sabato 2 luglio 2022

FRANCESCO CASUSCELLI: "LA POETICA DI NAZARIO PARDINI"

 

Nazario Pardini e il mistero della parola

di Francesco Casuscelli

LA MIA ISOLA

 

Dopo un lungo viaggio è là che io vivo

la tanto sospirata verità.

Spiagge lucenti,

dune di mirti, cisti e di ginepri,

carezzati da mani trasparenti,

foci di fiumi puri e cristallini

dove si aggirano uomini cólti

di nudità di spirito con donne

amanti dell’amore.  E sguardi e amplessi,

e gioia di coloro che giunsero alla meta.

Lì, accompagnano orizzonti diamantini

le melodie più belle del creato:

di Beethoven, Vivaldi, di Bellini,

di Mozart, Rossini, di Mascagni,

di Verdi… voglio dire; e di Puccini

il coro a bocca chiusa sopra l’acque

di un lago che lo vide meditare.

Ho respirato qui la verità

che hanno cercato sempre i pensatori

nei secoli dei secoli. In terra,

da mire contagiata di ricchezze,

da materialità senza confini,

da impulsi di potere senza freni,

si è sempre prolungata in vesti nuove

per allungare il tiro e allontanarsi

da realtà corrotte. Su quest’isola

le campagne rigurgitano fiori,

si estendono infinite assieme al cielo;

i voli non sanno della morte,         

nemmeno la conoscono gli umani:

è sorella la morte; e dal bello

trae la sua linfa, prende nutrimento,

e nel bello finisce e si confonde.

Io sono qui. E a sera

sento il richiamo della mia certezza,

fuggo col cuore zeppo di quell’aria,

coll’anima immortale dei suoi venti,

coll’alito lucente del suo sole.

È questa la mia isola. Lontana

dai rumori di terra, dai frastuoni

che inondano le strade, dagli odori

che marciscono dentro, si rannicchia

in mezzo a un mare vasto che protegge

i suoi confini. Come ci arrivai?

Sopra una barca effimera e precaria

contro venti nemici che la spinsero

su scogli crudi e aguzzi. Mi aggrappai

ad un asse scampato al naufragio:

una tavola rósa dai salmastri.

Mi fu amico l’urlo tramontano  

che la volle alle sponde verdeggianti

dell’isola del vero. Là trovai

da subito una quiete, libero dai tramagli

del mio lungo viaggio. Donavano i sentieri

il loro corso a intrichi rigogliosi

che mai vide interessi industriali.

Spiagge silenti e gravide di pesci

per morte naturale. E corsi d’acqua,

lussureggianti cime, cieli zeppi

di ali svolazzanti; solo suoni

di canti di ruscelli e onde di mare.

È questa la mia isola. Da là torno

per incontrare il figlio, la mia donna,

per sbrigare le solite incombenze…

Ma la sera, quando il sole riporta

colori e ricordanze, prendo il mare,

mi affido ad un delfino,

e via verso le spiagge solitarie

della mia verità. Melanconia,

sentimento, passione, memoriale,

natura fresca d’immagini procaci

mi fanno compagnia. Mi si ammucchiano

in un capanno al suono del silenzio,

fra i tremiti dei giunchi: là riposo

assieme ai miei pensieri, meditando

sulle vicende umane e sugli umani

che razzolano a terra. E non capisco,

da questo mio capanno, il loro fare,

il loro incespicare sulle pietre

che aguzzano i sentieri della vita.

 

L’ARATRO

 

Non gli è rimasto che il vomere. I legni,

rosicchiati dai topi e dalle tarme,

sono ormai consumati. È lì che adocchia

lo spiraglio di luce nella stalla

con la speranza che il vecchio padrone

lo tolga da quell’angolo nascosto;

gli rifaccia le membra e lo riporti

alla vita dei campi: “Che profumi

respiravo quando la mia lama

solcava la terra a primavera!

Ho sempre dentro l’anima l’afrore,

accompagnato dal canto dei merli,

e dalle serenate dei fringuelli.

Quando uscivo fuori a riposare,

i miei occhi allungavano lo sguardo

a un orizzonte vasto a dismisura.

Ora son qui che vivo di ricordi,

e mi fa male questa solitudine.

E se qualcuno viene ad annaspare

in questo luogo lasciato all’abbandono,

nemmeno mi rivolge la parola.

Sono un aratro stanco, malandato,

ma più delle ferite corporali

mi dolgono i risvolti della vita:

questa fine fra aggeggi logorati,

fra attrezzi arrugginiti dall’età.

Vorrei che qualcuno ricordasse

l’aratro che un giorno sorrideva

nel preparare il campo per le semine;

nel lucidare il vomere all’attrito

col solco affratellato con il sole.

Sono l’aratro. Anzi fui l’aratro.

Vorrei la mano calda di qualcuno.

Vorrei tanto il ventre di mia madre.”.

 

Scrivere di Nazario Pardini è un grande piacere, poiché la sua arte poetica abbraccia un arco temporale che parte dai classici fino a giungere ai nostri giorni con una freschezza espressiva rara e impregnata sia dalla viva trascendenza immaginifica sia della trascinante musicalità del verso. Ci troviamo sulla sua isola, l’isola di Leucade oggetto di una sua pluripremiata silloge “Alla volta di Leucade” che è divenuta anche il titolo di un seguitissimo blog letterario sul quale la poesia, l’arte di scrivere e l’umanità sono le protagoniste assolute. I versi della chiusa della poesia “Dallo scoglio di Lèucade” servono per entrare subito nel luogo amato, dove il poeta vive la sospirata verità, “E ti rivissi, vita,/con un sentire lieve e tanto amato/che in ogni fatto lieto o meno lieto,/ma scampato, vidi un superbo dono.” Il dono è la poesia ed è la poesia anche la verità, non esiste altra forma espressiva che possa interpretare i gesti dell’uomo, lo ha fatto nell’antichità e lo continua a fare oggi. Forse oggi è ancora più urgente, l’uomo è divenuto sempre più tecnologico ma se manca la poesia l’umanità soccombe alla tecnologia. La poesia è espressione di Humanitas se l’uomo si allontana per essere sempre più cibernetico allora non sentirà più nessun desiderio di ideali e di utopia. Ecco perché sentire e vivere le percezioni sensoriali di sguardi e amplessi linguistici divengono energia che rinvigorisce l’animo e il corpo. L’uomo è sensibile all’arte in ogni sua declinazione, infatti, nella poesia pardiniana le muse sono sempre in azione in particolare la musica con la musicalità dei versi richiamando le romanze di Puccini che si respirano nei luoghi tanto cari al poeta e allietano l’animo ed il cuore. I luoghi sono anche quelli metafisici che diventano oggetto del sogno, della visione olografica che danno una rilevanza narrativa e il poeta li descrive con attenzione scientifica e una animazione panica di grande suggestione, tanto da sentirsi attratti e pervasi dai colori e dai profumi che fanno da sfondo alla narrazione “Su quest’isola/le campagne rigurgitano fiori,/si estendono infinite assieme al cielo”. Anche la morte partecipa al banchetto delle muse, e si nutre dalla bellezza e si confonde nelle pieghe del tempo. “Io sono qui. E a sera” un settenario che interrompe la sequenza di endecasillabi con quel “Io sono qui” con un accento tonico che dichiara la totale immersione del vivere come protagonista in questo luogo che ricolma il suo cuore zeppo dei sentori poetici in fuga con l’immortalità dell’anima. Un luogo dove vive l’animo del poeta e dove incontra tanti altri visitatori con le stesse esigenze di evasione dalla realtà tossica della superficialità, del disfacimento linguistico e di valori verso cui degrada la nostra società. La mia isola non intende essere un’isola come luogo lontano ma come luogo prescelto d’incontro dove esplorare la molteplicità dell’io e dell’altro come afferma in una poesia magistrale il poeta inglese John Donne “Nessun uomo è un’isola/completo in se stesso;/ogni uomo è un pezzo del continente,/una parte del tutto.” Il continente poetico costituito dallo sviluppo del senso linguistico che narra l’esistenza e protende la creatività verso nuove piste e rimescola le mappe antiche che hanno disorientato sguardo e memoria e immerso gli umani in uno stato tra immaginazione e nostalgia. Là dove in ogni istante sono in gioco tutti i tempi e gli spazi del proprio e dell’altrui mondo; dove si è dentro e fuori dal tempo, in un eterno e mutevole viaggio di andata e ritorno tra infanzia e avvenire. Da questo luogo ritorna nel suo nido domestico atteso dal figlio e dalla sua donna ma è una parentesi perché quando il sole arrossa l’orizzonte, l’anima del poeta prende il mare ed è di nuovo in viaggio verso spiagge solitarie dove la parola è verità. In questi luoghi della memoria, della fantasia dove la parola e il linguaggio sono musica, luce, sapori nutrienti e ammalianti. L’uomo nella sua dimensione, nella sua isolitudine meditativa riscopre il suo inconscio, la sua espressività che coniuga i saperi, le leggi della natura, l’immensità della distesa equorea, la magnificenza delle stelle. Isolitudine quindi, come afferma Bufalino, come sensazione di sentirsi circondati e rassicurati dal mare e dall’altro di vivere in un mondo parallelo per ritornare in se stessi, o per rinvigorire i legami famigliari più stretti; e, per contrasto, può esaltare la bellezza di ciò che prima si dava per scontato: le conversazioni con gli amici, le letture, i viaggi metafisici. Difronte a tutto questo l’uomo si interroga sul perché sui sentieri della vita si trovano pietre d’inciampo incomprensibili che distolgono lo sguardo dal creato e l’uomo continua a tenere lo sguardo basso perdendosi la bellezza che lo sovrasta.

Il mistero della parola pardiniana nella poesia L’aratro sgorga nel silenzio della carta, una pagina che si apre come la terra che lo stilo solca e il gesto della scrizione diventa aratura del terreno rinvenendo i reperti della memoria. Ecco che la parola acquista un significato che sfidando l’oblio porta in luce i tesori nascosti nei sedimenti dell’anima del poeta, per donarli alla corrosione del tempo. Ma nella poesia la parola è un metallo prezioso che resiste alla corrosione e vince il rintocco dell’ora dematerializzando lo spazio e il tempo. L’aratro diviene metafora dell’uomo che vittima del progresso ha rivolto lo sguardo verso altre luci accantonando le origini rurali e le ataviche fatiche dei campi. Ci troviamo in una trascendenza dell’uomo nell’oggetto, un cuore che si trasforma in vomere e le braccia che cercano appigli ai fili della memoria. Un canto poetico che ci restituisce il TEMPO quello di un padre che affida alla terra il suo destino e quello della famiglia, che vede nella figura curva sotto il sole il custode della sua vita. Semi di rispetto e d’amore una benedizione divina che ripaga dal sudore. Gli arnesi abbandonati riacquistano una vita emotiva, si fanno materia dei sogni in cerca di un riscatto. Come l’uomo che avendo svolto il suo ruolo nella società del produrre perde l’ossequio del mondo che lo circonda e quindi la scrittura diviene denuncia. “Vorrei che qualcuno ricordasse/l’aratro che un giorno sorrideva/nel preparare il campo per le semine;/nel lucidare il vomere all’attrito/col solco affratellato con il sole”. Qui l’espressività dei versi si innalza per tendere ad una curvatura del limite della parola che congiunge il vomere e il solco, come la freccia e la ferita uniti nella complementarità, quando la freccia si estrae la ferita si dissangua, nella similitudine invece, il solco diviene fertile di creatività. Il tema della precarietà del vivere che riprende il solco poetico di un altro poeta toscano come Mario Luzi è ampiamente presente nella poetica pardiniana, lo ritroviamo ad esempio nella poesia La Barca “Sono una barca che s’inarca al mare,/sono un fuscello in balìa del vento/che cerca un porto dove rifugiare/le mie malinconie. A volte ho visto/una pallida luce di conforto/a indirizzare la prua. I remi stenti/ […]”. In questa poesia l’uomo si identifica con una barca che si inarca sulle onde per far fronte alle difficoltà, nella poesia L’Aratro invece si immedesima nell’oggetto abbandonato. Il messaggio che ci vuole trasmettere Pardini è anche di carattere ecologico di guardare alla Terra e all’ambiente con animo sensibile e con atti sostenibili per mantenere il suolo fertile e avere nutrimento sano dai frutti del lavoro. Ma è anche il messaggio della lotta dell’uomo nel fronteggiare le difficoltà della vita e di cercare sempre di comunicare lo stato d’animo attraverso la parola per riuscire a tramutare i disagi in condivisione e bellezza poetica esaltandone il canto nostalgico.

Analisi poetica pubblicata nella rubrica Poesia e Poeti sulla rivista letteraria Il Convivio di Angelo Manitta, numero 87, pagine 19-20, ottobre-dicembre 2021.

1 commento:

  1. Complimenti Francesco! Ci hai donato una disamina che solca il vasto mare della poetica del grande Vate e arriva all'orizzonte, ai punti meno conosciuti del suo versificare. Hai preso spunto da due liriche che amo tantissimo . "La mia isola" non può che essere Leucade, 'Spiagge lucenti,/dune di mirti, cisti e di ginepri,/carezzati da mani trasparenti,/foci di fiumi puri e cristallini/ dove si aggirano uomini cólti /di nudità di spirito con donne /amanti dell’amore. E sguardi e amplessi,/e gioia di coloro che giunsero alla meta." Credo che nessun altro abbia scelto un luogo simile per farne il suo blog..e tu sottolinei giustamente:che è divenuta anche uno stato mentale: " Là dove in ogni istante sono in gioco tutti i tempi e gli spazi del proprio e dell’altrui mondo; dove si è dentro e fuori dal tempo, in un eterno e mutevole viaggio di andata e ritorno tra infanzia e avvenire." . Citi Jhon Donne dando luce al concetto che che con "Ogni uomo è un'isola" intendeva esprimere un'allegoria importante, "“Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Il nostro Maestro si sente esattamente così. Sei di un acume e di un'acribia nell'esegesi degli assunti pardiniani che ho avvertito l'incompiutezza di troppe mie analisi. Su "L'aratro" esponi la tua lettura e mi incanti: " Gli arnesi abbandonati riacquistano una vita emotiva, si fanno materia dei sogni in cerca di un riscatto. Come l’uomo che avendo svolto il suo ruolo nella società del produrre perde l’ossequio del mondo che lo circonda e quindi la scrittura diviene denuncia.". L’aratro è uno dei più antichi strumenti dell’uomo, utilizzato nel corso dei millenni per dissodare e tracciare solchi nel terreno, permettendo così di preparare le condizioni ideali per una nuova lavorazione o semina.... quanto può sentirsi abbandonato nell'era moderna e fungere da elemento di denuncia? Grazie per questa pagina che rende onore a un Poeta immenso e ci induce a profonde riflessioni. Abbraccio te e il nostro Condottiero con immensi affetto e ammirazione!

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