Claudio Fiorentini collaboratore di Lèucade |
Claudio
Fiorentini
Grido
Nuovo
canzoniere
Si srotolano i pensieri sul volto
E nelle rughe scolano cadendo.
Mai come ora
Vedo quei pensieri
Guardandomi allo specchio e grido
Spiriti del tempo,
Folletti
in gozzoviglio,
Elfi
dementi…
Iniziare
da questa citazione testuale significa andare da subito a fondo nella poetica
di Claudio Fiorentini. Un dire di assoluta novità architettonica per
valenza metrica e cospirazioni intime,
dove il verso, con andare fluttuante e modulato, cerca di farsi geografia
fisica di un animo intimamente graffiato da una irrequietezza esistenziale.
Ricerca, scavo, analisi attenta e perspicace di pensieri che, con stratagemmi
metaforici, si srotolano sul volto e scolano cadendo nelle rughe. Claudio si
sdoppia per leggersi meglio; si vuol vedere come persona estranea, come immagine
allo specchio per ritrarsi con ironia e curiosità, con ardore e intensità
epigrammatica, raffrontandosi con la vita, il tempo, l’amore, la nullità dell’esistere,
e il divenire implacabile dell’essere che non dà punti di riferimento a cui
appigliarsi.
Una silloge
forte e tormentata, dove il Nostro si agita con guizzi formali e scarti
semantici per indagare sul percorso terreno; conoscerne il dubbioso profilo, i
nascosti segreti con tutto ciò che comporta il fatto di esserci. Nostos e
nostoi, latebre da scoprire, saudade da patire. D’altronde c’è in ognuno di noi
mortali questa psicosi del ritorno, del riavvicinamento al luogo che ci vide
nativi, inconsapevolmente; e forse da là arriva l’inquietudine che ci fa umani,
con tutti gli interrogativi che tale vicenda comporta. Un ritorno che non
significa solo casa, paese, città, donna, famiglia, ma piuttosto l’altra parte
di un noi da cui forse siamo partiti e da cui ci siamo gradatamente
allontanati. È una malinconia inspiegabile che ci attanaglia, e che ci spinge verso
un oltre indefinito e indefinibile, a cui difficile è approdare. Un porto senza
faro, che sembra dirci “Costruisciti la tua luce; delinea la tua rotta, se vuoi
giungere a toccare le mie coste”. Ma il mare è immenso, le onde irrequiete e
tormentate come il nostro animo che si sperde facilmente in quell’immensità.
Sì, in quel piano azzurro che ci dà l’idea, anche, di una libertà totale,
plurale; quella che sempre abbiamo sognata e mai trovata; ma, anche, simbolo
del nostro andare come viandanti sperduti in una società liquida. Della nostra
diatriba interiore fra l’essere terreni e il pensare di non esserlo, che non ha
affatto il senso di un escatologico prurito, ma qualcosa che ha a che vedere
con la nostra struttura mentale, con quella del nostro Autore che non accetta
la sua mortalità, passivamente, biologicamente, come facente parte di un
insieme di un processo naturale destinato a finire. O, tutt’al più, destinato a
lasciare qualche seme di una rinascita. Forse il Nostro è in questo che crede.
Nel potere dell’Arte e dei suoi meccanismi foscoliani, dacché è polimorfica
e plurale la sua predisposizione ai
linguaggi più vari; ed è a quelli che mira, ed è con quelli che vorrebbe
tramandare il suo pensiero, il suo messaggio, quella parte di sé che in
definitiva domina sul tutto.
C’era
solo un riflesso, una strana chiamata
come un accenno a qualcosa di più grande
messo di traverso tra l’ora e il poi,
e rivoltato, rigirato, scansato
il nulla
il
vuoto
misero avanzo di mistero che si oppone a
vivere anche ora che è vinto.
C’era solo quello.
Ora, che di luce e buio non resta che
l’accenno,
il tempo si consuma senza lentezza e senza
fretta
fino a scompigliare ogni sua istanza
fino ad annullarsi nella vergogna di
scoprirsi breve
Un
presente, un passato, un futuro che si embricano fortemente nella ricerca
tormentata di un poi; di un sempre; di una ragione per cui vivere ed esistere,
dacché il vuoto, il nulla, o una traccia pur minima, e quantomeno falsa del
vero, sono lì a gridare baldanzosi la loro inesistente esistenza. Resta solo la
faccia inesorabile del tempo, la sua prepotenza dissolutrice, a consumare
lentamente tutto ciò che magari noi abbiamo ritenuto anche indistruttibile. Una
realtà sconquassante su quello specchio
offerente la parte di noi affannosamente cercata; un afflato di sapore
leopardiano, anche se colorato di una modernità a tinte forti:
… È un frutto fecondato dal dolore
La gioia
Nulla può ferirla né offenderla
Essa è già oltre
È un dio assassino che si nutre di sangue
sacrificale
È egoista…
Sì, la
gioia è quella lì! È un dio assassino che si nutre di sangue sacrificale…
Un
tormento interiore tradotto in sigilli verbali di grande effetto narratologico;
di grande portata empatica che si fa terriccio fertile per fioriture di poemi
floreali. Dacché proprio il fiore col suo nascere e sfiorire, con i suo colori
e scolori, con il mistero della sua immutabile mutabilità, ci dà l’idea della
vita; non certo la soluzione del suo mistero; visto che fra realtà e verità il
percorso è talmente arduo da lasciare pochi spiragli; quelli che baceranno
l’Autore, per farlo loro schiavo:
… Sciogliti con esso, oh luce riflessa
Non
farmi credere alla tua menzogna
Io guardo su
Là dove la luce è vera
E pur
se tremola, lontana e persa nell’immensità del buio
Pur se
tarda anni luce di fatica per giungere a me
So che
mi bacia, per farmi suo schiavo.
Un
tentativo di cogliere il perché delle cose e degli ingranaggi in cui siamo
impigliati in questo nostro percorso tanto casuale e problematico. Una luce che
rischiari l’ombra della vita. Si tratta di una verità di portata spirituale, da canzoniere intimo; di
una meta tanto agognata quanto affannosamente cercata: quella dell’altro sé,
che l’autore vuole assolutamente scoprire, dacché è cosciente che quel segmento
completerà il tutto; un congegno di olistica visione, specchio dell’univertso.
… So
che un solo minuto della tua vita mi renderebbe folle
Non
potrei tornare ad essere me
Lo so,
Ma in
che altro modo posso amarti?...
L’amore
stesso fa di questo Canzoniere un’aspirazione ad una fusione completa, ad avere
“un tuo minuto, per viverlo come lo vivi tu, e capirti”. Il solo modo per
amare. Il sentimento dei sentimenti assume una tale potenza connotativa, una
tale coscienza emotiva da trascendere il potere umano e farsi ipotetica follia
in un gioco di sottrazioni e
spersonalizzazioni. In un gioco di donazioni e privazioni. Uno spartito di allusioni
iperboliche preste a donare ritmi di valente poesia. Una traversata onirica, una
cavalcata in un mondo surreale, dove il Poeta aspira a completarsi con compensazioni
a mancanze quotidiane, reali, troppo umane:
In
quel momento così astratto, così imprendibile, così fragile
L’uomo
si avvicina a Dio, il suo Dio
Che
vigile sorveglia
E che
perdona.
Il
solo modo, anche, di raggiungere il culmine dell’estasi. La fusione dello
spirito col cielo, con quel Dio che ognuno porta dentro di sé, alla sua
maniera; ma pur sempre una scalata a una cima astratta, fragile e imprendibile.
Illusoria, direi, e futile come la vita. Come questo nostro esistere fatto di
andate e ritorni che ci ingannano con apparenze che, fagocitate da un tempo
incomprensibilmente fugace, passano e ci dimenticano. E allora mutiamo in
pietre questo magma che ci tormenta e che ci tiene vivi; in pietre secche, o
levigate, sole o stratificate, basta che si facciano corpo solido e variegato
come le parole di questi canti:
Quest’esplosione
è in fondo la poesia?
Se
adesso le parole sono pietre
Cos’eran
prima, magma borbottante?,
in un
grido alla Munch per gareggiare con una clessidra destinata a vincere:
…
Grido sarà per esser dimensione
E per
tracciare il senso
Di
questa vita mia
Che
piano passa…,
con
parole che il Poeta scolpisce, e alle quali affida tutto sé stesso, perché è in
loro che crede, ed è con loro che spera di non morire:
Non
per soffrire, non per morire
Per
vivere
Eccomi qui
Nazario Pardini
DA “Grido”
Si srotolano i pensieri sul
volto
E nelle rughe scolano cadendo.
Mai come ora
Vedo quei pensieri
Guardandomi allo specchio e
grido
Spiriti
del tempo,
Folletti
in gozzoviglio,
Elfi
dementi
Innanzi
a voi io giuro
Non
un solo soffio
Non
un solo dubbio
Cederò
della mia vita ad altri
Giuro
di portare in me questa mia pena
Intera tutta
Per
trasformarla in gioia
Giuro
di far del sogno
Una
missione
Giuro e rigiuro: vivrò fino
alla fine
Senza che un solo attimo si
sprechi!
Fino alla fine in me, con me, di
me,
Così come son fatto
Cercando l’altro Me, finché
con lui
Ritornerò completo, e sarò
Uomo!
C’era
solo un riflesso, una strana chiamata
come un accenno a qualcosa di
più grande
messo di traverso tra l’ora e
il poi,
e rivoltato, rigirato,
scansato
il nulla
il vuoto
misero avanzo di mistero che
si oppone a vivere anche ora che è vinto.
C’era solo quello.
Ora, che di luce e buio non
resta che l’accenno,
il tempo si consuma senza
lentezza e senza fretta
fino a scompigliare ogni sua
istanza
fino ad annullarsi nella
vergogna di scoprirsi breve.
Io l’osservo da fuori, ma è
dentro che succede
Dentro mi vive e mi percuote
Dentro mi ama e mi disama
Fuori
c’è solo distanza
E quel riflesso, avanzo di
mistero
Mi appare controvoglia
Sapendosi specchio di
qualcos’altro.
Come un manto che si slega dal
tuo fiato
Trasformato in vento polline e
luce
E vola fecondo fino ad essere
niente,
Così il dolore scioglie
legacci
Per accendersi nel suo frutto:
si chiama gioia
e non conosce parole.
È un frutto fecondato dal
dolore
La gioia
Nulla può ferirla né
offenderla
Essa è già oltre
È un dio assassino che si
nutre di sangue sacrificale
È egoista
Non si cura di chi o cosa le
ha dato nutrimento
Nuda, nel suo bozzolo che la
protegge,
si mostra solo al ramo che la
sostiene
e quando infine la metamorfosi
è compiuta
dispiega colorate ali e
accarezza il soffio che l’accompagna
e più nulla può ostacolarla.
Gioia,
se vera, anche nell’abisso
vive
e dovunque vada lascia il suo
seme.
Insieme
al buio le distratte luci
Sospinte da un vento dissolto
Senza una logica, si spargono
tutte
Per diventare stelle.
Al guardarle l’animo brucia
Riflesso inconscio del loro
fuoco
E si spegne anche
l’intendimento
Per mormorare all’anima
Che l’ultimo riflesso
È solo l’ultimo volto di uno
specchio.
Sciogliti con esso, oh luce
riflessa
Non farmi credere alla tua
menzogna
Io guardo su
Là dove la luce è vera
E pur se tremola, lontana e
persa nell’immensità del buio
Pur se tarda anni luce di
fatica per giungere a me
So che mi bacia, per farmi suo
schiavo.
Vorrei
avere un tuo minuto
Tuo, non mio
Per viverlo come lo vivi tu
E capirti.
Un solo minuto per essere te,
non me
Per entrare nel tuo corpo,
nella tua mente, nel tuo spirito
Vedere la tua anima,
E poi spaventarmi e tornare in
me
Perché solo in me posso
vivere.
So che un solo minuto della
tua vita mi renderebbe folle
Non potrei tornare ad essere
me
Lo so,
Ma in che altro modo posso
amarti?
Io resto io, tu resti tu,
Non conosco il tuo mondo,
Lo immagino riflesso del mio
Ma è altro.
E un tuo minuto val bene una
vita di pazzia,
Se vivendolo saprò cosa ho
saputo darti.
Quando
la luce finirà
noi non saremo ciechi
all’abbaglio
di quel terrore
e solo potremo credere
allora come non mai in quel
laccio di fede
nascosta e limpida
come da notti e giorni
e tempi andati
e vibratili fibre che ci
impediscono
ora come sempre
di volare
Quando la luce finirà
e d’improvviso un altro
degrado
sarà lì a convincerci che la
follia
forse non era tale
e che il tempo non è bastato a
farci capire
che matti si è savi e savi si
è stolti
Ci ritroveremo allora
per un attimo
eterno, vero, solido
... a pentirci
Nella notte, quando il soffio
della preghiera si addolcisce
Ed anche il silenzio si
appresta a tacere
Il mio respiro si fa gesto e
traduce ansie nascoste
Poi la coscienza ormai
rilassata abbandona la realtà
Per farsi sogno,
Altra coscienza che di giorno
dorme.
Solo allora si aggrovigliano
pensieri e paure
In tormentate lotte.
È l’anima che a luce spenta si
libera dal pegno
Pagato da ogni uomo
In quel momento così astratto,
così imprendibile, così fragile
L’uomo si avvicina a Dio, il
suo Dio
Che vigile sorveglia
E che perdona.
Cos’è il sogno se non abbandono
Cos’è
il tempo se non illusione
Tratti
bruciati esprimono le note
pudiche
e possenti
Per
ridestarsi dimentichi di dimensione
Già
morte di fuggevole istante....
Morte?
Talvolta
feconda e insonne
Tende
il suo graffio sorridente
lacerando
il passo
per
dormire....
1993
Non per violenza né per gioco
L’eterno
alternarsi delle parti
Unite e in
armonia si scioglie nell’unico momento
Vissuto in due
Unione di
contrari su terre feconde
Fiume che
esplode in una grotta per dar luce e vita
Questo si chiede
allo stare insieme
Non per violenza
né per gioco
Ma per amore
Vissuto in due
Unione di carni
e di passione
Che simile a
preghiere ti avvicina a Dio
(...)
Con grande sorpresa leggo questo post e ringrazio Nazario Pardini per l'onore che mi riserva. Sarò grato a tutti quelli che vorranno commentare.
RispondiEliminaDimentico spesso di firmare. Rimedio subito: Claudio Fiorentini
EliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaBravo, Claudio, mente pensante in un cuore pulsante! Ho letto con interesse e attenzione la nota critica del Prof. Pardini che coglie l'essenza del tuo vivere e scava nella profondità del tuo pensiero. Ancora una volta mi sorprendo emozionato a leggere i tuoi versi, e di ciò ti ringrazio. Vola sempre più in alto, spinto dalle termiche del tuo essere.
RispondiEliminaFranco Vetrano