo ad un
repentino, eppure atteso e accettato, cambio di scena. “Adesso che la notte non finisce più / prego e veglio i miei morti /
Oggi è già domani / ed è ora che si apra il cielo” (Oggi è già domani). Si fa più urgente e acuto il desiderio di un
ritorno all’intimità e agli affetti familiari, a quel tempo lontano e a quei
luoghi di un’età sognante e felice. A tutto tondo emergono, miracolosamente
intatte, le creature fascinose e innocenti di quella terra buona, un universo
virgilianamente panico che prende vita e respiro (foglie, spighe, alberi, fiori,
frutti, ruscelli, odori, sapori; ma anche campane e aquiloni e favole),
creature che icasticamente assurgono a inossidabili e rassicuranti testimoni
dell’infanzia, di quel tempo in cui “-
… le rose infioravano il giardino / e le
voci erano quiete al trascorrere del tempo - / oggi tutto è fermo / il giardino
le campane le voci / … / Altre primavere mi allontaneranno dalle Tue vesti /
Ora la sera mi trascina in un’alba di foglie / e le mie mani, Padre, ancora ti
cercano” (E le mie mani, Padre).
Da un lato, dunque, la
decostruzione del passato, la sua frammentazione nelle tessere di un puzzle
che, prese singolarmente, danno la misura di un’ostinata e meticolosa
rivisitazione del tempo andato, consumata, sul piano stilistico, in una
tessitura di versi sciolti, non condizionata dai canoni della metrica (anche se
fa capolino, con ricorrente insistenza, l’uso dell’endecasillabo, come ad
esempio nell’incipit di “Ascolta”: “Anche questi tremori che misurano / quanto
ancora ci sia da ricordare”; o nel titolo della raccolta, ripetuto anche
nel corpo della lirica eponima, “Aspetterò
l’arrivo delle rondini”), ma ricca di rimandi arcani e di metafore
immaginifiche, che si elevano a cifra di consumata padronanza del verso e del
ritmo, talvolta arricchito da enjambements che, interrompendo la struttura
sintattica del verso, stanno quasi a significare, simbolicamente, la
separazione tra passato e presente, tra realtà e sogno, tra i luoghi dell’anima
e quelli immaginati e cercati per dare lenimento al cuore e risposte alla sete
dell’inconoscibile: “Sapessi almeno dove
sei / o dove vanno i tuoi pensieri / con quella tua ombra che non tace” (Sapessi almeno dove sei).
Dall’altro lato, invece, quasi a
ripristinare un continuum tra “questo
nostro tempo consumato” e i luoghi e il tempo di un nuovo inizio (“accompagnami in quest’ultima corsa / e fa
che sia un Tuo cenno a ritrovarmi / Ora il mio volo è una vela argentea che
guarda il cielo” - Debole è la
pioggia) c’è il sistematico ricorso all’uso del futuro fin dai titoli
stessi delle liriche (Aspetterò l’arrivo delle rondini; Quando
sarò dal Padre; Sarà solo il tuo anelito; Presto verrà il caldo; Nulla più
diremo; Ma oggi con te altro cercheremo…). Questa reiterazione del
tempo a venire, unitamente ai rimandi ad un altrove prossimo venturo,
ricorrenti stilemi della raccolta, sottendono un divenire che plasticamente
sottolinea il valore simbolico, e starei per dire religioso, di un’attesa che
travalica i confini del contingente e del reale per assurgere alla dimensione
onirica e catartica di un avvento che, già nel titolo stesso della raccolta,
suona come fiduciosa e profetica epifania di un tempo nuovo.
Tanto ancora ci sarebbe da dire
sulla preziosa raccolta, ricca di echi classici, soprattutto novecenteschi
(Saba, Ungaretti, Quasimodo, per certi versi anche Luzi…), ma che si distingue
per una sua originalissima vena intimistica, dal timbro lievemente crepuscolare
(Giorgio Bàrberi Squarotti la collocherebbe tra i modelli più riusciti di
quella che lui chiama “poesia del cuore”).
Roma, 10 marzo 2012 - Umberto
Vicaretti
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