giovedì 19 marzo 2015

N.PARDINI "LA MIA LEUCADE"


Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza
La mia Leucade

Nazario Pardini 


Ho sempre in memoria le parole che un poeta semisconosciuto francese mi rivolse alla fiera del libro di Francoforte nel lontano 1997 (Maurice Degas): “Le poète c’est la mer et le fleuve”, il poeta è mare e fiume. Mare, perché vede in quell’orizzonte lontano la possibilità di completare la sua insufficienza. Fiume, in quanto si sente rappresentato in toto da quelle acque che scorrono velocemente verso un’immensità che completa o annulla (contemplazione). Una visione eraclitea della vita e del tempo. In effetti tutti e due si fanno simbologia dell’anima poetica: il senso alfieriano (vedi “La vita”) di una libertà che mai si concretizza in politica, e il cui simbolo più aderente è quel piano azzurro (per Alfieri le ampie distese nordiche di neve) nel quale i Romantici vedevano idealizzate le loro aspirazioni vaghe e indeterminate (vedi le pitture di Delacroix). E Leucade è l’isola che non è, e mai sarà. Rappresenta l’aspirazione dell’uomo, la sua spinta  verso il plurale, la totalità; la sua attrazione naturale verso il Cielo, in quanto essere mortale, imperfetto e miope, con una vista che mai potrà appagare il suo desiderio di vedere lontano. Quindi sta in questa spinta verso l’alto il cuore della Poesia. La ricerca continua del Bello assoluto; ciò che si fa e si sfa in continuazione. Niente c’è di compiuto, niente di perfetto, tanto meno l’idea del Bello che l’uomo-poeta ha: un divenire di contrapposizioni che generano verità relative. E tutto è relativo, ed è proprio ciò a determinare spleen, inquietudine, saudade, nostos. E’ proprio nella sua natura questo miscuglio di terra e cielo. Il fatto sta che il terreno tiene vincolato l’uomo alle sue braccia. Mentre egli dovrebbe ambire alla Natura. A quella pura, incontaminata, specchio del supremo.  Tutto è in fieri, in divenire, e l’Arte in genere è alimentata da questo impulso a superare la realtà cruda, anch’essa imperfetta, e deficitaria, che ci dà la continua conferma della nostra pochezza.  Mi piace definirla – la Poesia- quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile. Sì, all’inarrivabile; e finché avvertiremo questa voglia, questo impulso, questa necessità di elevarsi, esisterà anche il serbatoio della Poesia. Un traguardo quindi inarrivabile anche perché non esiste linguismo sufficiente a concretizzare questi input emotivi che l’anima genera. Questa è soprannaturale, venuta dall’alto e destinata all’alto, il verbo è mortale, una semplice, seppur complessa, creazione umana, e, come tale, imperfetta; mai sufficiente a configurare quegli slanci. Un tempo misi come sottotitolo a Leucade: “Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza”. Poesia è vita; il poeta è un uomo vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente e futuro). E che cosa è la vita se non che la memoria e il sogno. La memoria, dacché essa conserva le cose importanti, quelle che stanno a cuore nel bene o nel male, e degne di restare; la vera vita. Il sogno, perché è là che si rifugia il poeta per ovviare alle sottrazioni del quotidiano. Ed è nel sogno che vede le realizzazioni della sua impotenza. HÖldernin nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/ ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale fratellanza. “… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore,/ dei fatti che accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane (Was bleibt aber stinte die Dichter)”. Trovare la serenità là da dove siamo partiti è forse il sistema migliore per calmare il disagio che incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire. E là è il “giardino curato” di  HÖldernin. Che cosa sia la poesia, poi, è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. Si fanno avanti il sogno, la fantasia, la realtà che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, vita scampata all’oblio e per questo degna di esistere. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica, e chi, laicamente, ad un’isola quale potrebbe essere quella di Leucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio.
E Leucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. Excursus verso un mito futuro rappresentato già da Ulisse che riprende la sua navigazione. Non è soddisfatto di chiudere i suoi giorni nella staticità di un tramonto insulare. Ri-ammaina le vele, impugna la scotta verso la demarcazione delle colonne. Impennata laica in un contesto medievale in cui primeggia la supremazia di un Divino intoccabile e imperscrutabile per chi tenta l’avventura umana.
Ed è qui che si raggiunge dopo il percorso di una realtà settembrinamente idealizzata, e melanconicamente vissuta l’incontro con l’apparizione metaforica delle Eumenidi nella collocazione geografica del fiume paesano trasferito nell’isola di Leucade. Si chiede aiuto perfino a figure più e meno grandi che già si sono imbattute colla visione infernale delle tre donne, o col mito di Venere cipride o citerea. Incontri laici, comunque, sia coll’epicureismo di Lucrezio, sia col panteismo di Virgilio che nel VII dell’Eneide incontra le Erinni, sia con l’Ulisse di Dante, sia con le Grazie del Foscolo che con l’Edipo del Niccolini:


Il ritorno di Ulisse

Qui tutto è sapido. Lo so! I profumi
dell’isola, il ginepro, la lavanda,                             
e tu che ho ritrovato. Ho sempre in mente            
il volo urlato della procellaria.
Mi strappava la carne. Le sirene
misteriose e adescanti e io che immobile
all’albero maestro volli fendere
i nascondigli fitti del sapere,
i più vogliosi. è questa la mia isola.                      
Qui alla sera torna a dilatarsi
l’idea dei meriggi e il lungo andare.
E ancora estendo sguardi in lontananze
sperdute. Mi lasciarono nell’anima
crepata di salsedine le note
che tornano insolute. È sempre aperta                  
la sfida tra l’eterno e me che cerco
con gli occhi indolenziti quella luce
che mi soverchia. Ma stasera il mare
riporta chiare voci di Calipso
e di Circe. E il canto di una vergine
intenta al suo corredo.
Sento ancora la sua candida pelle
su me adusto di sale. Ritornare
era il mio sogno. Eppure condannati
siamo sempre dai gorghi della vita
che le spoglie depongono. Nell’anima   
germinano e si fanno giganti al              
calare. Ognuno tiene di Nausicaa          
chiusa con sé nel fondo una sembianza
mai defilata. Ed ora salta fuori
e porta dietro ogni contorno d’anni
e di stagioni che non solo amore           
significa, ma voglie e nostalgie
che trovano le vie le più nascoste
e avanti a noi si levano. La ciurma
è lì che attende. Ancora salperemo
oltre colonne, questa volta, mitiche
d’impedimento ai sogni. L’ora è giunta.
Se il mio destino vuole che ritorni
ai familiari usi ed ai barlumi
dell’isola agognata, porterò
con me più luminoso il cielo. Se
perire vorrà ch’io debba in mare
straboccante d’immenso sopra i limiti
del mio essere umano, perirà
assieme a me l’eterna primavera
di chi non sentì mai sopita in anima
la voglia del viaggio. Poi tornare
nuovi. O superbi spegnerci per via.

 Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco marmoreo.  Ed è sullo scoglio di Leucade che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del vissuto, che l’amore del tutto, ora  veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto un mondo amato, in cui, secondo me, immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza. Un’isola mitica e magica, irrealmente reale; un’isola a cui tutti i poeti sentono il bisogno di arrivare; e non mi prendete per narciso se vi propongo un pezzo nato proprio dalla voglia di approdare a Leucade:   

                                              
Fuga da settembre

E furono le Eumenidi a portarmi
dove non vi è stagione. Ventilava
zefiro eterno l’isola di Lèucade              
eternamente dolce nel respiro
di lavanda e di timo. “Dallo scoglio”
mi dissero “Ove siedi ad osservare
gli ampi spazi del mare ricamato
da sciami di gabbiani, si gettavano
gli sfortunati umani per disperdere
reminiscenze estreme. Ed anche Venere
restò meravigliata nel sentirsi
serena dopo il volo. Gli infelici
a  Lèucade accorrevano                 
dai più lontani luoghi. Preparavano
con offerte ad Apollo e sacrifici
la loro prova. Ed erano sicuri
coll’aiuto del dio di sopravvivere
all’eccelsa caduta. Proprio qui,
dove tu siedi, stette il piede tenero
dell’infelice Saffo che Faone
abbandonò. Nel cielo di quest’isola,
lucido ed armonioso, riscontrava
solo dolore; andava su altre sponde
dove il mare violento tormentava
gli scogli dissestati per rivivere
il suo triste destino. Dalla cima,
sfiorata dalle mani
della dimenticanza, si gettò
in quest’onde fatali. Ed Artemisia
regina della Caria ed altre ancora
raggiunsero la meta, ma scambiando
la vita con la morte.” “Mi sovviene
il mio settembre tanto logorante
nei palpiti di umana inconsistenza,
nei flebili lamenti di esistenza,
nei pallidi scolori di tristezza
di un borbottio leggero di rumori
quasi alla fine. Ma non so se vale
di più restare immoti nella stasi
di un eterno sereno che provare
il dolce senso del dolore umano.”
“Proprio il poeta, diciamo di Nicostrato,
gettandosi dall’alto della rupe
non lasciò col patire
il respiro di vita. Forse il dio
volle che poesia perpetrasse, dopo il salto,
il suo divino suono. Ci chiediamo
se più grande pacato che in tormento
come da scoglio umano.” Ed io fuggii          
scabro settembre, mese addolorato,       
dal sangue che si sperde in ogni dove
dell’ultimo respiro della vita.
Io ti lasciai e un salto nelle oniriche
acque di Lèucade non mi concesse
morte né oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini feconde rivissute
da un’anima al di sopra delle povere
storie del giorno. E ti rivissi, vita,  
con un sentire lieve e tanto amato
che in ogni fatto lieto o meno lieto,
ma scampato, vidi un superbo dono.







                                              




24 commenti:

  1. Grazie per il superbo dono, per questa dotta dissertazione sulla poesia e sui suoi umili servi, i poeti!
    Ho letto, come sempre, affascinato.
    Franco Vetrano

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  2. Una grandissima pagina, in cui brillano, come punti luce, due diamanti di romanze, che, se Dio vuole, avevo già avuto occasione di gustare.
    Prof. Angelo Bozzi

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    1. Carissimo Prof. Bozzi, non ho il piacere di conoscerla, né quello di essere in possesso dei suoi indirizzi; mi è vicino con i suoi interventi che dànno sostanza e vigoria a Lèucade. E di questo la ringrazio; ne sono estremamente onorato.

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  3. Le parti in prosa sono autentiche dichiarazioni di poetica e da sole bastano a spiegare da quale humus erompa la vigorosa e ampia poesia pardiniana. Le due composizioni in versi, perfuse di policrome note ( e di indomita passione), sono l'exemplum più luminoso e calzante della poetica dell'autore di Arena Metato. Credo che non occorrano altre parole.
    Caro Nazario, sono felice e omorato della tua fraterna amicizia.
    Pasquale Balestriere

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    1. Carissimo Pasquale, tu sai quanto io ti ammiri e quanto io sia innamorato dei tuoi versi. Hai ragione quando scrivi che "non occorrano altre parole", dacché tante sono quelle che ci rivolgiamo nelle nostre lunghe e approfondite dissertazioni telefoniche. Sta là la nostra vicinanza sugli intendimenti dell'Arte e della Poesia. E là la sostanza della nostra ormai annosa e profonda amicizia. Grazie amico fraterno!

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  4. Lefkada, come la chiamano i Greci, si trova poco distante dalla terraferma, tra le più famose Corfù e Cefalonia, esiste, eppure può identificarsi, come dice Lei, carissimo Nazario, con l'isola che non c'é, con il luogo che rappresenta l’aspirazione dell’uomo, la sua attrazione naturale verso il Cielo... E l'esordio é già il cuore anarchico, fibrillante della Poesia. Di questa Poesia, che il Lei trova 'il mare, il fiume' e il tempo per esistere, per divenire, nel senso eracliteo del termine. Una disamina la Sua, che, come sottolinea Pasquale Balestriere, rende l'idea di quale sia Il sostrato di fattori che favoriscono e condizionano l'erompere dei suoi versi. Lei è il 'fiume' che sfocia nel 'mare' e trascina senza posa verso l'inarrivabile...
    Non ho parole degne di tanta Arte. Mi sento contemplatrice indegna, che gode di un simile incanto, sorride, sogna, ricorda e s'inchina.... La stringo forte!
    Maria Rizzi

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    1. Lefkada è vicina e lontana. Hai ragione, carissima Maria. E' vicina fisicamente, ma irraggiungibile spiritualmente. E sta in questa lontananza a cui aspiriamo l'inquietudine del "Fatto di esistere", del fatto di essere umani. Bel commento! Plurale, polivalente, estremamente indicativo della tua sensibilità. Ti abbraccio.

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  5. Grazie, Prof. Pardini, di queste magistrali parole, di questi versi (a me già noti e che non sono i soli) dotati di ali grandi che ci permettono di approdare sugli spazi incommensurabili che ci dona la poesia. E con essa a tenere stretta la bellezza, “l’aspirazione dell’uomo, la sua spinta verso il plurale, la totalità; la sua attrazione naturale verso il Cielo”, per elevare lo spirito affinchè non resti a terra; per esaltare lo splendore dell’essere e la meravigliosa unicità della vita. Grazie, infine, per questo fiume che si mescola con il mare e lo rende significativo, denso, ricco di implicazioni, insomma bello.
    Sonia Giovannetti

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    1. Carissima Sonia, le tue parole sono "schioppettate" che arrivano dritte al cuore: lo spaccano con la loro bellezza. Questa corrispondenza di affetti mi lusinga e mi affascina; "fiume che si mescola con il mare e lo rende significativo, denso, ricco di implicazioni, insomma bello". La scalata verso cime da cui
      si possa vedere solo la bellezza della terra e l'azzardo oltre gli orizzonti che ci limitano, credo siano il nerbo della poesia; l'amore per la vita, per questa sacrosanta esperienza che vale la pena vivere e memorizzare nel bene e nel male.

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  6. Caro Nazario, grazie per lo splendido dono che ci fai del tuo illuminato Pensiero che ci guida alla scoperta della bellezza assoluta di luoghi e personaggi, tanto da suscitare un sentimento di struggimento verso ciò che va oltre l'apparenza ed il presente; un Pensiero poetico che fa da tramite permettendo alla Natura di rivelarsi nella sua Essenza divina più profonda e svelare la miracolosità dell'esistenza. Sempre ammirata.
    Emma Mazzuca

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    1. Carissima Emma, le tue magiche e preziose parole superano alla grande il mio pensiero; riescono ad esprimere in maniera più netta quello che io sento: "Pensiero poetico che fa da tramite permettendo alla Natura di rivelarsi nella sua Essenza divina più profonda e svelare la miracolosità dell'esistenza". Sì, il miracolo della vita! Quello che noi apprezziamo fino nell'intimità più profonda, dacché ne indaghiamo i segreti più reconditi. Una vera scalata che da terra si eleva fino al Cielo. Grazie, carissima, amica in questo viaggio breve e infinito che è la poesia.

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  7. Come sempre la bellezza dei tuoi versi copre interamente l'arco dall'alfa all'omega: la tua poesia si è fatta per immagini e sognanti abbandoni, una lirica della memoria, qualcosa che si contrae e si stende nell'oasi di una illuminante e sempre più pregnante e ammirevole forma. La bellezza e la magistrale lezione sulla poesia sono, poi, davvero encomiabili. Grata, ti leggo e ti apprezzo come poeta e come critico. Auguri sinceri.

    Ninnj Di Stefano Busà

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  8. Carissima Ninnj, compagna di lungo corso, generosa e quanto mai vicina per affinità emotivo-intellettive, ringraziarti è sempre poca cosa: due sole tue parole sarebbero sufficienti a fare di uno scribacchino un grande poeta, tanto è il tuo potere. Ed io ti sono grato di questo encomio, di questo prezioso riconoscimento. L'amicizia è una gran cosa. E spero che non contamini, nel bene, i tuoi importanti apprezzamenti. Ti abbraccio, carissima inseparabile e preziosa amica.

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  9. Stupenda dichiarazione di poetica, impreziosita da due veri e propri gioielli di poesia dove zampilla la fresca vena di un classico della modernità (o viceversa, se vi fa piacere: il risultato non cambia). Sono versi e pensieri di un'assoluta attualità, adattabili all'uomo di ogni tempo. Parlano infatti dell'uomo di sempre, in particolare del poeta di sempre, che è "mare e fiume" nello stesso tempo: traguardo e percorso, moto e stasi, immensità e particolarità. Sta qui, credo, la "visione eraclitea" di cui ci parla il grande Pardini, con evidente riferimento all'armonia dei contrari. Visione, questa, che appartiene al filone più arcaico della grecità, quello che potremmo definire "misterico", culminato nel "conosci te stesso" socratico, radicalmente diverso dal pensiero tragico-razionalistico del successivo umanesimo, dove l'uomo si isola dalla comunione universale per chiudersi dentro i propri angusti orizzonti. I due mitici cantori che impersonano le due differenti visioni del mondo sono Omero ed Orfeo: il primo combattivo ed il secondo perdente; il primo pronto ad arricchirsi di tutte le esperienze, il secondo sfiduciato dal confronto con la realtà. Il primo propugnatore di una fede in se stesso, pronta ad affrontare ogni avversità; il secondo dispensatore di sogni e chimere, di disperate utopie che al primo soffio di vento scompaiono. La Leucade di Orfeo, è esattamente l'"isola che non c'é"; quella odisseica, al contrario, seppure lontana e invisibile, è e continua ad essere un'"isola che c'è". La differenza non è di poco conto. Da un lato la fede che cresce nel dubbio, nelle sconfitte, nelle avversità; dall'altro l'illusione che si sgonfia quando viene punta dall'amarezza, spesso naufragando nel mare della follia. Io credo che l'uomo d'oggi abbia assoluto bisogno di Omero, di quell'umilissima fede in se stesso che, sola, può condurlo fuori dalle sabbie mobili dove è precipitato con la sua decadente civiltà.
    Franco Campegiani

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    1. La tua, carissimo Franco, è una vera parafrasi del mio scritto. Una vera e splendida diagnosi dei miei due canti che spesso propongo ai lettori dacché credo i più vicini al mio modo di pensare. Ti ringrazio della esegesi di perspicace valenza critico-filosofica.

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  10. Carissimo Nazario,
    scusami il ritardo di una settimana sabbatica, ma oggi è terminata, ed ho trovato il tuo ultimo gioiello su di uno scoglio di Lèucade. Mi consola di trovarvi la stessa ansia -tu lo sai bene- che il mondo della "tua Lèucade" è aspirazione di chi, come te, guarda da quell'isola il sole nascere e brillare, illuminare la terra e l'anima, di chi, come te, vede la profondità del mare e dell'anima, con le sue angosce, le sue aspirazioni e le sue necessità di approdo, anche se l'approdo appare sempre lontano, come chi sa di non aver scritto la sua vera ultima poesia. Grazie di questo dono che fa seguito agli altri dei tuoi libri "per rinsaldare l'amicizia", che non è solo una splendida dichiarazione di arte, ma un vero "testamento" (nel senso etimologico del termine latino) di un poeta e di un critico che intinge la sua penna nel suo cuore. Le due poesie che tu proponi qui, sono quelle che più amo della tua Lèucade, ma anche quelle che mi procurano più "lontananza di presenza", perché (scusami la presunzione) vorrei scriverne anch'io di simili e che mai sono riuscito a scrivere. Sono le stesse che già altra volta ho citato e commentato. Tu sai che mi sento anche io l'Ulisse, anche per merito tuo, che però non ha ancora trovato la sua Itaca, e che il viaggio, spero, è ancora lungo, perché anch'io mi sento come "chi non sentì mai sopita in anima / la voglia del viaggio. Poi tornare / nuovi. O superbi spegnerci per via".
    E' questa la vera ansia per la poesia. E' questa la vera poesia.
    Umberto Cerio

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    1. Carissimo amico fraterno, carissimo Umberto, tante volte ho avuto l'occasione di leggere e commentare i tuoi superbi canti permeati di forte Humanitas e di voglia insaziabile di scoperta. Ed è così che i tuoi "eroi" si fanno miti dell'oggi e del domani. Ed è così che tornano a noi rinfrescati e profumati del tuo nobile spirito. E' questo che ci accomuna: la navigazione in un mare tanto vasto che la barca si fa piccola, esile, e fragile se soggetta ai marosi. Superare le tempeste ed andare avanti con la bussola rivolta verso Lèucade è la nostra vittoria. Ti ringrazio di questa diagnosi attenta e sentita del mio scritto.

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  11. Un dono splendido il suo, che emoziona ed in cui trovo molte verità, il fiume che cerca il mare, svela la ricerca dell’uomo e del poeta
    Molte volte mi sono chiesta quale fosse la grande poesia, adesso, avendo avuto l’opportunità di gustare le SUE, devo sinceramente dichiarare quanto ogni mio dubbio sia svanito.
    Grazie infinite, di donarci le sue preziose gemme.
    Serenella Menichetti

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  12. Grazie, Serenella, dei suoi splendidi apprezzamenti.

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  13. Ebbi a dire recensendo un vero e proprio capolavoro qual'è "Alla volta di Leucade" che ciò che immediatamente colpisce - nella ricerca poetica pardiniana - è l'ulissismo: un ulissismo, però, mi sia consentito dire, tutto suo; nel senso che "il viaggio tormentato del poeta" si risolve nell'approdo sull'isola che "non è", eppure è più viva e reale di quanto si possa immaginare. Voglio dire che il mito, in Nazario, è sì costantemente nutrito dalla memoria, ma non si tratta di qualcosa di statico bensì in continuo divenire.
    Desidero, tuttavia, spiegarmi meglio; e, per tentarvi, mi rifarò proprio alla citazione incipitaria dell'articolo, a quanto affermato cioè da quel poeta francese, conosciuto nel '97 a Francoforte: "Le poète c'est la mere et le fleuve". E mi chiedo: perché quest'affermazione si è così profondamente impressa nella memoria del Nostro? La risposta non tarda a raggiungermi: ma perché in quelle parole c'è tutto il mondo poetico di Pardini.
    C'è l'assoluto e il relativo, c'è l'aspirazione all'oltre - l'azzardo dei confini (come lui stesso direbbe) e la consapevolezza di essere un affluente del grande mistero della vita; completamento o annullamento, poco importa: è acqua che si aggiunge all'acqua; dolce e salato che si compenetrano, e, dunque, libertà, libertà autentica.
    L'arte, la poesia, si differenzieranno sempre da qualsiasi altra forma di affrancamento perché soltanto la creatività può avvicinarsi alla Creazione, laicamente o spiritualmente parlando.
    Se si parla di sogno, di memoria non è per perdercisi dentro ma per salvaguardare, "nel bene o nel male...la vera vita".
    Non facciamoci, allora, "ingannare" dal nostos, dallo spleen, dall'inquietudine che, pure, emergono da questi versi leucadiani; soffermiamoci, invece sulle due impareggiabili chiuse delle liriche riportate:

    "Se
    perire vorrà ch’io debba in mare
    straboccante d’immenso sopra i limiti
    del mio essere umano, perirà
    assieme a me l’eterna primavera
    di chi non sentì mai sopita in anima
    la voglia del viaggio. Poi tornare
    nuovi. O superbi spegnerci per via."

    "E ti rivissi, vita,
    con un sentire lieve e tanto amato
    che in ogni fatto lieto o meno lieto,
    ma scampato, vidi un superbo dono."

    Sandro Angelucci

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    1. Grazie, Sandro, del tuo complesso e completo commento. Un'analisi attenta e loquace, penetrante e decisiva, totale e plurale, perché coglie in pieno i motivi ispiratori del mio canto. Come abbiamo avuto occasione di affermare più volte, il critico non tiene per nulla di conto del correlativo di stampo eliotiano, ma vive e ri-vive l'opera, la fa sua e poeta additus poetae, la trasferisce sul foglio rinvigorita del suo pathos, della sua forza creativa. E tu ne sei un esempio eclatante.

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  14. Da quell'isola, di spazi e tempi rovesciati, di vita al contrario, di sogni che non sono miraggi, di silenzi che non sono ambizioni, di passioni che non hanno bisogno di esplodere, di anima che si espande nel corpo, e con esso cammina e va dove non c'è un dove e quando non c'è un quando, senza lasciare un solo perché irrisolto e senza assenza che colmino il lago del rimpianto... da quell'isola, da dove si vede oltre, e oltre, e oltre... si può far ritorno solo portando in sé la consapevolezza che ovunque si vada, prima o poi sentiremo il richiamo di Lèucade, e all'isola torneremo... perché Lèucade non lascia mai solo colui che vi è stato. Grazie Nazario, per questa lettura.
    Claudio Fiorentini

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    1. Grazie, Claudio, per la tua originalità, per la tua anima poetica, per i tuoi voli alti, per le tue espansioni oltre la parola, per i i tuoi ritorni ad un'isola che forse completano, in parte, le sottrazioni del nostro essere umani. Grazie, amico!

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