Franco Campegiani: lettura di
“ALLA VOLTA DI LEUCADE”
“ALLA VOLTA DI LEUCADE”
di
Nazario Pardini
“Con gli occhi alla
campagna abbandonata / dalle fughe in città, mi ripeteva / mia madre: “Tutto è
vuoto! Non si semina / più quel bendiddio. E’ tutto un abbandono. / Che cosa
mangeremo nel futuro? / Più nessuno lavora…”. Così, parlando della fine della civiltà
contadina, Nazario Pardini, nel suo recente lavoro, Alla volta di Leucade (Mauro Baroni editore), ci porta nel vivo
delle problematiche contemporanee, evidenziando come proprio quella fine
coincida con le insolute crisi odierne. Un discorso attualissimo, pertanto, la
cui tensione verso le stagioni aurorali del mito non è nostalgia del passato,
ma ricerca di quei momenti iniziali della storia che coincidono appunto con
l’avvento della cultura contadina, nell’auspicio che tale immersione possa
giovare alla presente civiltà.
Non diversamente, a livello filosofico, molti pensatori attuali vengono
rivolgendo le proprie attenzioni ai Presocratici, consci dell’esaurimento di
quel ciclo storico che parte esattamente dallo strappo prodotto dal
razionalismo classico nei riguardi del substrato cosmogonico che lo precedette.
E che dire, a livello artistico, dell’avanguardismo contemporaneo che rivolge
il proprio sguardo ai Primitivi ed alle poetiche più arcaiche, con il fine
dichiarato di trovare spunti innovatori ed energie in grado di aprire nuovi
corsi alla cultura visiva? C’è modo e modo di intendere il mito. Un conto è la mitopoiesi sorgiva e creativa, sempre
nuova a dispetto dell’apparente arcaicità; un altro conto è la mitologia stanca e ripetitiva, che è soltanto
sfoggio estetico, erudizionismo fatuo, pura e semplice nostalgia del tempo che
fu.
Ebbene, direi che in Leucade, antica città-isola dell’Acarnania
identificata con Itaca, Pardini riesca a raccogliere e a porre a confronto le
due differenti concezioni del mito. Da un lato, infatti, l’isola è vista come approdo definitivo, e, dall’altro, come
semplice tappa di un viaggio
infinito. Da un lato, sull’esempio di Saffo, la splendente e purissima
bianchezza delle rocce non fa che spingere al salto gli amanti incorrisposti e
disperati (fine del viaggio);
dall’altro, secondo il mito odisseico (continuazione
del viaggio), la meta mai raggiunta resta pur sempre raggiungibile, per
quanto impervia e lontana. Da un lato abbiamo il mito orfico del sogno impossibile e sempre negato; dall’altro il mito omerico del sogno eroicamente
conquistato. Da un lato la fuga dalla storia verso un sogno di pienezza
irraggiungibile; dall’altro l’impegno, il sacrificio e la lotta in vista di un
risultato, si, mai raggiunto, ma ritenuto comunque a portata di mano.
Da un lato la visione nirvanica
e rinunciataria dell’esistenza, dall’altro la visione vitalistica e battagliera. Il poeta sembra a volte oscillare tra le
due soluzioni: “… non so se vale / di più restare immoti nella stasi / di un
eterno sereno che provare / il dolce senso del dolore umano”. Altre volte
sembra addirittura sfiorato dalla tentazione tragico-orfica dell’immobilismo
totale: “… Quindi, cari amici, / che ognuno resti sulla propria isola, / sulla
spiaggia agognata o della casa / nella stanza più cara”. Ma non sono che
attimi. Più in profondità, di fronte al dilemma, egli opta per la visione
odisseica che considera il limite non
in forma statica, bensì dinamica, come pausa
di un viaggio infinito. Così il suo mito non è mai rivolto al passato, ma al
divenire incessante. Ed il ritorno alle origini non è che un trampolino di
lancio verso mete lontane. Giacché le origini non sono soltanto originarie, ma anche originanti, e affidarsi ad esse può
avere un significato soltanto: iniziare daccapo.
Una visione ciclica dell’esistenza, pertanto, che predilige le
metamorfosi, le mutazioni, gli avvicendamenti stagionali. Da qui l’amore di
Pardini per la natura cangiante, come per il borgo rurale d’altri tempi, aperto
ai venti del cosmo, dove vige un senso della libertà (la libertà di non approfittare della libertà) ben più profondo di
quello inaugurato nella polis greca,
sorta in antagonismo con il creato intero. Innumerevoli e struggenti i ricordi
dell’adolescenza silvana dell’autore. E torna la vitalità di un paganesimo
sommariamente condannato come feticistico
dai polemisti cristiani che forse non ne compresero la profonda
trascendenza: “… volare / sopra la terra bigia, oltre la notte, / avanti che
l’oscuro partorisse / staticità massicce alle memorie, / avanti che l’oscuro
senza stelle / continuasse nero il suo silenzio”.
Un canto disteso, rotondo, piano, musicale e irrefrenabile, quello di
Nazario Pardini. Sensibile alle voci del qui e dell’oltre, aperto al senso del
mistero. Un inno alla natura materna e intelligente, sempre gravida di essenze,
di promesse e messi a non finire, a dispetto dei suoi aspetti indubbiamente
violenti e crudeli. Lo stile è classico, con un vocabolario raffinato ma di
gusto popolareggiante, come a voler sottolineare il carattere sanguigno e
niente affatto aulico del mito, la sua essenza misterica, agli antipodi di ogni
retorica (carducciana o dannunziana che sia). Distanze assodate, direi, anche
rispetto al Simbolismo e al Decadentismo, con il loro culto esagerato dell’Io,
mentre una parentela può ammettersi rispetto all’ermetismo ungarettiano, il
quale ha molto di odisseico e di omerico, sia pure in un orizzonte
individuale.
Il terreno più consono della poetica pardiniana resta tuttavia, a mio
avviso, quello veristico e neorealistico di stampo crepuscolare pavesiano,
secondo cui è il mito a sorreggere ogni realtà, e questa è totalmente
impensabile al di fuori del mito. La realtà può anche allontanarsi
temporaneamente dal mito, ma non può che farvi ritorno, visto che tutto è in
movimento e nulla è definitivo. Pavese era tormentato dal mito di un’età
dell’oro tramontata per sempre, e dunque irripetibile, che di volta in volta
però in lui si rinnovava (ora una donna, ora una terra, ora un partito), lasciandolo
comunque alla fine disilluso e disperato. La poetica pardiniana predilige al
contrario i momenti epifanici ed aurorali del mito. Non che disconosca i
momenti negativi – intendiamoci – ma
vede questi in funzione di quelli, in perenne pulsazione.
Qui niente è a senso unico e la stessa natura – come abbiamo già detto –
è cangiante, non statica. Non ha alcunché di bucolico o di idillico; non si
presenta con pastorellerie o visioni arcadiche. Ciò che prevale è, sì,
l’aspetto armonico, ma contemporaneamente
contrastato della natura: “Si staglia l’ombra del nibbio. Che strano! / Sembra
una palla cerea, oppure un nido / ormai dimesso in questa notte fredda / di
novembre. Ma scatta repentino / e fulmineo sul merlo disattento / in cuore al
leccio. Si consuma in breve / nel marmore brunastro di una notte / di stelle la
rapina. Forse il merlo / che racchiudeva gli occhi sotto l’ala / al riposo,
nemmeno se n’è accorto. / E si parlò di morte nell’ebbrezza / tenera di
dolcezze tra i filari”. Sta qui il grande fascino di questa poesia, in questa
magica capacità di fondere luci e tenebre in un solo respiro.
La stagione preferita è quella autunnale (settembre in particolare),
dove tutto volge al declino, sfaldandosi in metamorfosi continua. E tra le ore
del giorno è magnificato il crepuscolo, visto comunque in funzione dell’aurora:
“Anche se scende languida / la sera ad abbracciarmi / … / io parlerò del rosso
dell’aurora e una canzone / di una giovane donna…”. Si ha spesso la sensazione
dell’imminente fine: “… la vita / è morte differita giorno in giorno, / istante
dopo istante”. E “comunque anche stasera / il sole esplode tanto intensamente /
sopra di noi da rendere fugace / il pensiero di sera. Sulle stoppie /
sanguinanti di falce il cielo soffia / fuoco e io spero lo faccia per dipingere
/ un novello mattino…”.
Tutto sprofonda nel Lete dell’oblio, ma più profonda è la dimenticanza,
più la memoria si accende gloriosa, perché è nel buio più pesto che assume
valore la luce. La memoria, dunque, non come ricordo (“Non c’è da ricordare… /… / … con noi vive la vita”), ma come memoria dell’origine universale (da MEdium MORtis, “nel mezzo della morte”) che si spegne e si accende
nella mente degli umani. Il sentimento della perdita e della sconfitta è
intimamente connesso con quello della rinascita e sta qui l’ulissismo di questa
poesia, che si contrappone all’orfismo dell’assenza, del vuoto, della tragedia
a senso unico, del nichilismo e della disperazione totale: “se la memoria cerca
inutilmente / un’età che teneva incantamenti / rivelatisi vani, / è l’ora di
viaggiare / col sorriso leggero di un’immagine / che sempre dolce e tenera /
eternamente eguale / disperderà quell’aria di un mortale / languore di
settembre”. E’ il bisogno di movimento tipico della psicologia di Odisseo.
Franco Campegiani
E' un bellissimo commento, molto ben attento alle problematiche attuali, alle infondatezze e distrazioni di una folle corsa al declino di ogni precipuo principio di serenità e di pace. Il mondo ellenico paragonato alle spericolatezze e ai rischi di una pericolosa implosione esistenziale.In questo difficilissimo momento storico si ha spesso la visione di una fine imminente, quasi di ingloriosa e fulminante vittoria di Thanatos sulla vita, soprattutto di quella valoriale di principi e di meraviglie, di serenità e pace. Si avvertono i sintomi di una disfatta, ma anche prepotente il bisogno della vita, la sua inimmaginabile luce che va scomparendo nell'odierna psicologia da "fuorileggi" che tende a ribaltare e sobillare le regole del gioco, la sua incapacità di salvezza è come toccata da una oandemia misteriosa, stordita dalle luci intensissime di una forma occlusiva che rientra in un'avventura fortemente mistificatoria e letale, perché non più sostenitrice del bene.
RispondiEliminaNinnj Di Stefano Busà
E' un commento molto profondo ed accurato, che avverte come la fine della civiltà contadina abbia segnato l'inizio delle crisi dell'età contemporanea che affliggono i nostri giorni. Civiltà sorgiva e creativa, avverte Franco Campegiani, non certo semplice nostalgia del tempo che fu.
RispondiEliminaOrigini 'originanti', appunto, alle quali affidarsi con fiducia per iniziare daccapo, in seno alla natura 'materna e intelligente, sempre gravida di messi a non finire'.
Mi viene in mente una bellissima espressione che proprio Franco usò in un'altra occasione: 'gioia e dolore sono uniti, come in un parto gemellare'. Pericolosa è la tendenza del nostro tempo a rifiutare questo dualismo inevitabile, senza il quale la vita stessa non ha senso. Loredana D'Alfonso
È davvero bella, profonda e articolata la recensione di Franco Campegiani all'opera di Nazario Pardini. L’ho apprezzata molto, in modo particolare nel passaggio che pone l’accento sulla visione ciclica dell’esistenza, sulle metamorfosi e le mutazioni. Nel “... volare / sopra la terra bigia, oltre la notte... ”, Pardini appare un idealista attento alla realtà e materializza le parole in poetiche ali. Quasi metropolitano, moderno "Uccello" di Aristofane, pur consapevole della fragilità di ogni utopico anelito, trae dalle identità antropologiche e mitiche il sogno sotteso capace di elevarsi a piacimento in solitarie alture, o quel tanto che basta per non farsi contaminare da un pensiero sempre più ambiguo. E, mentre il mondo indifferente intorno si oscura, il poeta sa cogliere, anche nella tragicità del vivere, la leggerezza dell’altrove, quel volo della celata speranza in grado di approdare, nel caso, “Alla volta di Leucade”.
RispondiEliminaLa presenza assidua e preziosa di Franco Campegiani nel mio blog, fa sì che non mi sia stupito più di tanto nel cogliere, nella sua recensione, quello che chiamerei un plus-valore di senso, in chiave umanistica. Franco è in effetti capace di abbracciare come pochi, con calore e intelligenza, le ragioni di una poetica, letteraria o figurativa che sia. Ma, per venire ai versi di Nazario Pardini, ecco che dobbiamo essere grati a Franco per la sua riflessione storico-filosofica, in virtù della quale possiamo comprendere meglio, più profondamente, le premesse di un discorso poetico, quello di Pardini, che appare di grande limpidezza, con endecasillabi "a pieni polmoni", per così dire. Sulle difficoltà del tempo che ci troviamo a vivere, nulla da aggiungere a quanto ha scritto con acutezza Ninnj Di Stefano Busà; e proprio in conseguenza di ciò, risulta essenziale, a mio avviso, la percezione critica di Franco Campegiani a proposito della poesia di Nazario Pardini; una poesia tutt'altro che passatista; di contro problematica (all'interno della quale il processo di saturazione melodica del verso non deve trarci in inganno; giacché un poeta autentico canta, nonostante tutto).
RispondiEliminaAndrea Mariotti
Franco Campegiani legge "Alla volta di Leucade" - è la mia prima impressione - andando subito al sodo. Mi spiego: il libro (che ho avuto l'immenso piacere di recensire) è tutt'altro che un'opera di facile consultazione anche se, ma solo apparentemente, l'armonico distendersi del dettato potrebbe indurre a farsi trasportare dalle innumerevoli risonanze foniche che tutto fanno, però, fuorché distogliere l'attenzione. Bene: Franco è costantemente vigile e non si lascia sfuggire quello che lui stesso chiama "il grande fascino di questa poesia". La sua interpretazione, intanto, parte con il piede giusto: individua cioè l'origine, la sorgente del fiume pardiniano. E' dalla terra che sgorgano questi versi, da quella madre che nascono queste creature. Poi il riconoscimento sul piano stilistico di una classicità "agli antipodi di ogni retorica"; si, perché la raffinatezza del linguaggio, in questa scrittura, non è mai sinonimo di ampollosità o di tronfia dimostrazione di erudizione, al contrario, è segno di rispetto dei "momenti epifanici ed aurorali del mito" di cui parla Campegiani, che non possono trovare migliore espressione se non nella semplicità e nella spontaneità del comunicare. E c'è un'altra bella intuizione: l'aspetto crepuscolare o, se si vuole, autunnale del sentire che - ancora - non deve ingannare: la memoria, qui, non è banalmente ricordo ma anello di congiunzione; si trova nel mezzo e non alla fine - come, con grande efficacia, Franco lascia capire, anche etimologicamente nel suo scritto.
RispondiEliminaMi congratulo con lui per l'esegesi di cui Nazario non può che aver goduto.
Sandro Angelucci