Perché l’arte? Cos’è l’arte? E cosa c’entrano il
tempo e la memoria, con l’arte? Nell'oblìo della visione aurorale del tempo e
nella profanazione operata dal trionfo del pensiero calcolatore, siamo il regno
della quantità e degli orologi . La sequenza cronologica degli istanti, che
muove automaticamente dal passato al futuro e che fa della memoria la
registrazione di tale successione, non esiste. E' un'abitudine consolidata
della mente. Ogni atteggiamento che fraziona il tempo in unità calcolabili e
controllabili secondo ritmi astronomici naufraga necessariamente nell’ologramma
del tempo e della memoria, nell’infinito presente in ogni istante. L’esperienza
di questo naufragio è un Nulla che contiene e nasconde tutti i i mondi
possibili – e il sentiero percorso è la visione-parola che ne crea uno. Questa,
originariamente, è la pòiesis, la
poesia. Creazione di mondi. Forse è qui
il segreto dell’ispirazione artistica: l’istante della visione rivista o
ancora non vista, della parola ricordata o non ancora pronunciata. E con lo
sguardo nell’infinito, con questo Nulla che si materializza davanti agli occhi,
anche la fisica sta per diventare poesia. Che la poesia sia la sola vera
conoscenza? Il tempo è un tessuto vivo, cosciente e creante. E' il ritmo di
trasformazione costante di tutte le cose, di trasmutazione degli stati di
esistenza e di coscienza. Ritmo della creazione nei suoi passaggi evolutivi. La
sacralità del TEMP-us è in relazione etimologica e semantica con il TEMP-lum -
il rito ("re-itus", "ritorno"), celebrato nel segreto del
tempio, è la misteriosa operazione di rimemorazione ("me-mor",
"MEdium MORtis", "tra una morte e l'altra") dell'origine.
La Memoria Totale è la Coscienza Cosmica – e l’essere umano ne è la Via e la
Chiave. C’è un rapporto tra Arte e memoria? Il cervello non distingue ciò che
vede da ciò che ricorda. Esso elabora circa 400 miliardi di informazioni al
secondo ma delle circa 2000 di cui è cosciente riconosce, di solito, solo
quelle riferite al corpo, all’ambiente e al tempo ordinario, quello il cui
rapporto epistemico è orientato solo verso il futuro. Non abbiamo idea della
possibilità di modificare il passato. Che senso ha parlare di “realtà”? E qual
è la “realtà” di riferimento per l’Arte? La fisica quantistica supera ogni
realtà che riteniamo tale. “Soggetto” e “oggetto” non significano più niente;
tutte le realtà possibili coesistono nell’istante ed è l’osservazione che crea
lo stato della realtà – ma il sé che la determina è imperscrutabile,
non-localizzabile. Se non si osserva, vi sono onde di probabilità; se si
osserva, vi sono particelle di esperienza. Ciò che accade “dentro” E’ ciò che
accade “fuori” ma il nostro essere “osservatori”, l’elemento che determina
quanto descritto, non è rilevabile. Qui termina la scienza. La realtà non
esiste. Ciò che è, è misterioso. E il mistero non è il luogo dell’Arte? E il tempo, quello di cui non siamo coscienti
e che non sappiamo vedere, che forse abbiamo solo dimenticato, non è la
dimensione di tale mistero? Divinità che presiede tutto questo è Ianus, che apre e chiude la porta, i
cicli della manifestazione universale in quanto coscienza dell'unicità del
tessuto spaziotemporale in quell'istante ove confluiscono i due sensi del
tempo. Passato e futuro sono due direzioni della medesima realtà, ma noi siamo
abituati a pensare che il passato è stato e il futuro non è ancora. Non è vero. Il passato è qui, ora. Come il
futuro, che è qui, ora. Invisibili perché
obliati. Obliati perché qualcosa ha chiuso gli occhi. E con questo, l’apertura
degli occhi che vedono il non visto, dimenticato o ancora-mai-stato, non siamo
già dentro il mistero dell'Arte? Lasciamo parlare le parole. "Record" è "registrazione"
come memorizzazione; "remember"
è "ricordare" e conduce al "rimembrare",
"riunire membra sparse"; ma "ri-cordare"
è un ritorno al "cuore", come “rammentare”
è il ritorno di qualcosa alla mente cosciente. E questo raccogliersi nel
centro, il riunificarsi dei frammenti della realtà nel "cuore" e
nella consapevolezza, è il mito di Osiride, è il significato più profondo di
una delle parole chiave del pensiero aurorale dell'occidente, "logos". Cosa ci dicono – e
dove ci conducono – queste tracce? Come percorrerle? Ma ascoltiamo l’eco di
questa esperienza profonda in alcune grandi parole poetiche.
Anassimandro
– “..Principio
di tutte le cose è l’àpeiron (infinito,
illimitato, indeterminato) che comprende
in sé tutte le cose e a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove
infatti gli esseri hanno l’origine lì hanno anche la distruzione secondo
necessità…”.
Eraclito – “La
natura delle cose ama nascondersi.. L’armonia nascosta è più possente di quella
visibile..I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure
se percorrerai tutte le strade: così profondo è il LOGOS (raccoglimento
riunificante, espressione) che le
appartiene… All’anima è proprio un LOGOS che accresce sé stesso… Per chi
ascolta non me, ma il LOGOS, sapienza è riconoscere che tutte le cose sono una
sola…”
Parmenide – “.. Perché
una cosa sola sono il pensiero e l’essere..”
Lao-Tzu – “..Prima
della formazione del cielo e della terra c’era qualcosa in stato di fusione.
Tranquilla e immateriale, essa esiste da sola e non muta; essa circola ovunque
senza stancarsi. Si può considerarla come la Madre-di-tutto-sotto-il-cielo. Io
non ne conosco il vero nome, ma la designo con l’appellativo di “Via”.
Sforzandomi per quanto possibile di definirla con un nome, la chiamo “Grande”.
“Grande” significa “procedere”; “procedere” significa “allontanarsi”;
“allontanarsi” significa “tornare”…”
Socrate – “..Conoscere
è ricordare..”
Leopardi – “.. interminati
spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete, io nel
pensier mi fingo.. e mi sovvien l’eterno…”
De Chirico – “..Il
mistero del sonno e della morte è l’unico tema della grande arte..”
Weininger – “..Il
distintivo del genio è la memoria universale.. L’inconscio è il tempo.. La
memoria rende atemporali le esperienze.. Se non esistesse l’atemporale, non ci
sarebbe alcuna intuizione del tempo..”
Il tempo visibile e la coscienza universale
Abbiamo visto come la
memoria riveli la natura psichica del tempo, la sua dimensione bidirezionale e
la possibilità dell’esperienza cosciente della totalità di questa dimensione come
eternità presente. Si è anche ipotizzato che l'esperienza poetica trovi qui,
nel porsi in opera della verità dell'essere nascosta nell'istante di tale
esperienza, la sua dinamica misteriosa. Bisogna lasciar parlare il silenzio
delle opere d'arte senza sovrapporre alcuna lettura. Il potere della Poesia
deve riacquistare il suo ruolo nel momento in cui la scienza termina la sua
storia nel dissolversi dei suoi presupposti. Solo la fine del ciclo ne rivela
il principio. E forse due particolari opere d'arte impongono la propria misura,
la cosiddetta Grande Piramide di Gizah, attribuita a Cheope, e la Sacra Sindone,
attribuita a Gesù di Nazareth, conservata a Torino. Possiamo considerarle opere
d'arte in senso stretto? L'antico Egitto è il punto di partenza della civiltà
occidentale. L'ebraismo e la grecità hanno nella scienza sacra egizia le loro
premesse ma l'origine di questa è una tradizione storicamente non
ricostruibile. L'enigma della Grande Piramide è strettamente connesso alla
conoscenza della natura del tempo e all'esperienza della memoria totale di cui
consisteva il rito dell'iniziazione faraonica. La decifrazione del nome
assegnato alla piramide (il greco “Cheops”
traduce il geroglifico “Khufu” che
non è un nome di persona) nell'unica scritta finora vista nel monumento propone
"Piramide - ritirarsi dello spirito
di Khufu". La struttura
interna
di granito è identica al geroglifico connesso al
simbolismo e al culto di Osiris (l'eternità, il "dio dal cuore
fermo", il "Signore dell'Immortalità"), il cosiddetto
"Zed" . Tutte le antiche tradizioni che si riferiscono a questa torre
presente all'interno della piramide parlano di "antitempo" o
"tempo che scorre alla rovescia" - e qualcuno, recentemente, ha
vissuto in quella che tuttora viene ancora chiamata "sala del re"
esperienze di inversione del tempo. Il misterioso rito iniziatico che
trasmutava il “faraone” (“Luce di Ra”) in un “dio” (radice indoeuropea “di-v” o
“de-v”, “luce”) era il “congiungimento” ad Osiride, signore del Tempo,
dell’Immortalità e dell’Eternità. Una tecnica di rimemorazione profonda, simile
alla regressione che gli psichiatri operano mediante l’ipnosi? Quanto profonda?
Qual è l’estensione della memoria profonda obliata dalla defunzione? E quella
ricerca dell’ispirazione di cui consiste il vissuto dell’artista potrebbe avere
a che fare con questo? Gerusalemme, un venerdì di aprile dell’anno 30 d.C.
circa. Una crocifissione romana chiude la vicenda terrena di Yeshue ben Yosef e
la domenica mattina successiva si verifica la misteriosa scomparsa del suo
corpo. Unica traccia, un’ immagine impressa sul telo che lo avvolgeva.
Un’immagine ancora incomprensibile se non come fenomeno di natura luminosa. Un
evento luminoso, avvenuto nel buio più totale. Possiamo proporcela come opera
d’arte? “ Sangue e luce su tela, cm. 400x100, 30 d.C.” potrebbe esserne la
didascalia. Il sangue è un colore, la luce è la massima ambizione delle arti
plastiche visive. Ma di quale luce stiamo parlando? Quanta e quale luce siamo
in grado di vedere e, quindi, di non vedere? La luce visibile è forse
l’illusione che ci separa da una luce invisibile? E’ il cadavere della vera
luce? E il mistero della luce non è forse il centro d’attrazione della tensione
artistica? Il capitolo 20 del Vangelo di Giovanni (l’arrivo di Pietro e
Giovanni al sepolcro), alla luce delle più recenti acquisizioni dell’esegesi
greca, riserva una straordinaria sorpresa: il telo si affloscia su sé stesso
davanti agli occhi del discepolo che per primo mette la testa dentro il
sepolcro. Il corpo scompare in quell’istante davanti ad un testimone oculare.
Ma che c’entra la memoria? Un esperimento di Carlo Rubbia al CERN di Ginevra dimostrò
che l’incontro-collisione di una particella con la rispettiva antiparticella
genera, nell’istante dell’annichilirsi di entrambe, un fotone. Possiamo
definirli amplesso e orgasmo. La materia che conosciamo muore trasformandosi in
luce. La materia positiva che compone l’intero universo (la stabilità del protone)
è un’insignificante eccedenza di particelle rimaste fuori della continua
collisione con le rispettive antiparticelle. Un’inezia di oscurità che viene a
trovarsi fuori di un incommensurabile oceano di Luce, evento che la fisica
chiama “rottura della simmetria del campo quantistico unificato”. La mistica e
la metafisica chiamano “Nulla” la simmetria perfetta del campo quantistico
unificato e chiamano “creazione” o “caduta” lo squilibrio che dà luogo
all’esistenza della materia stabile. Ma l’universo che risulta da tale evento è
animato da una precisa Legge, oggi diremmo un’Informazione, che la cosmologia
ha formalizzato nelle cosiddette “costanti cosmologiche”, leggi fisiche
universalmente valide. Oggi sappiamo che i buchi neri non distruggono le informazioni
(il pensiero, l’elemento spirituale) perché non sono soggette alle leggi della
fisica. E la memoria è la dimensione di queste informazioni, il luogo della
compresenza del tempo, il luogo dove pensiero ed essere sono sinonimi. Che la
latenza di questa visione sia il segreto dell’istinto poetico? Quel Nulla, la
“Materia increata”, il “Dio prima di Dio”, che è simbolizzato dal puntino della
lettera ebraica “Iod” in quanto concentrazione non-manifesta, viene paragonato
da Gesù al granello di senape – l’entità più piccola cui poteva riferirsi per
cercare di spiegarsi. Egli lo chiama ”Regno
dei Cieli”. Altrove dice che dove andava lui i discepoli non potevano
seguirlo – e la formula “Tornare al
Padre” potrebbe già essere chiara sul senso nascosto di tutta la tensione
mistica. Il mistero dell’increato che sacrifica la sua perfezione in quella
caduta di equilibrio che è la creazione dello spaziotempo e di ciò che
chiamiamo “materia” è la medesima Informazione che OSSERVA (“ob-servare”, “mantenere il controllo”)
dall’interno, come Coscienza Cosmica creatrice , il tessuto temporale dell’universo?
E questo controllo cosciente, progettuale, dell’opera non è simile all’operare
artistico? Non ha dunque l’opera d’arte analogia col processo creativo divino
dell’universo? La rimemorazione come esperienza della continuità extra mortem ,
il “rimembrare” come “riunire ciò che è sparso”, il “ricordare” come accesso
alla dimensione più profonda della psiche, il “rammentare” come visione
cosciente dell’intero processo del Tempo Cosmico nell’Istante, sono la chiave simbolica
di un’esperienza reale che riguarda tutti gli uomini. Nel momento in cui Gesù
compie questo percorso di rimemorazione che lo riporta al “Padre”, che lo
trasmuta in quel plasma increato, la sua materia corporea si dissolve in Luce
primordiale, lasciando come traccia un’informazione tridimensionale sul telo bidimensionale
che la avvolgeva. La presenza di informazioni ultradimensionali in un’immagine
a base dimensionale più bassa è per la scienza un fatto dalle enormi
implicazioni – l’esistenza di dimensioni invisibili e più elevate, o “sottili”.
Una ricerca dove ormai scienza, mistica, filosofia e arte perdono specificità e
confini per fondersi nell’indistinto mare dell’interiorità, quello che nella
Sindone si fa opera d’arte riproponendo il fondamentale tema dell’essere umano
nei termini di una trasmutazione interiore, la liberazione delle energie divine
nell’uomo, la smaterializzazione dell’essere nella Memoria della Luce
Primordiale. E se di questo si tratta, a quali condizioni l’opera d’arte è
Opera d’Arte? O si diventa ciò che si è o si è ciò che si diventa. Compimento
dell’identità o alienazione. Questa alternativa non è già una chiara identificazione
del senso del fare arte?
Per-Em-Ra
(“Uscita verso la Luce”, Libro dei Morti) – “..Io
sono l’oggi, Io sono lo Ieri, Io sono il Domani. Numerose sono le mie
rinascite. Sono lo Spirito Divino e misterioso, eternamente giovane. Il mio nome
è Grande Tenebra. Mi celo e mi manifesto. Muoio e rinasco conformemente al
ritmo del tempo
Testi
delle Piramidi – “ ..Terra, restituisci il bene
che hai nascosto! Srotola, drago, il tuo tappeto! Serpente, torna in dietro
alla luce di Ra!..”
Da “Lamento
di Ipu” – “.. Io so chi ha costruito
nella grande piramide la torre di splendido granito.. Oltre la sepoltura, lui
vive ora da Dio..”
William Blake – “..L’Uomo è l’Arca di Dio –
oppure un fantasma dell’acqua e della terra..”
Corano (24:35) – “..Dio
è luce dei cieli e della terra e la sua luce ricorda una nicchia, in cui è una
lampada, e la lampada è in un cristallo, e il cristallo è come una stella
lucente… Ed è luce su luce…”
Vangelo di Tommaso (34) – “..Lo spirito che si fa carne è la
meraviglia, ma la carne che si fa spirito è la meraviglia delle meraviglie..”
Salmo 110 – “..A
te il principato nel giorno della tua potenza. Tra santi splendori, dal seno
dell’aurora, io ti ho generato..” -
Vangelo di Marco (9:2) e Luca (9:29) – “..Si
trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, sfolgoranti, e
il suo volto brillò come il sole..”
Genesi (15:5) – “..Osserva le stelle.. Tale sarà la tua discendenza..”
Tavole di Smeraldo di Thoth – “..L’uomo è una stella incatenata a un corpo fino alla fine, fino a
quando si libera attraverso la propria lotta. Colui che conosce il principio di
tutte le cose, libera la sua stella dai regni della notte..”
Vangelo di Giovanni (17:4) – “..E ora, Padre, glorificami innanzi a te, con quella gloria che avevo
presso di te prima che il mondo fosse..”
Pistis Sophia (1,2, 2-4) – “..In quel giorno, dunque, era uscita, dalla Luce delle luci,
dall’interno verso l’esterno, una grande forza luminosa, molto splendente, la
cui luce era al di là di ogni misura… Quella forza luminosa scese su Gesù e lo
avvolse interamente..”
Jacob Boehme – “..Lo
spirito di Dio entra come un lampo..”
Vangelo di Matteo (24:27) – “.. Come il fulmine viene da oriente e brilla fino a occidente, così
sarà la venuta del figlio dell’uomo..”
La follia necessaria
Le sue manifestazioni
sfuggono ad ogni modalità della ragione. Irriconoscibile, estranea, il
sottometterla ad un codice clinico ne aliena il segreto. Il suo permanere al di
là del cerchio del lecito e dell'ammissibile mantiene comunque quel fascino
capace di provocare la domanda di fondo sulla natura umana. E' lo stato che
nominiamo con la parola "follia", quella sospensione trascendente
dell’io abituale che nulla ha a che vedere con le malattie mentali o psichiche
- in cui peraltro può risolversi. E sappiamo quanto tale stato espone al suo
rischio coloro che affrontano consapevolmente il limite e lo travalicano –
mistici, poeti. Questo travalicare è il “delirio”. Tutti possono viverlo. Ma
chi è folle? Cosa è folle? La genialità che spesso lo contraddistingue rimanda,
secondo il significato della parola, alla misteriosa nascita di un sentire
dalla misura estranea al contesto socioculturale di appartenenza. Non sappiamo
chi sia, da dove venga e dove vada. Il genio è folle perché travalica la sua
appartenenza mettendone in discussione i parametri, introducendo una differenza
nel tessuto omogeneo delle abitudini. Ma può anche patire la possibile
insostenibilità di tale differenza quando questa resta latente, quando è uno
stato d’animo alieno che non si fa opera e implode nel caos mentale, nella
destrutturazione della logica e del discorso, nella frammentazione della
personalità. Di cosa è segno la possibilità dell’insorgenza di questo fenomeno?
Di quale aspetto profondo dell’essere umano può essere funzione e
manifestazione? E perché quasi sempre esso ha a che fare con le dinamiche
interiori della creatività artistica? Non c’è spazio che non sia interiore. Non
c’è tempo che non sia interiore. Ed è in questa dimensione, che fa dell’uomo la
chiave dell’essere, che la pressione espansiva della manifestazione produce
l’improvvisa rottura di ogni limite, confine, determinazione. La follia è
dunque una necessità? Un porsi in essere improvviso e dirompente dell’alterità?
Una rottura del comune assetto della coscienza perché il profondo possa
manifestarsi fuori di un codice? Forse l’anima dei folli non è folle. Forse la
follia è il momento stesso della verità – per quanto insensata, potrebbe avere
più senso comune e sragionare meno delle persone ragionevoli. E nel momento in
cui l’età della tecnica riduce l’uomo a funzionario dell’apparato artificiale,
relegando nel passato quelle categorie del pensiero con cui egli determinava la
propria identità collocandola nel presente e nella storia (senso, verità,
valore…), forse non sapremo più esattamente cosa ha potuto essere la follia,
che si sarà racchiusa su se stessa non
permettendo più di decifrare le tracce che avrà lasciato. Tra una medicina che
padroneggia la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica, il
controllo farmacologico preciso di tutti i sintomi psichici o un catalogo delle
deviazioni del comportamento capace di prevedere le modalità di
neutralizzazione, tramonterà la viva immagine della ragione in fiamme. Il gioco
di mirarci, nella follia, all’altro termine di noi stessi resterà un rituale i
cui significati saranno stati ridotti in
cenere. Ma forse il rapporto dell’uomo coi suoi fantasmi sopravviverà e
l’oscura appartenenza alla follia sarà la memoria senza età di un male
cancellato come malattia ma irriducibile come dolore. E questi fantasmi, nati
nei recessi ove la ragione non può imporsi, dove solo il sonno e il sogno
possono fare spiraglio, continueranno ad essere, come sono sempre stati, anima
dell’istinto poetico. L’uomo non comincia con la libertà ma con il limite, con
la linea dell’invalicabile. E se la follia si risolve nel sapere psichiatrico o
antropologico ciò non vuol dire che scompaia quell’istinto della trasgressione
cui la follia dava volto – e che tale istinto non sia di nuovo sul punto di dar
luogo a un’esperienza nuova, una nuova poetica, ove la follia riappare non come
scoperta di un significato nascosto, ma come riserva di senso, un vuoto che trattiene e sospende il senso perché
custodisce quella dimensione simbolica che è sempre eccedenza di senso
rispetto ai significati dati. La follia non manifesta né narra la nascita di
un’opera; essa designa la forma vuota da cui proviene quest’opera, ossia il
luogo da cui essa non cessa di essere assente, dove mai la si troverà perché
mai vi si è trovata. Follia e opera sono complementari in un gioco di mutua
esclusione; la follia è assenza d’opera, ma il vuoto di tale assenza è al
contempo la scaturigine dell’opera. Questa è la necessità della follia. E non c’è opera d’arte senza l’esperienza
di tale abisso. Follia e malattia mentale si separano, dunque, in un
parallelismo necessario. La follia, alone lirico della malattia, non cessa di
spegnersi. E lontano dal patologico, dalla parte del linguaggio, proprio dove
esso si ripiega senza ancora dire nulla, sta per nascere un’esperienza nella
quale si decide del nostro pensiero; la sua imminenza, già visibile, ma
assolutamente vuota, non può ancora essere nominata. Non è ancora poesia, ma è
il Nulla della sua possibilità. La memoria è fatta per dimenticare. Non in
virtù del sapere, ma del suo dissolversi. Situarsi in questo vuoto abisso privo
di coordinate e punti d’appoggio è la destinazione necessaria per ogni
gestazione poetica, il principio di ogni creazione, l’inizio dell’essere umano.
La bellezza come mistero della verità dell'essere
Trattando della follia si
è rimasti necessariamente al margine della sua eco. Abbiamo visto e sentito il
mare dall'orlo di un rassicurante pontile, ma ora bisogna rischiare il salto.
L’aurora storica del pensiero ha poetato, ha cioè nominato il senza nome
creando alcune parole fondamentali (la parola “essere” è essa stessa una di
queste); successivamente l’oblio dell’essere, pensato come niente o come se
fosse niente perché solo nell’ente è qualcosa, fonda quel nichilismo che
diviene il tragico ethos nascosto, la volontà di potenza che combatte la morte,
con la cui devastante intuizione (in Nietzsche) si chiude l’epoca della
metafisica occidentale – e questa non è una notazione geografica. Quasi
contemporaneamente, nel percorso delle scienze ci si trova sempre di più di
fronte al dissolversi dei fondamenti stessi della scienza. L’arte stessa pensò
di risolversi in una modalità pseudoscientifica. E’ il chiudersi di un cerchio, la fine di
un’epoca – l’epoca (“epochè”,
“sospensione”) non è che il ritirarsi, la sospensione ciclica del darsi
dell’essere successiva all’istante aurorale in cui nascono parole prime,
simboli archetipi, in cui cioè la mitopoiesi rivela la sua funzione, in cui la
verità dell’essere si pone in opera. Tutto quanto chiamiamo e viviamo come
“arte” ha in questo il suo centro. C’è una situazione dell’interiorità, una
funzione, una dinamica che, però, sfugge per sua natura al destino dell’epoca,
al farsi mute macerie di quell’edificio del linguaggio che è casa dell’uomo.
Nella nostra lingua è chiamata “bellezza” e la riferiamo direttamente
all’esperienza dell’opera d’arte. Il concetto può solo alludere a qualcosa di
misterioso, che ha quasi sempre bisogno di altri termini a corredo – allusioni
ulteriori che, persa la simbolicità nella dimenticanza dell’essere, diventano
illusioni. Cos’è la bellezza? Ciò che ci “piace”? E sappiamo perché ciò che ci
piace ci piace? E’ un ri-conoscere le proprie emozioni, cosa che ci
re-istituisce una rassicurante percezione di stabile identità personale? E’
dunque la stabilità del tutto-sotto-controllo, del niente-cambia, del non
essere messi in discussione da ampliamenti interiori o cambiamenti di codice??
O la potenza affascinante dell’irriducibile, dell’ignoto, del misterioso, che
inquieta proprio perché attrae pur non essendo “piacevole” ma estraneo e,
quindi, delocalizzante, spaesante? Oggi “estetica” è parola il cui uso
esemplifica la deriva decadente dell’immagine nell’impostura del reciproco
proporsi. E’ la convenzione sociale con cui crediamo di risolvere
nell’apparenza (“ad parere”, “remissione
al parere altrui”) l’oblìo dell’essere. La parola “Aisthesis” indica la funzione della sensibilità che è la
percezione, definendo così la dinamica dello spazio interiore. Ma quando la
percezione è percezione di bellezza, cosa sta accadendo? La potenza di tale
e-mozione (“ex-movere”, “spostare
da”), così come il furore creativo, erano indicate da “entusiasmo” (“en-theos”, “il dio dentro”), mentre lo
stato interiore che veniva acceso era la “meraviglia” (“thaumazein”, “miracolo”). Un effetto delocalizzante, spaesante.
Un’improvvisa alterazione dello stato di coscienza, a seguito del quale niente
può essere più lo stesso. Nel prologo della “Genesi”, il racconto della
Creazione, il vissuto di Dio alla fine del settimo giorno è un sentimento di
bellezza. La creazione è opera d’arte e il rapporto con essa è estetico, cioè
interiore. La conoscenza è un sentimento profondo, senza nome, un’adesione
totale antecedente e successiva alla sospensione,
appunto l’epoca, causata dalla caduta nell’io separato. L’ethos della storia,
la volontà di potenza, è la rabbiosa tensione al superamento di Dio mediante il
dominio della creazione. E’ una fondamentale schizofrenia, un’infanzia psichica
segnata da amore-odio per il padre e la conseguente ribellione. E’ il “peccato
originale” di cui fanno memoria le tradizioni religiose, di cui alcuni studiosi
hanno supposto persino una collocazione storica, e di cui alcuni individui intuirono
la realtà malata. Ha forse qui il suo senso la famosa affermazione del principe
Myshkin, nell’”Idiota” di
Dostoevskij, “La bellezza salverà il
mondo”? Lo stesso personaggio dice anche che “..la bellezza è il campo di battaglia in cui Dio e Satana si giocano
il cuore dell’uomo”. A volte può essere ambigua, la bellezza. Può avere un
profilo bifronte. Il mondo classico lo intuisce quando all’armonia apollinea
del bello appaia il volto orgiastico e stravolto del dionisiaco. Il bello può
essere illusione, miraggio e persino inganno, come spesso accade nella fatuità
di corpi levigati e senz’anima, ma anche via di manifestazione del divino. La
solitudine è patologica quando è isolamento, ma è spazio mistico quando è contemplazione
silente.Forse è mediante il sentimento della bellezza che il cuore della follia
ci tocca nel nostro. E’ dunque un espediente, un movente che, pur dando luogo alla
varietà delle teorie estetiche, non ha a che fare con alcuna di esse? E’
l’indifferenziata forza di gravità che attrae verso il centro dove niente può
essere detto, scoperto o sentito, ma che dà luogo ad ogni possibile? Il potere
di un fascino profondo nascosto nei meandri dell’esistente, con il quale la
verità senza volto, senza nome, si rende sensibile? Cos’è la bellezza prima,
dopo e fuori di ogni sua codificazione, di ogni sua de-terminazione? Forse solo
un silenzio radicale, una coraggiosa e folle sospensione, assenza, d’opera, può
riaprire un canale d’ascolto su ciò che, senza nome né immagine, non ha mai
cessato di essere in noi, dentro e intorno. L’indefinito, indeterminato ma
onnicomprensivo, sorto all’alba del nostro tempo nel detto di Anassimandro,
ritorna in Leopardi come fondamento dell’emozione poetica: “L’analisi delle cose è la morte della
bellezza o della grandezza loro, e la
morte della poesia” (“Zibaldone”,1234-6). Sono queste le ultime parole
prima del silenzio.
Vito Lolli
Ampio articolato intervento sul tema dell’arte e della sua funzione: un saggio pluridisciplinare da studiare nelle sue parti, ricco di implicazioni storiche, estetiche, psicologiche, filosofiche…..
RispondiEliminaAnche l’articolazione strutturale è complessa; il tempo e la memoria: invisibile il primo, nonostante l’assillo ossessivo della misurazione, e universale la seconda. La PAROLA, l’ARTE come unico possibile tramite, “sentiero” che dia senso al Possibile e al Nulla..Temi che la filosofia greca aveva dispiegato. Una ricerca dove scienza, mistica, filosofia e arte perdono specificità e confini per fondersi nell’indistinto mare della ricerca, dell’interiorità, e i testi di antica saggezza, citati ampiamente, ne danno testimonianza.
Si approfondiscono i temi del silenzio, della genialità, follia e creazione artistica. Inquietante il tema del silenzio, per sé misterioso, che passa, fil- rouge, nella tradizione egizia ed in quella cristiana segnando l’opera d’arte - analogia col processo creativo divino dell’universo.
L’arte dunque come follia necessaria. “ La genialità …rimanda …alla misteriosa nascita di un sentire dalla misura estranea al contesto socioculturale di appartenenza…. Non sappiamo chi sia, da dove venga e dove vada:… Il genio è folle perché travalica la sua appartenenza mettendone in discussione i parametri, introducendo una differenza nel tessuto omogeneo delle abitudini. Ma può anche patire la possibile insostenibilità di tale differenza quando questa resta latente, quando è uno stato d’animo alieno che non si fa opera e implode nel caos mentale, nella destrutturazione della logica e del discorso, nella frammentazione della personalità.”
E non c’è opera d’arte vera senza l’esperienza di tale abisso. Cos’è mai la bellezza? Sempre di per sé spaesante. “La potenza di tale e-mozione, così come il furore creativo, erano indicate da “entusiasmo” (“en-theos”, “il dio dentro”), mentre lo stato interiore che veniva acceso era la “meraviglia”. Certo: a volte può essere ambigua, la bellezza. Può avere un profilo bifronte. Il mondo classico lo intuisce quando all’armonia apollinea del bello appaia il volto orgiastico e stravolto del dionisiaco. Forse solo un silenzio radicale, una coraggiosa e folle sospensione, ci può immergere nel bello e nell’arte….
Temi davvero complessi: un invito per tutti noi a ripensare, riflettere, non accontentarsi dell’immediata risposta. Prestare attenzione a quel “non so”umile che è madre di ogni vera sapienza.
M.Grazia Ferraris
Sì, M.Grazia. E' proprio il coraggio di abbandonarsi a quel "non so" ad aprire la possibilità feconda del silenzio. Grazie.
EliminaVito Lolli
Questo saggio di Vito Lolli sull'arte si dipana in un lungo, vario e affascinante viaggio tra tempo, memoria, coscienza universale, follia e bellezza come "mistero della verità dell'essere", con una serie di implicazioni spiritualmente vissute, ma a tratti anche intuitive, in quanto manchevoli di passaggi organici che possano aiutare la leggibilità dei vari elementi. Ma, certo, sono intuizioni quasi sempre condivisibili. L'attenzione è sollecitata da alcuni elementi del discorso di Lolli. Prima di tutto il tempo, che individua in più momenti, con ampiezza di dire. E' vero che il tempo non ha oggettività né è un rapporto oggettivo tra i " reali", ma vive sempre nella soggettività dell'io e non esiste neppure come "sequenza cronologica degli istanti", ma solo come coscienza e come conoscenza interiore nella realizzazione e nella evoluzione dei fenomeni. E certo, in tal senso, è elemento anche fondante della creazione poetica. Così come il rapporto tra "Memoria totale" che diventa, anche, "Coscienza cosmica". Molto interessante è anche il passaggio in cui l'autore si pone la domanda di cosa sia la"realtà di riferimento per l'arte, in rapporto ai dati della fisica, e in particolare, della fisica quantistica, che rifiuta i giudizi determinanti (di kantiana memoria), e accetta solo giudizi probabilistici, quando l'indagine conoscitiva è rivolta al microcosmo. Non vi è certezza, poi, della loro validità, se si indaga il macrocosmo. In tale visione del mondo è chiaro che soggetto e oggetto non hanno più lo stesso significato originario. Nel rapporto tra spiritualità e realtà, ritroviamo, indirettamente, reminiscenze schellinghiane sulla filosofia dell'arte che il filosofo tedesco, allontanandosi dal pensiero di Fichte, e più ancora da quello di Hegel, vede come "il compimento di tutto il sistema del sapere filosofico", per la coincidenza di spirito e natura, perché lo spirito diventa visibile nella sostanza naturale, e la natura, mai fissa, coincide alla fine, invisibile con lo spirito. E l'arte diventa la forma più alta della conoscenza. Altro momento interessante e stimolante-e per me coinvolgente- a lungo sviluppato, è la "follia necessaria", forse anche perché anni addietro ho composto, sulla follia, un lungo poemetto. Ma, al di là degli argomenti proposti in questo saggio, si rivela una scrittura complessa e varia, da cui si ricava una lettura molteplice e ricca, che impone giuste riflessione, e profonde, su che cosa siano tempo, memoria, arte, con tutte le implicazioni storiche che gli argomenti posti suggeriscono
RispondiEliminaUmberto Cerio
Grazie, Umberto. Quali sono, se ti è possibile richiamarli qui in sintesi, i vissuti dai quali trae origine il tuo poemetto sulla follia necessaria? Un saluto
EliminaVito Lolli
Molto condivido il pensiero che emerge da queste considerazioni di Vito Lolli. Per esprimerlo - e non certo per esimermi - userò le sue stesse parole, quelle che, mi sembra, racchiudano il senso più intimo del saggio.
RispondiEliminaDa "Il tempo invisibile e la memoria universale":
"Ogni atteggiamento che fraziona il tempo in unità calcolabili e controllabili secondo ritmi astronomici naufraga necessariamente nell’ologramma del tempo e della memoria, nell’infinito presente in ogni istante. L’esperienza di questo naufragio è un Nulla che contiene e nasconde tutti i i mondi possibili – e il sentiero percorso è la visione-parola che ne crea uno. Questa, originariamente, è la pòiesis, la poesia. Creazione di mondi.
Da "Il tempo visibile e la coscienza universale":
"Il mistero dell’increato che sacrifica la sua perfezione in quella caduta di equilibrio che è la creazione dello spaziotempo e di ciò che chiamiamo “materia” è la medesima Informazione che OSSERVA (“ob-servare”, “mantenere il controllo”) dall’interno, come Coscienza Cosmica creatrice , il tessuto temporale dell’universo? E questo controllo cosciente, progettuale, dell’opera non è simile all’operare artistico? Non ha dunque l’opera d’arte analogia col processo creativo divino dell’universo?".
Da "La follia necessaria":
"La follia non manifesta né narra la nascita di un’opera; essa designa la forma vuota da cui proviene quest’opera, ossia il luogo da cui essa non cessa di essere assente, dove mai la si troverà perché mai vi si è trovata. Follia e opera sono complementari in un gioco di mutua esclusione; la follia è assenza d’opera, ma il vuoto di tale assenza è al contempo la scaturigine dell’opera. Questa è la necessità della follia. E non c’è opera d’arte senza l’esperienza di tale abisso.".
Da "La bellezza come mistero della verità dell'essere":
"Cos’è la bellezza prima, dopo e fuori di ogni sua codificazione, di ogni sua de-terminazione? Forse solo un silenzio radicale, una coraggiosa e folle sospensione, assenza, d’opera, può riaprire un canale d’ascolto su ciò che, senza nome né immagine, non ha mai cessato di essere in noi, dentro e intorno.".
Cos'altro aggiungere?
Sandro Angelucci
Niente di veramente particolare, Vito. Discutevo, un lontano venti giugno di una decina di anni fa, con il critico d'arte Antonio Picariello della "filosofia" di Freud e delle ripercussioni delle sue teorie sugli scrittori italiani ed europei: in particolare di Svevo per l'Italia, e della non grande sufficienza dello scrittore triestino, sull'argomento in discussione. Ad un punto della discussione, accentuando il ruolo della "visionarietà" necessaria per un'opera che apparisse intrisa di "follia", Picariello, con un fare tra sornione e provocatorio, mi fa:"Vuoi vedere che tu sei capace di farla?". Accettai silenziosamente quella specie di sfida, persuaso anche da due personaggi del posto che mostravano quei caratteri (una donna morta da tempo e un uomo ancora vivente) e dopo qualche giorno di riflessione iniziai il poemetto. Ne sono venuti fuori circa 650 versi divisi in cinque strofe di varia intitolazione. Ti riporto il titolo e il sottotitolo: una specie di mia didascalia: "FOLLIA. FOLLIA?". Sottotitolo: "Il folle nel suo monologo-delirio atroce, dirà amare ed estreme verità. E mescolerà verità e sogno". Posso confermarti (senza dare i numeri!) che gran parte della nostra discussione e del contenuto del mio poemetto l'ho ritrovata nella parte del tuo saggio (e non solo) da te nominata "la follia necessaria", anche se per me, a ben ricordare, l'aggettivo non era determinante. Tutto qui. Un caro saluto.
RispondiEliminaUmberto Cerio
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Errata corrige: al sesto rigo, dopo "follia" e prima di Picariello, va la virgola.
RispondiEliminaU. Cerio
Conosco Vito Lolli da molti anni e devo dire che, oltre ad essere lo studioso e il pensatore formidabile che qui mostra di essere, egli è un artista di sorprendenti qualità creative. Pittore appartato e fuori da ogni moda, da ogni circuito ufficiale, batte sentieri del tutto inediti e innovativi. In questo saggio straordinario, dove filosofia, mistica, scienza e analisi del linguaggio si fondono in modi stupefacenti tra di loro, egli ci informa sui risultati di una ricerca estetica che nasce e si sviluppa contestualmente al suo lavoro di artista. Il senso profondo del suo discorso va colto nell'esigenza di rintracciare la matrice delle visioni artistiche. Da dove nascono le immagini che si animano nella mente del poeta e dell'artista? Da una Memoria, egli dice, anteriore alla nascita del Tempo, una Memoria dimenticata (e addirittura "fatta per dimenticare") che è una sorta di Eterno Presente o di Coscienza Cosmica: quel Logos che, secondo l'etimo, raccoglie e tiene unite tutte le cose prima della loro caduta nello spaziotempo, ovvero prima del loro smembramento. Da qui l'esigenza del rimembrare, del riunire gli elementi dispersi, che è tipica del fare artistico. Condivido pienamente questo assunto. Da parte mia aggiungo che non è vero che lo sguardo del mitopoieta si distragga nelle variazioni del molteplice, che si perda nella frivolezza del mondo esteriore. Egli, al contrario, ha sguardi tutti puntati sull’unità del molteplice (o, se si preferisce, sulla molteplicità dell’uno). Ciò che gli interessa è di immergersi nel mondo fenomenico per prendere contatto con la radice da cui la vita viene. E’ la cosa in sé a catturare le sue attenzioni: quell’inseità che giustamente Kant ha dichiarato inaccessibile alla ragione umana, ma che è invece alla portata dell'esperienza creativa quando non sia gratuita, ma sappia porsi nel processo della creatività universale. Con buona pace di Kant, sarebbe ora di comprendere che la cosa in sé non può più venire ignorata. Oggi, più che mai, occorre ristabilire un contatto con le profonde radici dell’Essere, dando corpo ad una nuova spinta mitopoietica, di inusitate ed inedite proporzioni. Follia, si chiede Vito? Ben venga, se essa consiste nella "sospensione dell'io abituale". Solo così potremo tentare di uscire dalla palude in cui ci troviamo. Ma Vito aggiunge: "Forse l'anima dei folli non è folle. Forse la follia è il momento stesso della verità. Per quanto insensata, potrebbe avere più senso comune e sragionare meno delle persone ragionevoli". Convengo con lui. Sarebbe ora di ribaltare certi luoghi comuni. Saggezza e buon senso sono qualità dello spirito che abitano ben al di là dei confini razionali.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Certo, Franco. Non può essere mitopoieta chi, per spirito di gratuita astrazione spacciata per "metafisica" (il tempo di questa roba è chiuso), non sa cogliere nelle variazioni del molteplice la presenza costante, enigmatica, del mistero. Solo questa capacità sa scoprire il potere simbolico di ogni cosa, solo questa funzione di rimandare-oltre del simbolo può rigenerare la parola abusata e svuotata facendone, appunto, il Silenzio della mitopoiesi. E i luoghi comuni si dissolvono solo in-ponendo la potenza dei luoghi non comuni, che "..abitano ben al di là dei confini razionali.."
EliminaVito Lolli