CLAUDIO FIORENTINI, COLLABORATORE DI LEUCADE |
Questo libricino, dall’apparenza insignificante, è stato
pubblicato nel 1969. Ha la caratteristica di essere stato dipinto a mano, per
cui ogni copia, delle mille pubblicate, è unica. Ma il libro, pur avendo molto
da raccontare, in questo caso mi serve da spunto per presentare un poeta
straordinario, pressoché sconosciuto, che solo ora si sta rivalutando in
Messico, il suo paese natale. Parliamo di Juan Martinez (1933-2007), un uomo
straordinario da tutti i punti di vista. Prima di vedere perché, chiarisco che
ho avuto il privilegio di conoscere Alberto Blanco e Victor Soto Ferrel, il
primo è forse il poeta più importante in Messico, e il secondo, oltre ad essere
poeta, è titolare di alcune cattedre a Tijuana, sua città natale, è stato mio
professore di letteratura al liceo (già, ho studiato on Messico), ed è stato
lui a regalarmi quel libro nel 1975. Alcune settimane fa ho incontrato Alberto
Blanco (era di passaggio a Madrid, dove vivo), gli ho mostrato il libro che ha
aperto una scatola di Pandora, e ha cominciato a raccontare. Quello che riporto
qui è solo una piccola parte di quanto raccontato e, pur se vi sembrerà
incredibile, posso dirvi che mai fonte di racconti è stata più affidabile.
Il gruppo di amici di allora era formato da quattro poeti
(Alberto, Victor e altri che non ho conosciuto): pubblicavano riviste,
organizzavano eventi, suonavano rock e blues, avevano i capelli lunghi e
animavano la vita culturale dell’epoca, a cavallo tra gli anni sessanta e
settanta. Juan Martinez era un loro amico, un folle con capelli e barba
lunghissimi che viveva per strada, a Tijuana, probabilmente la città più
pericolosa del mondo. Era un poeta straordinario già allora, ma era anche un
artista e si divertiva a disegnare per ore, su pezzi di carta rimediata e
utilizzando penne trovate per strada, pallini piccolissimi, con cui riempiva il
foglio creando opere d’arte di cui rimane ben poco. Certo, viveva per strada,
ed era una strada difficile la sua, per questo, delle molte centinaia di
disegni che ha lasciato, se ne sono salvati ben pochi. Racconta Alberto che
Juan aveva una muscolatura invidiabile, era forte e scattante, del resto lo
stesso Juan diceva “…vivere in strada è difficile, avere muscoli ti aiuta”; una
volta i due stavano camminando per le strade di Tijuana e Juan lo aveva guidato
nelle zone malfamate, a un certo punto si sono trovati davanti una di quelle
bande che solo a vederle tremi di paura. Juan rassicurò Alberto “no pasa nada”
e cominciò a fare la cosa più strana che si possa immaginare: flessioni, respirando
ritmicamente, come un mantice, appoggiandosi a uno spuntone di cemento,
probabilmente un pilastro rimasto a metà. Non ci volle molto affinché la banda
di delinquenti si aprì come gli oceani si aprirono per far passare Mosè, e i
due poeti attraversarono quel varco. Juan non aveva paura di nulla, gli altri
avevano paura di lui. Racconta Alberto che un giorno lo incontrò a Città del
Messico, a 2000 km da Tijuana, il dialogo tra i due fu più o meno così: “che ci
fai qui?” “avevo voglia di rivedere la città” “E come sei venuto?” “A piedi”.
Dice Alberto che non può certo sapere se Juan ha effettivamente fatto 2000 km a
piedi, ma conoscendolo, non esitò a credergli. Quell’uomo straordinario non
aveva orari, non aveva codici comportamentali, non aveva alcun legame con la
“civiltà”, eppure le sue origini erano in una famiglia benestante, dove sono
rimaste, lontano dalla follia e dalla genialità che portava sempre con sé, in
strada.
E infatti Juan era un poeta che viveva di elemosine, un
sognatore che viveva alla giornata senza mai pensare al domani. Lo dimostra
questo libro, l’unico che ha pubblicato come editore, con tiratura di mille
copie, a proprie spese e decorato a mano. Fu un giorno in cui una signora gli
diede un’elemosina importante, alcune migliaia di “pesos”, con cui, invece di
comprare qualcosa per sé, pensò che sarebbe stato bello pubblicare “Anabasis”,
il poema di Saint John Pierce. Io ne ho una copia.
Ma la poesia di Juan, com’era? Propongo alcuni suoi
versi, tradotti da me:
...trovai il sangue sparso
dell’anima dei poveri e degl’innocenti,
non trovai propriamente in
scavi
ma in tutte queste cose
che tocchiamo ogni giorno col nostro sguardo,
le mie interiora accese
urlarono e conservai lo loro rabbia per sempre,
l’amarezza del mio cuore penetrò
fino al midollo,
le acque di lassù si
fermarono e mancò la pioggia,
guardai la Terra ed ecco,
era qui
arsa e vuota,
i monti tremarono per il
panico,
i cieli si oscurarono,
e le impalcature del mio
cervello, come gabbia per uccelli,
si trovavano nell’inganno,
i miei occhi non videro e
le mie orecchie non udirono,
allora salii verso il
mezzogiorno e cavalcai pianure come ombra del pomeriggio
ed ecco quello che trovai
e che porto per voi:
aspettate a rallegravi, è,
semplicemente, un sepolcro aperto…
Claudio Fiorentini
Molto interessante, ignoravo completamente questo poeta, Juan Martinez, che è eccezionale anche per aver essere riuscito a vivere come un vagabondo fino ad oltre 70 anni. Mi documenterò...
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