Tutta la vita da vivere, di Francesco
Paolo Tanzj
Graus Edizioni, 2021
Con questo nuovo
romanzo, Tutta la vita da vivere (Graus
Edizioni), fresco di stampa, Francesco Paolo Tanzj si conferma essere il
notevole affabulatore che conosciamo, da sempre connesso, in prosa come anche
in poesia, ai temi del vitalismo avventuroso, tipico della letteratura
americana in genere, ma particolarmente degli autori della beat generation cui egli è fortemente legato,
con quel rifiuto degli schemi imposti e con quel richiamo all'istintività, alla
consapevolezza dell'istante, alla vita libera e nomade che paradossalmente si
traduce in ansia di stanzialità e nuovo radicamento, come fu nell'ideologia incredibilmente
georgica dei figli dei fiori. Insomma,
un'ansia di rinnovamento, di rinascita, di ripartenza, di riprogrammazione, che
nel nostro autore si sposa tuttavia con quella sensibilità squisitamente
esistenzialista ed europea, conscia della vanità di ogni spinta innovativa.
Una sfida persa in
partenza, pertanto, quella del gruppo di sfigati e patetici cinquantenni di cui
si parla nel libro, dal momento che nessuno di loro, o quasi, dopo la prima
fase fallimentare dell'esistenza, riesce - chi per un motivo chi per un altro -
a farsi, come pure vorrebbe, una vita nuova. Il motivo è semplice: qualsiasi slancio
vitale pretende quella pianificazione che inesorabilmente mortifica in senso organizzativo,
e dunque schematico, la spinta creativa. Così la noia piccolo-borghese finisce
per avvolgere e soffocare nella sua immensa ragnatela qualsiasi anelito ideale,
conducendo le menti - così dice l'autore - nell'"incapacità di applicare quell'hic et nunc così tanto sbandierato a
parole". E "non è per niente facile - spiega altrove - questa storia
dell'hic et nunc, perché la nostra
mente viene facilmente assalita dai ricordi, e quelli peggiori hanno spesso la
meglio e noi ci ritroviamo a rivangare il passato".
Oppure, io aggiungo,
a sognare un futuro impossibile, perdendo in ogni caso smalto e freschezza nel presente, nel momento
attuale che, per essere vissuto fino in fondo, non ammette dispersioni. Il
fatto è che l'hic et nunc, la
filosofia dell'attimo, pretende uno stato d'animo puro, di creatività assoluta,
ed è una purezza difficilmente raggiungibile da parte di esseri dimentichi dell'Essere,
del loro stesso Essere, quali noi siamo. Di esseri, ossia, gettati
nell'esistere e abbandonati al flusso delle cose, pronti a scambiare il vivere con il lasciarsi vivere, in balia di eventi che li travolgono, vanificando
ogni loro pretesa di prendere la propria esistenza tra le mani. Questo romanzo,
apparentemente immerso nel tumulto e nei clangori della vita sociale (feste, cene,
rimpatriate, appuntamenti di ogni genere, incontri, progetti comuni e grandi
tavolate), assume così valenze squisitamente psicologiche, mostrando i modi in
cui l'io che si catapulta nel mondo senza aver maturato un'adeguata forza
interiore, finisce fagocitato miseramente proprio dal mostro mondano.
Ed è quanto accade
al protagonista, il commercialista Sandèr Trieco, dopo la separazione dalla
moglie, Irma, (separazione razionalmente incomprensibile, in quanto avvenuta
senza sussulti, per puro e semplice esaurimento della spinta iniziale). Il
nostro Sandèr proietta il suo sguardo tutto fuori di sé, nella speranza di
poter trovare tra le antiche amicizie nuovi spunti e nuove occasioni di vita,
ma è una sconfitta, una capitolazione, giacché, come dice Heidegger, non si può
trovare se stessi nella vita di tutti, che è inevitabilmente vita di nessuno. I
moventi per vivere vengono da dentro, non da fuori. "Di qui le sue ansie,
scrive l'autore parlando di Sandér, o quella sensazione fastidiosa e sofferente
di vivere una vita non sua ma di non avere il coraggio di cambiarla".
Tuttavia, prosegue
l'autore, "questo era quello che voleva fare: perdere tempo. Per non
pensare troppo. Per rimandare decisioni ancora oscure e comunque premature. Per
vivacchiare a modo suo questo intermezzo di vita tra un passato così prossimo e
un futuro ancora tutto da inventare. Non c'era fretta. Non voleva avere
fretta". Uno stato d'animo comune a tanti suoi compagni invischiati in
analoghe disavventure. Per cui il romanzo, in fondo, così ci informa l'autore, non
fa che raccontare "un'unica epopea postmoderna e arrangiata di gente
sempre alla ricerca di qualcosa e mai soddisfatta". Donne ed uomini sulla
soglia dei cinquanta, con vite regolarmente spezzate, nel tentativo di
riannodare i fili di giovanili trame esistenziali, con una voglia matta, ma in
fondo patetica, di ricominciare daccapo.
La girandola si apre
con un invito in campagna - da Carlo ed Ornella, che hanno scelto di dedicarsi
alla vita agreste - dove il gruppo di gioiosi commensali viene impietosamente
messo a conoscenza della morte di un comune amico, Matteo. Ed ecco apparire l'ombra
della morte, che si estende d'ora in avanti fino alla fine del libro con tutto
il suo strascico di riflessioni deludenti ed amare. Ed è paradossale che un
romanzo come questo, intitolato Tutta la
vita da vivere, finisca per concentrarsi sul tema della morte, come limite
estremo dell'esperienza vitale. "La morte, scrive Francesco, che poi è un
evento così dannatamente naturale, ti mette davanti al fatto compiuto che è il
presente da vivere - fino in fondo e con tutto te stesso - e che il resto sono
solo elucubrazioni mentali, rimuginazioni stantie e fondamentalmente
inutili".
Ma il fatto è che per
poter vivere il presente con tutto te stesso, devi aver elaborato un te stesso
che sa affrontare il flusso degli eventi (ossia della vita e della morte)
restando in qualche modo padrone di sé. Ci sono delle citazioni molto
interessanti, in esergo - una di Joseph Roth, una di Tilopa e un'altra di
Zenrin Kushu - che esaltano l'inazione come capacità dell'uomo di non strafare,
lasciando che le cose maturino da sé. Tutto bello e condivisibile, purché non
si confonda questa sana fiducia, che potremmo dire taoista, nella vita con il
desiderio di nascondersi e non assumersi responsabilità. Come accade al
protagonista, Sandèr, che - dice l'autore - a un certo punto "si
immobilizzò, quasi facendo finta di non esistere, di non essere lì. Restò
sveglio ancora per molto a pensare alle sue esitazioni, ai suoi atti
incompiuti, alla sua vigliaccheria".
Ecco: un conto è
questa tipologia di inazione, che invita a cancellare se stessi e a porre la testa
sottoterra come gli struzzi; un altro è intendere l'inazione come equilibrio,
come capacità di vivere interiormente, oltre che esteriormente, la vita. La
vita non è un viaggio a senso unico nel mondo, come potrebbe sembrare. In
realtà si fanno due viaggi in uno: uno fuori e un altro dentro se stessi. In
altri termini, si è eremiti tra la folla, perennemente in solitudine e perennemente
in compagnia. Si è sempre soli, da quando si nasce a quando si muore. Si è soli
anche mentre si vive, ma "fortuna
che esiste l'amicizia, dice a un certo punto Sandèr parlando con Carlo. Io ti
sto dicendo queste cose, mi sto confidando con tutta l'umiltà necessaria, ma so
che non potrai aiutarmi, dirmi la parola definitiva: ma mi sei vicino, lo
sento, e questo è già tanto".
E' il tema della
solitudine, pertanto, al di là di tutte le fanfare esistenziali, a farsi
davvero centrale in questo romanzo. Il tema della solitudine connesso con quello
dell'amore: riflessione la cui acme possiamo trovare nelle stupende pagine dedicate
alla storia d'amore intercorsa tra Viola e Sandèr. Un amore squisitamente
platonico, un'intesa ideale durata un'intera esistenza, sia pure coronata alla
fine da un esaltante atto carnale, immediatamente rientrato nei ranghi tuttavia:
"Cerca di capire, lei dice, io ti voglio bene ma le nostre vite, lo sai,
andranno avanti ognuna per conto suo. Noi ci siamo capiti per tante cose, ma
siamo destinati a essere soli". E' paradossale, ma è proprio questo
l'amore, il vero amore. E' padronanza di sé, capacità di rispettare l'altro
senza asservirlo ai propri capricci, ai propri egoismi, alle proprie pretese.
Ci sarebbero molte altre cose da dire. Parlare ad esempio di Giampiero, personaggio carismatico, "dei suoi soliloqui interminabili", della "sua smania di spiegare il mondo agli altri senza aver mai capito nulla di se stesso". Personaggio mai scosso da dubbi, che tuttavia alla fine cade in profonda depressione (ed è certamente una crescita, una maturazione). Ci sarebbe molto altro da dire e da argomentare, come ad esempio del concetto di casualità di cui a più riprese parla l'autore, che è - ricordiamolo - uno scrittore-filosofo, ma se rivelassi tutto finirei per togliere curiosità e interessi al lettore. Una riflessione soltanto voglio aggiungere a conclusione, riguardante lo stile. Una vivacità scritturale sorprendente che dà molto spazio al parlato. Gli anglismi abbondano, così come abbondano i dettagli territoriali: nomi di luoghi, di strade, di città, eccetera. La cartina geografica è molto consultata, in nome di un cosmopolitismo che è realtà contemporanea consolidata.
Franco Campegiani
Vibrante, appassionata, calda e struggente questa tua lettura del romanzo di Francesco Paolo Tanzj, che purtroppo non ho letto ancora. Amico mio, sei stato un relatore eccellente nel corso dell'evento di giovedi primo luglio! Lo immaginavo e ne ho piena conferma leggendo questa recensione che è lettura ispirata dell'Arte e dell'anima del nostro comune amico. Conosco molto bene lo stile e gli ideali di Francesco e lo ritrovo in ogni tua parola. Alludi al "vitalismo avventuroso, tipico della letteratura americana in genere, ma particolarmente degli autori della beat generation cui egli è fortemente legato, con quel rifiuto degli schemi imposti e con quel richiamo all'istintività" e centri l'essenza della scrittura dell'Autore in prosa e in poesia. Abbiamo avuto l'onore di presentarlo e leggerlo in molte occasioni ed è proprio l'uomo che asserisce che "si è eremiti tra la folla, perennemente in solitudine e perennemente in compagnia". Credimi, Franco, riporterei altri tuoi estratti, ma rappresenterei una sottrazione non un valore aggiunto alla tua esegesi e all'Opera di Francesco con un commento così sterile. Sento l'esigenza di dirti la gratitudine per questo evento privato, che mi ha risarcita, e che non vedo l'ora di divorare questa
RispondiEliminaennesima prova del nostro poliedrico, fantastico amico. Ringrazio te, Francesco, il Nume Tutelare che sorride felice, e vi stringo tutti con affetto antico!
Cara, carissima Maria, mi rende molto felice questa tua condivisione. Grazie, sono davvero esaltato dal tuo incoraggiamento e dalle parole che mi rivolgi. Il nuovo lavoro di Francesco Paolo è straordinario ed io non ho fatto che galoppare a briglia sciolta nell'onda emotiva della sua scrittura.
EliminaFranco
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RispondiEliminaCarissima Sonia, ti ringrazio vivamente per questa tua nota acutissima e per la profondità con cui entri nella mia lettura del testo di Francesco Paolo, cogliendone aspetti fondamentali. Mi riferisco soprattutto alla dualità del viaggio esistenziale, sia dentro che fuori se stessi, e al riflesso che i due viaggi hanno uno sull'altro. Una dualità che comporta equilibrio, padronanza di sé, e che in tema di amore non può che spingere al rispetto profondo dell'altro, contrariamente a quanto purtroppo avviene, soprattutto oggi, nella prassi giornaliera.
EliminaFranco Campegiani
Sono molto grata a Franco Campegiani per aver anticipato, con questa bella e acuta esegesi, la lettura che, con piacere, mi accingo a fare del libro dell’amico Francesco Paolo Tanzj. Non ho potuto essere presente il giorno della presentazione, era per me lavorativo. Mi ha affascinato la riflessione del nostro viaggio terreno che “non è un viaggio a senso unico nel mondo, come potrebbe sembrare. In realtà si fanno due viaggi in uno: uno fuori e un altro dentro se stessi. In altri termini, si è eremiti tra la folla, perennemente in solitudine e perennemente in compagnia. Si è sempre soli, da quando si nasce a quando si muore. Si è soli anche mentre si vive” e di questo ne sentiamo il peso e, insieme, l’impegno responsabile a ricercare il bagliore che può illuminare il tragitto, come può essere “il vero amore” anche e, soprattutto, platonico per diventare la forma di “padronanza di sé, capacità di rispettare l'altro senza asservirlo ai propri capricci, ai propri egoismi, alle proprie pretese".
RispondiEliminaSonia Giovannetti
Sono molto grata a Franco Campegiani per aver anticipato, con questa bella e acuta esegesi, la lettura che, con piacere, mi accingo a fare del libro dell’amico Francesco Paolo Tanzj. Non ho potuto essere presente il giorno della presentazione, era per me lavorativo. Mi ha affascinato la riflessione del nostro viaggio terreno che “non è un viaggio a senso unico nel mondo, come potrebbe sembrare. In realtà si fanno due viaggi in uno: uno fuori e un altro dentro se stessi. In altri termini, si è eremiti tra la folla, perennemente in solitudine e perennemente in compagnia. Si è sempre soli, da quando si nasce a quando si muore. Si è soli anche mentre si vive” e di questo ne sentiamo il peso e, insieme, l’impegno responsabile a ricercare il bagliore che può illuminare il tragitto, come può essere “il vero amore” anche e, soprattutto, platonico per diventare la forma di “padronanza di sé, capacità di rispettare l'altro senza asservirlo ai propri capricci, ai propri egoismi, alle proprie pretese".
RispondiEliminaSonia Giovannetti
Non posso esprimermi circostanziatamente sull'opera di Francesco Paolo Tanzj in quanto non ho letto il romanzo e, purtroppo, non ho neanche potuto assistere alla presentazione tenutasi presso la libreria Horafelix a Roma in giorno feriale.
RispondiEliminaCiononostante dall'esegesi di Franco si possono ricavare delle considerazioni che sono in qualche modo rivelative, se non della trama, del messaggio che l'opera narrativa si fa carico di trasmettere. E, di questo, va dato merito sicuro al recensore: non è facile - in modo particolare quando si parla di questo genere letterario - far entrare il lettore nel vivo del discorso.
Franco ci è riuscito sottolineando aspetti che coinvolgono la visione del mondo sia dell'io narrante che degli stessi protagonisti.
In particolare - e valga per gli altri che non riporto - mi piace citare il passo che segue:
"Come accade al protagonista, Sandèr, che - dice l'autore - a un certo punto 'si immobilizzò, quasi facendo finta di non esistere, di non essere lì. Restò sveglio ancora per molto a pensare alle sue esitazioni, ai suoi atti incompiuti, alla sua vigliaccheria'. Ecco: un conto è questa tipologia di inazione, che invita a cancellare se stessi e a porre la testa sottoterra come gli struzzi; un altro è intendere l'inazione come equilibrio, come capacità di vivere interiormente, oltre che esteriormente, la vita. La vita non è un viaggio a senso unico nel mondo, come potrebbe sembrare. In realtà si fanno due viaggi in uno: uno fuori e un altro dentro se stessi.".
Ecco, questa acuta considerazione di Campegiani svela la validità di un libro che incontrerà sicuramente il favore dei suoi fruitori.
Sandro Angelucci
Sandro carissimo, ti sono molto grato per l'incoraggiamento. In effetti il genere narrativo richiede una particolarissima attenzione critica, ma io sono stato agevolato dalla conoscenza personale e diretta dell'autore, la cui visione del mondo - hai ragione - si può considerare aggrumata intorno al tema dell'inazione, non intesa come blocco psichico o ripiegamento dell'io su se stesso, ma come equilibrio e dissuasione allo strafare; come invito all'azione secondo natura, e non contro.
EliminaFranco Campegiani
RICEVO E PUBBLICO
RispondiElimina"Ho avuto il privilegio e l'onore di ascoltare "in presenza" la splendida relazione dell'amico Franco Campegiani, avendo introdotto, presso la libreria Hora Felix di Roma, l'ultima opera di Francesco Paolo Tanzj "Tutta la vita da vivere".
Ritengo la lettura critica di Franco una grande prova di maturità artistica, in quanto tra le righe ho trovato, oltre alle consuete riflessioni filosofiche, anche una passionalità, un'incandescenza di espressione veramente notevole e contagiosa. Abbraccio Franco ed insieme a lui il nostro Nume Tutelare, che permette questi scambi vitali sulla sua
Isola incantata".
Grazie
Loredana D'Alfonso
Grazie, carissima Loredana. Ho ascoltato con gioia, alla Hora Felix, la tua brillante introduzione, ma soprattutto, poi, ti ho sentito davvero partecipe delle mie riflessioni nel mentre le esponevo. Questo è molto bello, ma il merito, per la verità, è di Francesco Paolo, che non finirò mai di ringraziare per l'opportunità che mi ha dato di parlare della sua scrittura.
RispondiEliminaFranco Campegiani