venerdì 30 luglio 2021

SONIA GIOVANNETTI LEGGE: "BORGHES - VOCI" DI STEFANO BALDINU

SONIA GIOVANNETTI LEGGE: "Boghes - Voci" DI STEFANO BALDINU (Puntoacapo, 2021) 












Sonia Giovannetti,
collaboratrice di Lèucade

Al cospetto della complessa opera poetica di Stefano Baldinu (“Boghes”:“Voci”), confesso di provare un senso di inadeguatezza, sapendo  ancora troppo poco – mio malgrado – della terra sarda per poter giudicare quanto dell’anima di questa terra il poeta abbia saputo trasfondere nei 39 componimenti di questa sua fatica. Ma se dovessi acquisirne una più approfondita cognizione basandomi sulle tante “voci” della raccolta, devo ammettere che il fascino per questa “terra di confine” superebbe di gran lunga quello, peraltro già ragguardevole, provato in passato nella mia veste di assidua visitatrice “continentale” di questa nostra suggestiva quanto enigmatica sentinella tirrenica. Una fascinazione, la mia, che nasce del tutto immediata e spontanea già dalla prima immersione nei versi di Baldinu, in primo luogo per una lingua che, sebbene a me sconosciuta e pressoché inaccessibile, mi ha trasmesso subito il senso di una spiccata musicalità, connotato essenziale e distintivo della poesia, che è innanzitutto suono, incontro armonioso di significanti deputati a produrre senso. Una musicalità che, quasi miracolosamente, mi è parsa sopravvivere intatta alla traduzione – minaccia, questa, sempre incombente sulla qualità verginale di un’opera letteraria – e che asseconda una struttura della silloge imitativa di una composizione di musica classica. Ma il vero “miracolo” di queste poesie, viene da pensare con più laica disposizione, sta nella meticolosa ricerca filologica compiuta da Baldinu per dare evidenza e rendere omaggio a tutte le declinazioni della famiglia linguistica sarda, convocate a comporre una polifonia suggestiva, rivelatrice delle diverse stratificazioni dell’anima isolana. Una ricerca linguistica che, propedeutica alla stesura, deve presumersi impegnativa e complessa, stando alle “note tecniche” divulgate dallo stesso autore, e che solo uno sconfinato amore per la propria terra di origine può avere ispirato e guidato con tanta acribia. Una traccia della polifonia originaria dell’opera resta nelle indicazioni a piè pagina di ogni poesia tradotta, relative alle singole varianti linguistiche utilizzate per ciascuna di esse. Ad impreziosire ulteriormente l’eterogenea coralità della silloge, concorrono le voci plurali di poeti sardi che accompagnano in esergo ogni poesia, quasi a voler testimoniare ancora più incisivamente l’intima appartenenza dell’autore alle proprie radici culturali.

Le poesie hanno varia matrice e diversi motivi ispiratori: vi trovano spazio, accomunati da una potente impronta lirica e sovente malinconica, affetti familiari, ricordi, turbamenti sentimentali, meditazioni sofferte e compassionevoli sugli “ultimi”, i dimenticati e gli oppressi del mondo, contemplazioni pacate sui temi della vita e della morte dal sapore filosofico. C’è in esse il mondo, un mondo privato ma anche sociale, il nostro mondo, sul quale ad ognuno di noi capita ogni giorno di riflettere: con nostalgia affettuosa, talvolta con gioia, altre volte con riprovazione per ciò che è ingiusto, spesso con dolore. E, in tutte, è la sensibilità estrema di questo poeta a risaltare come sua dote prevalente, a guidarne la penna in un fare talvolta assorto e meditabondo, come in “Deserto”: “L’uomo è fatto di/ polvere e sabbia/ seguendo carovane/ di vento va incontro/ ad altri uomini”;   in altri casi mirabilmente asciutto: “Spargo gemme di sera/ nel giorno che muore/ come un usignolo/ che volta, si ferma e canta/ lunghe pagine di silenzi” ( “Come un usignolo”).

Vive poi, nella maggior parte delle composizioni, un turbinio di immagini, prelevate dal mondo della natura - “Descrivere il cielo/ a tratti sottili/ nel buio profondo/ con la vitalità di un fiume/ e ricordarsi di una vita/ nel viso che dorme/ trafitto dall’alba” (“Una vita”), o da artefatti di uso quotidiano, che fanno da contrappunto ai diversi stati d’animo del poeta: ai suoi abbandoni contemplativi, al senso di solitudine, alla tristezza, agli slanci affettivi. Tanto che il lessico di “Voci” risulta popolato da una moltitudine di metafore attinte da quei serbatoi simbolici; metafore alle quali il poeta ricorre con generosità e larghezza espressiva, al punto da caratterizzarne in modo inconfondibile lo stile, e a cui egli sembra a volte concedersi con palpabile compiacimento, arrivando a disegnare labirinti caleidoscopici che, costruiti per dipingere uno stato d’animo, sembrano chiamati piuttosto a stemperare il dolore, ad attenuare lo sconforto – “…Eppure qualcuno avrà udito la pronuncia di una lacrima/ dal ciglio sospeso delle palpebre trasformare/ il silenzio delle arnie di luci in frantumi di vetro,/ venare l’equilibrio di una sillaba lasciata arrugginire/per timidezza in una pagina del tuo vocabolario” ( “In questa attesa di vento”).   Ma la malinconia di fondo, di sapore leopardiano, che pervade l’intera raccolta – quante volte il pensiero di Baldinu si sofferma sull’infinito! – si converte sovente in speranza. La morte stessa, presenza frequente nei versi, piuttosto che generare cupa disperazione, è trattata con pacatezza dolente, anche quando si aggira nella cerchia familiare del poeta. Essa sembra anzi diventare una chiave efficace a penetrare il mistero della vita. La morte, sembra dire il poeta con afflato filosofico, non è mai “nulla”; c’è sempre un “polline” a farle compagnia, e c’è sempre una “pioggia” – altro simbolo vitale – a collegarla alla vita, come nel ciclo della natura, che si perpetua eterno e immutabile. “Sta tutta in questa notte, dove Dio si è fatto malva/ all’angolo delle labbra di un silenzio di pioggia/ pronto a dissolversi, la tua mano che traccia sull’epidermide/ di ogni goccia e sulla mia fronte una carezza di luce” (“Gaetana, ricordo di una sorella”).

In molte delle poesie, infine, è protagonista il silenzio, che, insieme all’assenza – altro soggetto ricorrente – sembrano potenti catalizzatori di significato, non solo però come meri espedienti espressivi, alla maniera del simbolismo o dell’ermetismo, ma come entità depositarie di verità metafisiche, veri e propri fattori di conoscenza del mistero della vita, emblemi dell’insondabilità di un infinito in cui cerca il proprio riscatto la finitezza delle cose.

Non stento a ipotizzare che tante immagini del paesaggio sardo, per il ricordo ancora vivo che ne conservo, abbiano fatto da culla naturale al germogliare di siffatte visioni e suggestioni poetiche. Mi piace allora concludere che, se la Sardegna somiglia davvero alle “voci” di Baldinu, dopo avere assaporato la loro malia non potrò fare a meno di tornare a incontrarla!

Sonia Giovannetti

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