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giovedì 2 agosto 2012

Nazario Pardini, lettura di tre opere di Anna Magnavacca


Lettura di:
Anna Magnavacca. Spiccioli di latta e altre poesie. Edizioni Guerra. Foligno. 2004. Pp. 136. Euro 7
Anna Magnavacca. Soste. Edizioni Guerra. Foligno. 2009. Pp. 104. Euro 8
Anna Magnavacca. Poesia in forma di lettera. Ibiskos Ulivieri. Empoli. 2010. Pp. 55. Euro 12

E’ affondato nel gelo
il grande vaso di geranio.
Ha bisogno di un piccolo sole
un amore di mani
una briciola di tempo.


Grande sorpresa! Piacevole presenza! Sono stato omaggiato di un gradito dono: tre libri di Anna Magnavacca. Curati, ben rifiniti nelle copertine, nella scelta della carta, nella impaginatura. Già segno di gusto e senso d’armonia. Tutto è importante per un testo di poesia. Tutto concorre a rendere piacevole un’opera letteraria. Anche, e soprattutto, la scelta della casa editrice. Ma veniamo al sodo. Scrivere di Magnavacca è semplice e al contempo complicato. Semplice in quanto la poetessa è nota e fa della sua vita un raggio  del caleidoscopio della poesia. Complicato perché il suo dire è vario, articolato, contaminante per articolazioni fonico-verbali di grande elevatura intellettivo-emotiva, e per iberboli strettamente personali. Ed il suo nome è ben conosciuto negli ambienti letterari per una poesia nuova, per una parola audace e per le intenzioni che vanno oltre la parola stessa. E questi testi ne sono la convalida. Ed è proprio la parola la prima cosa che colpisce della scrittrice; la ricerca puntigliosa, anche se spontanea, del sintagma, degli accostamenti, delle creazioni etimo-foniche, delle dilatazioni verbali che cercano di appagare con impulsi e vibrazioni le richieste dell’anima. La versificazione scorre libera, alternandosi, per accompagnare il ritmo dei battiti cardiaci sempre vòlti ad esternare introspezioni, osservazioni, e realtà mai a se stanti, ma sempre decantate nei meandri del suo sentire. E la sua voce è frutto di un’analisi psicologica puntuale e umanamente oggettiva; anche le descrizioni, tasselli di una costruzione compatta, sono indirizzati a un repêchage sia confidenziale, che  rivolto a persone amate che l’hanno accompagnata e che hanno contribuito a combinare quel patrimonio emotivo che è in lei. Ed i tre testi, seppur partoriti in tempi diversi, quindi contraddistinti da particolarità stilistiche, sono uniti da un dire prosodico comune, da uno stile ben riconoscibile, carta d’identità della poetessa. L’autrice sembra coprire tutti gli spazi: a volte riflessivi, a volte analitici, a volte dialogici, a volte memoriali, a volte realistici ed epistolari: scandaglia gli acini più nascosti del suo sentirsi donna, del suo sentirsi essere umanamente fragile. E cosciente di questo spazio breve traduce il suo messaggio eracliteo in immagini originali e di grande valenza poetica. E la natura non è mai vista come semplice fatto bucolico-idilliaco, ma concorre, disposta e disponibile, a concretizzare in forme e in colori i reconditi voli della poetessa: “Rame fuso / in macchie d’aurora / su colline in agonia. /….// Rintocchi cristallini / levigano la solitudine dello spazio.”. (Mattino d’autunno. Da Spiccioli di latta ed altre poesie). Rame fuso, macchie d’aurora, colline in agonia. Quanto abbandono silenzioso e raccolto in una meditazione esistenziale! E quante vicinanze, quanti accostamenti all’essere e all’esistere in questa delicata poesia tutta racchiusa in un’unica strofa: “La prima foglia. / Stenta, senza vita. / Leggera / si posa sul selciato, / pronta a cadere / nel fosso / al primo soffio di vento.”. ( Autunno. Ibidem).  La poetessa si abbandona a queste emblematiche configurazioni naturali per dire di sé. Tanto che il linguaggio si fa dolcemente figurato ed allegoricamente allusivo. Versi brevi, qui, concisi, quasi a significare la fugacità e l’inconsistenza della vita. Ma i versi, spesso, si ampliano, si fanno ipermetrici, per un animo che ha bisogno di parole quasi inarrivabili per le sue effusioni: “Mi piaceva avere capelli rossi labbra vermiglie / occhi di canto sbavati rimmel,…” un memoriale impietoso nella sua realtà rivissuta. E se all’autrice: “piaceva la luna d’avorio che baciava / prima del sonno i fiori del ciliegio.” “Adesso mi offro da bere latte caldo / metto all’orecchio una conchiglia bruna…” (Donna ieri-oggi. Da Soste). E la parola si amplia, si dilata in questo scandalo delle contraddizioni, in questa sua funzione di traduttrice. Prende per mano la poetessa e l’accompagna in questo suo confronto irrealmente reale, jmpossibilmente possibile.
Il memoriale si fa alcova, amore oblativo, nirvana edenico. Tanti i particolari, le minuzie, le cose importanti, les accidents  che tornano a galla desiderosi di farsi vivi per cantare la loro presenza, o in maniera decisa, o soffusa, ma pur sempre velata di melanconia. Melanconia che, terriccio indispensabile per una buona raccolta, fa da substrato al dipanarsi del dettato poetico.  E la parola si addolcisce, varia, si combina. Si intersecano i verbi in una sintassi plurale ed arrivante; ricorrono a significanti metrici impreziositi di assonanze, metafore, sinestesie, metonimie, enjambements.  E proprio gli enjambements danno ampiezza e spazio al poetare; significano un’anima ricca di esperienze umane che, invigorite dal tempo, si mutano in nuova realtà. Diceva un mio vecchio professore: “Se sventuratamente vi accostate alla poesia, vi sconsiglio di registrare la realtà; prima vivetela, poi immaginatela, e se riaffiora, lavorate e provate a farne poesia". E quanta passione, quanta oggettiva vibrazione umana nella pièce dedicata alla madre. Tipo di argomentazione in cui è facile cadere nell’eccessivo sentimentalismo; ma l’autrice con la sua originalità epistolare smorza i sentimenti e, con forza evocativa e tenuta verbale, controlla l’esplosione del sentire: “Ti scrivo per dirti / che mia madre è morta / nell’odore del caffè della mattina / e della neve. / Così… all’improvviso /…. // Mi sembra di sentire la sua voce / e orme di passi là in cucina. / Mia madre è ancora viva. / Sui rami del melo soffia il vento. / Tornerà pure la rondine e il fuoco dei papaveri.” (Da Poesia in forma di lettera). Quanta forza lirica in questo explicit! quanto può la natura se in sintonia con l’anima che canta!  
            Se Keats nell’ode L’autunno esprime il desiderio di essere nella vita “un uomo” e di tornare un giorno “nelle radici della natura/… / per verdeggiare di nuovo al sommo /dei rami dell’albero della vita” la Nostra sogna di “… partire al chiaro di luna / e mettere il piede sull’orlo azzurro / del cielo”. Su quel cielo che raccoglie le voci dei poeti. E la poetessa guarda a quel cielo, perché ama il colore azzurro della poesia.

Nazario Pardini                                                                 31/07/2012

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