EUGENIO CIRESE, IL MOLISE E IL SUO CANTORE
Di
Eugenio Cirese (Fossalto, Campobasso, 1884-Rieti, 1953), figura di
intellettuale finissimo ed appassionato dovremmo ricordare inizialmente la sua
attività di educatore e di studioso delle tradizioni e del folklore della sua
regione, servita a tutto tondo all'insegna dell'interesse per la sua lingua,
soprattutto, al cui patrimonio seppe attingere e restituire in una pienezza di
racconto, di storia e di indirizzo nel dialogo con un tempo nuovo sempre
interrogato nel rapporto fondante col suo passato. Per questo, a partire dalla
sua attività di insegnante, dapprima in sedi diverse del Molise poi in quella
definitiva di Rieti, la sua attenzione anche didattica ai motivi del dialetto
oltre ad ben aderire alle finalità educative nella scuola assegnatele allora da
Giolitti va inquadrata anche in quelle istanze di fine ottocento "in cui l'originaria predilezione per il
canto popolare si coniugava con la ricerca erudita delle tradizioni popolari"
(Luigi Biscardi), nel dialetto fissandosi allora d'ogni terra lo spirito e
l'anima più vera. A spiegarlo, con forza, sono queste sue stesse parole: "L'origine
vera e profonda dello spirito e del carattere d'una regione è il dialetto, come
l'origine dell'unità di coscienza d'una nazione è la lingua. Negare l'unità
della lingua significa negare la Nazione, negare l'unità del dialetto significa
negare la Regione, svuotare l'arte dialettale del suo contenuto e della sua
funzione essenziale, che è quella di celebrare la regione col cuore e col
linguaggio di tutti, di avanzare, con tutti, al possesso di nuovi valori".
Se allora l'impegno dello studioso al servizio dell'identità storica, sociale,
antropologica ebbe il merito di gettare luce su una area geograficamente ai
margini pure quello dell'autore, del poeta finì con l'unire, ora nella ricerca
attorno alla melica popolare ora proprio impronta stessa del verso, tutto
l'impianto realistico e favolistico insieme di una terra mai doma nelle sue
fatiche e nella sue aspirazioni antiche.
Bisognerebbe citare nell'esempio almeno due titoli
tra gli altri, il primo Canti popolari e
sonetti in dialetto molisano (1910), nella piena sostanza di una lingua
successivamente intrisa oltre che di melica popolare e d'amore insieme anche di
riferimenti ad una storia contemporanea (vedi la guerra di Libia) di prova
oltre che "da componimenti
didascalici, favolistici e gnomici, nel complesso ideologici"
(ancora Biscardi); e poi Gente buona, sussidiario per il Molise in aderenza al tempo
della scuola e all'alternanza delle stagioni, in cui la varietà di brani geografici,
storici, socioculturali accompagnati da notizie e nozioni nei più diversi
riferimenti a realtà regionali, agricole soprattutto, ci restituiscono ancora
adesso un quadro esatto del Molise dell' epoca (esattamente gli anni venti del
secolo scorso). Eppure se, come chiaro, la sostanza dello studioso non può
essere espunta da quella dell'autore ci interessa in queste pagine soffermarci
sul valore di una lirica che ancora in queste terre non ha eguali. Più volte,
doverosamente e naturalmente dell'attività poetica del Cirese sono stati
sottolineati due diversi tempi, il primo di impianto melico, realistico (fino a
Rugiade, 1938), il secondo, piuttosto,
all'interno di mutate dinamiche storiche e personali improntato a una pensosa e insaziata
riflessività, più vicina anche pur nell'originalità del canto a contemporanee, moderne
esperienze. Eppure mai una cesura netta è andata a segnare una distanza di
istanze e riferimenti, la parte finale della sua scrittura libera di espandere
i suoi motivi, e le sue modalità antiche nel riassorbimento maturo di una
coscienza che a quei richiami sa dare funzione nel dialogo col nuovo. Soprattutto
nella tensione della produzione finale caratterizzata da certa disillusa
malinconia del tempo, la maestria poetica (che in questo lo avvicina forse ai
grandi autori della poesia abruzzese) nelle crepe di un mondo che vede perdersi
sa riaffermarne la presenza riaffermando se stesso all'interno di quello spazio
di cantabilità, di figure, di evocazione, di melica liricità appunto che vive
ma ripensate alla verifica della soglia sempre sanno riapparire e ridirci,
presenti, in quello spazio tra il sogno e la dilatata concreta incarnazione che
fa della poesia il luogo privilegiato dell'umano nello spazio delle sue aperte
e sospese possibilità.
Un Molise così nell'immagine continua delle sue
riproposte fedeltà, delle sue fatiche, delle sue aspirazioni come dei suoi
inganni sovente nella sagoma di un'ombra, di un passante che cerca strada e
voce alle rispondenze dei richiami, e che non è difficile identificare col
Cirese stesso, e di una finestra su un mondo nel laccio di amori e di una
natura al ribollire dei propri cicli, delle proprie inquiete sovrapposizioni e
dei propri misteri cui, forse, solo il verso può trattenere ancora
nell'incantata malia delle evocazioni e degli incontri, ridando sacralità a quello
spazio che nell'esserci ci afferma (restando probabilmente Lucecabelle, del 1951, il suo capolavoro). Dignità allora che ha
soprattutto nella "fatìa"("fatica")- di lavoro, di insieme,
di vita stessa- che"quande
chiù te pesa/ chiù te la puorte 'n cuolle" ("quanto più ti pesa/più
te la porti addosso") il timbro di una terra di cui tanta passione
vorrebbe esserne fino alla fine, nel suo servizio, il mietitore. Riuscendovi
certamente nell'aratura di un fiorire che tutto considera e di cui tutto ha valore
nell'eterno ricominciare del ricordo e del pane, nel dimenio di un'acqua nel
cui domandare il cielo stesso va a riconoscersi. Perché è soprattutto nel
sotteso esercizio di una rimessa liricità di elementi al dominio trasfigurante
del mistero che nella compenetrazione li trasfigura, nella sua forza, tutta la
confluenza e la sintesi di una poesia che dei suoi uomini e delle sue donne sa
ridirne le voci nella intima concretezza delle mestizie e dei raccolti, la
terra allora nel coro delle sue rotazioni. Il tutto certo nello strumento di
una lingua, al servizio di una lingua di cui ancora nel Molise è ricordato come
la memoria in quella consapevolezza umana e critica da Cirese stesso ricordata
nel 1953 in alcune considerazioni a Pier Paolo Pasolini:"Il dialetto è una lingua. Perché possa
essere mezzo di espressione poetica e trasformarsi in linguaggio e immagini è
necessario possederla tutta; avere coscienza del suo contenuto di cultura e
della sua umana forza espressiva. Nell'infanzia e nella prima giovinezza... ho
parlato, raccolto e cantato canzoni, gioito, pianto, pensato in dialetto. Non
sto qui a sostenere la maggiore efficacia espressiva del dialetto sulla lingua
letteraria ─ luogo comune
non serio, perché ogni lingua ha pienezza ed efficacia di forme ─: dico solo che il possesso del dialetto agevola
la ricerca di forme in atteggiamenti efficaci e immagini proprie: accresce
insomma la possibilità di dare ─ e questa è per
me l'esigenza vitale della poesia dialettale ─ qualche cosa
di nuovo a se stessa e, perché no, alla lingua letteraria". Andando a concludere questo breve viaggio
nella poesia di un autore dagli interessi vastissimi (si veda tra gli altri la
fondazione de "La lapa", rivista di Argomenti di Storia e
letteratura popolare, periodico mensile a cui collaborarono tra i più
importanti intellettuali del suo tempo) e ricordando per una lettura completa
dell'opera i due volumi di Oggi domani
ieri. Tutte le poesie in molisano, le musiche e altri scritti per la cura
del figlio Alberto (Isernia, Marinelli, 1997), ci piace lasciarci con un verso nella cui aderenza ai motivi veri del
dire con l'uomo ci riconosciamo appieno: "Dentre a la vita méia m'arencontre/ e campe"
("Dentro
la mia vita mi rincontro/e vivo").
Gian Piero ci porti sempre sulle orme di Autori che hanno difeso le loro radici da strenuo difensore dei delle origini, del valore dei vernacoli.. L'insegnante Eugenio Cirese, di Fossalto, in provincia di Campobasso, che per marcare l'amore per il Molise scrisse varie Opere e, in particolare “Gente buona”, che si lega strettamente agli altri suoi amori profondi:: i canti del popolo, il dialetto, la poesia, la buona gente della sua terra. Cominciò tra il 1910 e il 1915, anni interamente molisani, con Canti popolari e sonetti, Discurzi di cafoni, Ru Cantone de la Fata. Tu citi il suo capolavoro, Lucecabelle, nella quale celebra la fatica, la dignità della sua gente, donando "il timbro di una terra di cui tanta passione vorrebbe esserne fino alla fine, nel suo servizio, il mietitore".. Un Autore molto apprezzato da Pier Paolo Pasolini con il quale intrattenne un carteggio proprio sull'importanza del dialetto. La tua esegesi è quanto mai affascinante ed esaustiva e tu dimostri per l'ennesimo volta il tuo valore! Ti abbraccio forte!
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