Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
"L'uomo che ascoltava le 500", di F.
Paolo Tanzj
(Foyer del Teatro Porta Portese - 11-03-2015)
Una miscellanea di
tredici racconti dal soggetto assai vario, con l'appendice di un'invettiva e
l'aggiunta di una dichiarazione di poetica: in questo consiste il lavoro che
Francesco Paolo Tanzj ci offre in L'uomo
che ascoltava le 500, edito da Tracce
di Pescara. Sono racconti quasi tutti autobiografici, ma che, anche laddove
scritti in terza persona, in qualche modo riguardano l'autore, coinvolto come
conoscente dei protagonisti; oppure come accusatore (è il caso dell'invettiva).
Il coinvolgimento diretto dell'autore nelle vicende narrate contribuisce a rafforzare
il senso realistico della scrittura, per cui ci troviamo di fronte ad un
realismo autobiografico di valenze tutt'altro che intimistiche.
Tanzj racconta
esperienze di vita vissuta. I suoi orizzonti sono pubblici, ma nel pubblico egli
parla di sé, del proprio universo interiore, delle proprie utopie, della
propria visionarietà. Stabili, nel fondo, troviamo gli ideali libertari e
cosmopoliti, mai rinnegati, della Beat
generation, ma indubbiamente molta acqua è passata sotto i ponti e l'autore
ha dovuto fare i conti con la realtà, con una sconfitta degli ideali che
tuttavia è solo apparente. Perché dico questo? perché la realtà non è mai schematica,
non a senso unico, ma è sempre complessa e articolata. E' onnicomprensiva, in
essa c'è spazio per tutto ed ogni elemento gioca un ruolo indispensabile, seppure
impalpabile e sottile, come possono essere il sogno e l'utopia. Anche questi
fanno parte della realtà.
Un realismo, pertanto,
che cozza con quanti pensano di poter circoscrivere la realtà in una formula,
come accade ai folli e boriosi detrattori del mistero. Un realismo che si
lascia attraversare dal mistero. La realtà è un campo sterminato di contrasti,
di contraddizioni, dove tutto è in movimento e dove ciò che oggi sembra
scomparso magari riapparirà domani, perché di tutto si alimenta e di tutto ha
bisogno la vita. La constatazione del fallimento, per quanto amara e pungente,
non fa deporre le armi allo scrittore, come non le fa deporre a qualsiasi vero
combattente che, a dispetto dello sconforto, abbia fede in se stesso e nel
proprio ruolo.
Fin dal primo
racconto, quello del vecchietto che ascolta
le 500 alla stregua di uno sciamano, superando in diagnosi, in qualità di
meccanico, le più moderne attrezzature elettroniche (assurdo personaggio che
"gira su una carrozzina elettrica", scomparendo e ricomparendo
all'improvviso "seduto su un apetto"), fin dal primo racconto,
dicevo, si viene travolti dalla verve,
dal brio, dall'ironia, ma soprattutto dall'umanità di una scrittura veristica e
paradossale allo stesso tempo. Nel secondo racconto, poi, Passata è la tempesta, il mistero non è più umoristico, ma si fa inquietante.
Bruno, personaggio sfuggente e incomprensibile, che sembra un extraterrestre
per i discorsi che fa, fuori dell'usuale, all'improvviso scompare (forse muore,
forse no) in circostanze inspiegabili.
Egli un giorno aveva
chiesto all'autore, spiazzandolo: "Sei proprio sicuro che le cose che vedi
qui intorno siano reali e non una specie di film che proviene dai neuroni di
qualche parte del tuo cervello?". Che cos'è allora la realtà? Dove va a
finire l'assioma hegeliano, secondo cui ciò
che è reale è razionale? Forse Bruno vaneggia, ma Hegel non è da meno,
perché il buon senso dice che non c'è nulla di più irrazionale della realtà. Basta
con la retorica, le cose appaiono e scompaiono misteriosamente. Tutto dal
mistero viene e tutto il mistero ingoia. Il Nulla e il Tutto sono l'uno
nell'altro. Prendiamo il popolo dei Sanniti, ad esempio. Unico, dice Tanzj,
"che avesse seriamente conteso ai Romani (per tre secoli) il dominio sulla
penisola". Scomparso. Certo, così sembra, ma quanto di esso è rimasto nelle
successive generazioni, nell'anima e nelle cellule della romanità?
La realtà non è mai nuda
e cruda. Sempre i confini di essa si confondono con l'irreale, con il sogno.
Non si può partecipare alla vita se in qualche modo non si riesce ad
estraniarsi dalla vita. Questo pensiero mi sembra costante nella visione del
mondo che Francesco Paolo propina. Immergersi nell'Erlebnis, nel flusso della vita, sarebbe impossibile se si dovesse rinunciare
a se stessi, se non si potesse coltivare se stessi ponendo fra parentesi la
vita stessa. Sarebbe un lasciarsi vivere e non un vivere realmente. Tutto è paradossale.
Per poter essere presenti alla vita, occorre sognare, occorre estraniarsi
attraverso il sogno dalla vita stessa.
Ciò affiora magistralmente
nel racconto intitolato Sonno. Qui si
descrive quella "via di mezzo, scivolosa e ondeggiante, quasi una vita
intermedia, sospesa vagamente tra sogno e realtà", in cui viene a trovarsi
una sera Giancarlo, il protagonista, prima di addormentarsi. Ne scaturisce una
sorta di autoanalisi, dove egli si accorge delle proprie mancanze e si
ripromette di "essere presente, essere me stesso, essere attivo". Vi
prego di notare la compresenza dell'essere se stessi e dell'essere attivi: più
si è presenti a se stessi e più si è vivi nel mondo.
Ed ecco Il museo della pietra fantastica, dove
l'autore racconta un fatto realmente accaduto. Un pastore, a un certo punto
della sua vita, scopre, come lui stesso dice, che "le pietre sono
vive", così si abbandona ad uno straripante estro scultoreo che lo porta a
creare un vero e proprio museo di pietra all'aperto, intorno alla propria
abitazione. La vita è sorprendente, imprevedibile, e noi non siamo altro che
esseri mossi dal vento. Tanto più liberi quanto più dipendenti dal vento che ci
sovrasta e ci impone le proprie rotte, le proprie direzioni.
C'è poi Villa Démidoff, un racconto dominato
dalla figura di Aurora: una di quelle "persone di genio, scrive l'autore,
che non si stancano mai di essere se stesse e rotolano ingenuamente ma con lo
spirito in alto in questo mondo pieno di stanche mediocrità". Anche qui
tutto è dominato dal fato: un vecchio rintracciato nel bosco viene salvato
chissà come dai protagonisti della vicenda, lì condotti da un cane incontrato
per caso. Si direbbe che il nostro autore nutra una sorta di laica fiducia nel
mistero. Egli non sa se dare ragione ad Alberto, che in un altro racconto, Cagliari, sostiene: "Io ritengo che
il caso sia invece qualcosa di
prestabilito dall'inizio del mondo per tutti noi, altrimenti non mi saprei
spiegare come tutte le vicissitudini che la vita mi (ci) ha dato sono tutte
servite a qualcosa".
Nella conclusione di
questo racconto, tuttavia, l'autore sembra condividere l'idea di un fato
provvidenziale e intelligente che governa la vita. "E' come se tutto
appartenesse a un eterno presente", conclude. E non è una prospettiva
religiosa. Tanzj è un laico e tale vuole restare, ma il mistero in cui crede è
senza dubbio salvifico e dispensatore d'amore. Ci sono momenti in cui lo
sconforto prende in lui il sopravvento e sembra farsi totale. Sono i momenti in
cui egli osserva il crollo dell'ideologia, dei valori ideali; momenti in cui si
sente tradito: "Cerco amici camminando per le strade del paese, e trovo il
nulla, il vuoto, l'angoscia. La rabbia per essere circondato da gente insulsa,
che non sa niente e proprio per questo campa egregiamente".
E poi: "L'aria
qui è sempre più irrespirabile, è un mondo marcio che non sa più rispondere assolutamente alla nostra ansia di
verità e armonia e giustizia. E la letteratura è ormai affogata nel marketing e negli affari di bassa lega.
Non c'è spazio per le menti pulite". In questo racconto, Passaggio ad Arnara, e ancor più in
quello successivo, Il destino delle idee,
ma soprattutto nell'invettiva verso Nanni Moretti (un piccolo borghese spacciato
per uomo di sinistra, a suo dire), prende
corpo la delusione amarissima per la fine di tutte le utopie.
Ma qui, prima di
concludere, vorrei concedermi il lusso di una riflessione personale. Purtroppo
non basta porsi sotto una bandiera, non è sufficiente aderire a un partito.
Bisogna vedere com'è l'uomo che si pone sotto la bandiera o che aderisce al
partito. Il problema dei problemi è lui, l'uomo, è sempre l'uomo. Sono gli
individui umani. Le idee sono tutte buone e belle, ma sono astratte, perché in
concreto le realizzano, o non le realizzano, soltanto gli esseri umani. I veri
ideali, allora, non sono collettivi, ma sono fedi individuali. Lasciamo stare i
proclami ideologici: sono un bla bla destinato
a venire tradito. La fede personale no. Per quanto attraversata da dubbi, e
anzi proprio per questo, essa è intramontabile e solo essa raggiunge risultati
concreti, seppure circoscritti al piccolo raggio d'azione quotidiano.
E' così che qualcosa
può realmente cambiare. Sarà poco, ma sarà certo, e Francesco Paolo questo lo
sa. Non ho dubbi, perché la sua visione del mondo è antischematica, ribelle
verso tutto ciò che rischia di cristallizzare la vita. Per questo egli riesce a
sfuggire all'ombra minacciosa e demoniaca del pessimismo totale, fornendoci un
affresco di varia umanità dove è l'amore alla fine a dominare. L'amore che vola
e che fa volare.
Tanti racconti vanno
in questa direzione, come Milka è tornata,
legato alla scoperta di un campo di concentramento per zingari, durante il
periodo bellico, nei pressi di Agnone. O come La zuppa di Elia, dove si parla di un felice incontro tra cultura
popolare e cultura elitaria su basi di forte genialità e creatività singolari, lontane
dalla cultura di massa dei tempi attuali. O come La campana sotto la neve, costruito intorno alla figura di Padre
Pietro, U matte: un cappuccino simpaticissimo, che dopo essere stato in Africa,
decide di andare eremita fra i monti, nell'intento di ricavare da un vecchio
rudere una chiesa.
E che dire poi della
chicca posta al termine del libro, intitolata Una dichiarazione di scrittura? Qui veramente emerge la vocazione
vitalistica dello scrittore. Cito tra virgolette: "Ho sempre provato
fastidio - non me ne vogliano i miei tanto amati critici - per le analisi
testuali, i riferimenti storico-culturali, la ricerca delle parafrasi o degli
ossimori, o figure retoriche di ogni genere o fattura. Tutti contorcimenti
asettici e tecnografici che non facevano altro - a mio avviso - che distruggere
l'intrinseca bellezza dei versi o delle migliori pagine di scrittura".
Ed ecco ancora un
paio di citazioni, prima di concludere: "Non si è poeti se non si è
individui, ma non si produce poesia se non si va oltre se stessi, nel campo
oscuro di un inconscio collettivo che ci conduce ai fondamenti
dell'esistere". E infine: "Credo in una scrittura viva, fatta delle
ansie e degli entusiasmi di tutti i giorni: non amo i minimalismi e gli
sperimentalismi accademici: voglio lasciarmi travolgere dalle cose e
interpretarle con la gioia e il dolore, con l'amore, con l'accettazione del
bene e del male. E incontrare le persone e i pensieri, accorgendomi di tutto
quello che mi sta intorno". Concludo dicendo che questo è un libro che
deve essere letto, perché, nel disfacimento dei nostri giorni, è un'iniezione
di fiducia tutt'altro che ingenua nell'amore e nella vita.
Franco Campegiani
Conosco da anni Francesco Paolo Tanzi e ho avuto modo di apprezzare la sua professionalità di docente e la sua profonda umanità. Di lui scrittore ho letto altro, in prosa ed in poesia,e devo dire che questa sua raccolta di racconti, magistralmente commentati da Franco Campegiani, rappresenta non solo una continuazione del suo pensiero e della sua arte, ma ne realizzano anche una "logica" evoluzione. Spero di incontrarlo un giorno, per discutere ancora con lui, visto che è saltato l'incontro (che speravo) a Roma in occasione della presentazione de "Il cielo incompiuto" di D. Ferrante. Del resto il nostro Molise (il suo di adozione antica) è piccolo e Larino e Agnone non sono poi così lontane. Mi fa sempre piacere la sua "presenza". Complimenti a Francesco Paolo Tanzi e a Franco Campegiani.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Carissimo Umberto, condivido pienamente con te, dopo averlo vissuto in prima persona, l'entusiasmo per la disamina del nostro Franco di quest'Opera del carissimo Francesco Paolo Tanzj. Condivido, allo stesso modo, il parere sul nostro ospite, di spessore altissimo e di altrettanto grande umiltà.
RispondiEliminaTornerà a trovarci quasi sicuramente il 12 aprile, in occasione della proiezione del film di Pio Ciuffarella "L'operaio dei sogni" all'Enoteca di Via Quattro Fontane. Egli gradirebbe arricchire la serata con contributi su Pasolini...
Inutile dirti che riceverlo é gioia pura, così come sarebbe grande emozione ricevere te!
Maria Rizzi
E Francesco Paolo ci ha inviato questo link per ricordare la bellissima serata trascorsa insieme:
RispondiEliminahttp://www.francescopaolotanzj.it/news.htm
Ringraziamo lui, il grande Stefano, cantautore ispirato a Rodari, il fotografo Giorgio Rossi e, ovviamente, tutto il gruppo IPLAC!
Maria Rizzi