"I dintorni della solitudine", di Nazario
Pardini
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Che cos'è la
"solitudine"? può avere dintorni
la solitudine? Non nel senso in cui viene di norma intesa. Quando un uomo è
solo, o tale si sente, non ha nessuno intorno,
tantomeno se stesso, e niente, ma proprio niente, lo può confortare. Ebbene, la
poetica pardiniana ha e promuove un'idea diametralmente opposta di solitudine:
una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato
cosmico e intensa compagnia. In primis,
compagnia dell'uomo con se stesso, con il proprio mistero, ma poi con tutto un
mondo (visibile ed invisibile) che con lui è in empatica relazione. Un dialogo
incessante con la terra, con il cielo, con il mare, nonché con altri uomini,
viventi o scomparsi, con cui lui ha stabilito legami. Un panismo struggente, un
sentimento di fusione con tutto il vivente: "Mi sposto, e vado a
miscelarmi / alla furia spaventosa della foce" (La piena del Serchio).
Un vero e proprio animismo,
una polifonica armonia in grado di accogliere ogni voce del creato. Si legga Piccioni, un inno alla natura libera e
selvaggia, alle sue creature umilissime "che hanno solo l'istinto",
una sapienza infallibile che le rende padrone di se stesse e del loro destino.
Tutto è vivo ed armonico in natura, dove perfino gli oggetti hanno un'anima. Il falcione, ad esempio, che se ne sta
lì, "fra le miste ferraglie di cantina", ed è "senza voce: una
bestia ferita", finché il poeta lo trasporta in cortile, "all'aperto,
fra i richiami / di paperi e galline", e gli sembra che torni ad essere
felice. E quanta tenerezza nell'aratro che, triste per esser finito "fra
aggeggi logorati", rimpiange i tempi della sua giovinezza e "vorrebbe
tanto il ventre di sua madre". Un vitalismo travolgente e festoso, ma al
tempo stesso dolente per il mistero di morte intrecciato all'urlo di vita
dell'intero creato.
E quando giunge
l'autunno, e la melanconia si estende per la morente stagione, il poeta osserva
con tristezza il "sudario di languore e di morte" che avvolge ogni
cosa, ed è colto da un interrogativo lancinante: ci sarà la rinascita, oppure
tutto finirà irrevocabilmente in un Nulla nefasto e mortale? "... Questo
autunno / ha un cielo nuvoloso e non promette / sereni panorami. Spunteranno /
i nuovi bocci chiusi dentro l'anima / dei rami sonnolenti? / Niente dicono. /
Protetti dalle scorze delle rame, / sanno solamente della morte / di quelli
spersi dentro la foresta". Può sembrare perplessità, esitazione,
incertezza, ed invece è certezza della natura duale ed armonica di tutte le
cose. Amore e Morte, Eros e Thanatos, si rincorrono e si resta in
apnea di fronte al mistero dell'equilibrio universale, che dà e toglie a suo
piacimento ogni dono.
Pandoro, il cane
fedele che continua ad attendere il padrone scomparso, dopo anni, alla fermata
della corriera, mostra di avere una fede incrollabile in questo mistero: "Per
lui ad ogni arrivo era una festa, / ed è convinto che lo rivedrà. / Non molla.
/ Ogni giorno, alla stessa ora, / Pandoro te lo vedi lì davanti / con lo
sguardo fisso alla corriera". Negazioni e affermazioni fanno parte allo
stesso titolo di quel mistero di armonia, dove limitato e illimitato occorrono
l'un l'altro ed il senso della precarietà si sposa con quello della pienezza e
dell'assoluto. Una poetica fondata sull'armonia dei contrari, che è poi la
filosofia dell'assoluto, la filosofia del tutto
che necessariamente accoglie tutto nel suo abbraccio, finanche il suo
contrario. Ed è la filosofia della natura, pronta ad abbracciare i più
dissonanti contrasti in un progetto unitario di armonia.
Un realismo
vivacissimo, una coralità che sconfessa quanti tendono a definire intimistica una poetica così lontana dai
clangori delle sferraglianti metropoli, produttrici - quelle si - di isolamento
psichico, di solitudine estrema, di chiusura dell'uomo in se stesso e di intimismo radicale. Ma non si pensi di trovare,
nella poetica di Pardini, il benché minimo accenno polemico nei riguardi del
mondo tecnologico. Nessun astio, nessun rancore ideologico nei confronti dei
cosiddetti paradisi artificiali, la cui negatività, semmai, è risolta in
positivo, come contraltare necessario per dare risalto all'esuberante umanità
della terra in cui l'autore vive, come di tutte le terre non ancora
pesantemente contaminate dai miasmi della globalizzazione: "Vieni a
trovarmi, caro forestiero, / vive da me ogni palpito di storia, / ... / Vieni a
trovarmi nella mia Toscana" (Vieni
al mio paese).
Non tutto il mondo è
megalopolitano e la sola cosa che conta per un poeta - come per chiunque - è di
credere in se stesso e nel mondo in cui vive. Sprofondato in quelle radici, che
ama e canta da sempre con passione sconfinata,
Pardini non mostra risentimenti nei riguardi di un mondo appeso ad opposti
valori, dai quali non avverte minacce e i cui risvolti poetici, qualora non
effimeri, egli non ha mai mancato di incoraggiare nella sua lunga e feconda
attività di critico letterario. Sa benissimo, Nazario, che tutto concorre a
formare il mosaico universale, in quella complementarità degli opposti che è la
filosofia stessa del creato, filosofia di cui il suo animo è profondamente permeato.
Semmai l'intolleranza è perseguita da un certo modernismo ideologico che tende
a costruire steccati, forzando oltre misura la giusta istanza di ricerca di
nuove formule espressive.
Chiunque conosca
Pardini, sa che egli difende strenuamente la soggettività del fare artistico contro chi pretende di insegnare
una volta per tutte i veri ed esclusivi canoni dell'arte e della poesia. Se si
crede nella singolarità dell'esperienza creativa, non si può credere nella
dogmatica oggettività di regole già date. Non sto difendendo, sia chiaro,
l'assenza di regole in poesia. Le regole devono esserci, ma sono squisitamente
personali. Ogni poeta ha le proprie e le scopre solo lavorando. Non sono un
vestito preconfezionato, le regole, perché l'unico vestito della poesia è la
nudità con cui essa viene alla luce. Sembrerebbe anarchia e pressapochismo a
buon mercato, ma non è così, giacché il soggettivo
di cui qui si parla non è altro che lo spirito
profondo, individuale e universale a un tempo, e non certo il capriccio o
lo psicologismo sfrenato.
Ogni poeta ha la
propria maniera. Il brutto è
codificare, trasformare in manierismo qualsiasi
maniera. La maniera di Pardini ha un nome specifico: tradizione, ma occorre chiarire che non c'è nulla di meno codificabile,
di meno sclerotico e di meno antiquato della tradizione. Tradizione non
è conservazione. Fra i due termini
corre una distanza incolmabile, la stessa che corre fra mitopoiesi e mitologia. La
tradizione è viva e molteplice, la conservazione è monocorde,
cristallizzata. La tradizione è
creativa, la conservazione è reazionaria.
Non a caso il ribelle Pasolini poteva scrivere: "Io sono una forza del Passato. / Solo
nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le
Prealpi, / dove sono vissuti i
fratelli" (da Poesia in forma di rosa, Garzanti 1964).
Non la mummificazione, ma il rinnovamento è la
peculiarità delle radici. Non ciò che si
tramanda passivamente nei secoli è tradizione,
ma ciò che rinasce nei secoli da ogni annullamento, da ogni arresto, da ogni
distruzione. Un mistero insondabile. Tradizione
è ciò che muore e si rinnova ad ogni generazione, come il fogliame dai rami
stecchiti, come i frutti dai disfatti semi. Tradizione è l'immutabile che rivive in ogni mutazione: l'humanitas di sempre, l'essenza stessa dell'animo
umano. E' l'eterno presente, l'illo tempore del mito, l'attimo sacro
delle origini, perennemente attuale. E' questo il Memoriale di cui parla
Pardini: non un arido esercizio mnemonico, un insignificante mandare a
memoria. Piuttosto un filtro coscienziale, un ricordo di esperienze vissute
e dimenticate che affiorano decantate dalle acque dell'oblio per illuminare di
nuovo e sempre il cammino. Una purificazione.
Nella mitologia
greca Lete e Mnemosyne sono strettamente abbracciate tra di loro. Esiodo, nella
Teogonia, presenta le due divinità
come gemelle inseparabili, antitetiche e complementari. Per lo stesso Platone,
nel mito di Er, la dimenticanza è
considerata premessa indispensabile per ogni rinascita. E sempre nella
mitologia, Lete, è anche il nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua,
bevuta, concede ai defunti il dono di dimenticare la vita precedente per
disporsi a rinascere in un corpo nuovo. Questo, a mio parere, è il vero
significato del Memoriale in Pardini.
E' il vissuto che attira a sé e ingoia
nelle sue spire, ma che sempre restituisce vita e prepotentemente spinge a vivere
e a vivere ancora. Vissuto sempre inconcluso,
attraverso cui torna e ritorna la potenza imperitura dell'amore e del principio
vitale.
"L'ultimo
autunno che vivremo assieme / sarà per impolparci dei colori / della nostra
stagione. Verrà il mare / con le sue inquiete onde a raccontarci / storie di
antichi approdi; a suonarci / ottobrine romanze. Stai con me. / Sarà bello
abbracciarsi; sarà di nuovo bello / confondersi coi lampi di una fine, / come
lo era, / coi fremiti nascenti delle fronde" (L'ultimo autunno). Memorie non chiuse in soffitta, ma da vivere e
rivivere ancora. Se così non fosse, sarebbero nient'altro che gabbie mentali, i
ricordi, un limbo dove andarsi bolsamente a rifugiare. Tutto ciò è detto
magistralmente nella poesia Il fiore:
anziché coglierlo, il fiore, e in tal modo farlo morire, lasciamolo
in vita ed accettiamone la morte naturale, foriera di altre primavere: "Mischiamoci,
non temiamo la morte! / Bagniamoci del pianto, / intingiamoci nel sangue".
Soltanto così potrà
rinascere, quel fiore: "... Arriverà / profumo d'erba nuova / a riportarci
al fiore, / a respirarne l'odore selvaggio, / il capriccio d'amore. / E sia
motivo / per scoprirci di nuovo e non ricordo, / solo ricordo di una
primavera". Questo è il Memoriale per
Nazario Pardini. Non un limbo di ricordi dove cercare sollievo, ma un angolo
dove scoprirci di nuovo e così
tornare a vivere e a soffrire, a lottare e ad amare. Non fuga dal mondo, bensì
radicamento nel mondo, uno stare hic et
nunc, a combattere realmente, lontani dalle ribalte, senza retorica e senza
ruota di pavone. I timidi "sono
quelli laggiù, in fondo al gruppo: / ascoltano, / e lasciano parlare gli
oratori. / ... / Sono quelli che amano di più, / magari di nascosto, / e se lo
tengono dentro / per paura di essere scoperti". Questa folla anonima non
firma la storia con atti memorabili,
ma è l'unica a vivere degnamente la vita.
Il tema è ripreso e
sviluppato in Dialogo, un confronto fra la Storia e Leonida, fra celebrità e
anonimato, fra l'agrodolce autenticità e la megalomania violenta e sfrenata. La
poesia di Pardini ha matrici fantastico sentimentali, ha radici in un cuore che, se spesso propina illusioni,
sa comunque restare profondamente legato al reale. C'è su questo punto un'interessante
e amabile ambiguità. Il Nostro, infatti, rispetto a Leopardi che non ha dubbi
sul carattere illusorio (sia pure indispensabile) della fantasia, conserva
quell'interrogativo fecondo che gli fa dire: "Ma ero vivo? / o dentro me
costruivo una coscienza / che non aveva a che fare col reale?" (Verso la luce). Sta qui la natura
"binaria", genuinamente interrogativa di questa poesia, consapevole
che nel sogno c'è tutto: l'illusione senz'altro, ma anche la verità.
Verso la luce è il titolo del poemetto finale: una sorta di viaggio astrale, al di
fuori del corpo, dove l'autore aggancia persone scomparse (il babbo, il
fratello, un amico) che si soffermano a dialogare amabilmente con lui. Finché
una ninfa, Silva, lo avverte: "Tu non puoi, / umano fra gli umani, stare
qui / a gioire delle bellezze eterne / ... / Quello che vedi è fumo". Silva
svanisce e una voce invita il poeta a tornare al reale, alla vita concreta,
unico luogo dove è possibile coltivare la luce dell'innocenza. La verità sta
dentro di noi, non possiamo fuggire da noi stessi nell'illusione di poterla trovare
altrove. Vivere da umani, con fedeltà piena all'umano, è l'unica via
percorribile che abbiamo: "forse non era luce, / forse non era / quella
che io bramavo, / ma pur sempre la luce, quella chiara, / quella di casa mia. /
Chi dice che non fosse / quella che io cercavo". Un programma decisamente
antiorfico, direi.
Franco Campegiani
Ampia ed esaustiva la recensione di Franco Campegiani, nella quale è sottolineato come Nazario Pardini sappia bene «che tutto concorre a formare il mosaico universale, in quella complementarità degli opposti che è la filosofia stessa del creato, filosofia di cui il suo animo è profondamente permeato». Inoltre, tra i tanti punti di riflessione suscitati, in particolare valuto stimolante il “distinguo” proposto fra “tradizione” e “conservazione”, dove la tradizione – sviluppata da Pardini – «è viva e molteplice, la conservazione è monocorde, cristallizzata. La tradizione è creativa, la conservazione è reazionaria».
RispondiEliminaA riguardo, Walter Benjamin, in un articolo del 1936, ha scritto quanto sia problematica l’esistenza di una struttura poetica e artistica in grado di presentarsi al destinatario sempre sotto il medesimo aspetto: «in verità il suo aspetto potrebbe cambiare con le diverse epoche che volgono il loro sguardo sull’opera», confermando, però, in una simile evenienza, «la sua capacità di aprire un accesso alle epoche che le sono più lontane ed estranee». Sono quindi suggeriti gli esempi di come «la poesia di Dante abbia messo in luce tale capacità per il secolo XVIII, mentre l’opera di Shakespeare per il periodo elisabettiano».
Speriamo e confidiamo, insieme a Campegiani, che la poetica pardiniana possa intraprendere un sentiero attuale, analogo.
Ti ringrazio, Cinzia, per questa attentissima disamina del mio scritto sulla poetica di Nazario Pardini. Soprattutto ti sono grato per le puntualizzazioni e le considerazioni ulteriori che aggiungi, con la tua collaudata e sorprendente sapienza umanistica, alle mie idee... rivoluzionarie (sic) sulla tradizione e sul suo insostituibile valore.
RispondiEliminaFranco Campegiani
"Che cos'è la "solitudine"? può avere dintorni la solitudine? Non nel senso in cui viene di norma intesa. Quando un uomo è solo, o tale si sente, non ha nessuno intorno, tantomeno se stesso, e niente, ma proprio niente, lo può confortare. Ebbene, la poetica pardiniana ha e promuove un'idea diametralmente opposta di solitudine: una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato cosmico e intensa compagnia.".
RispondiEliminaPartire dall'incipit di questa profondissima ed accurata lettura di Franco Campegiani ai "Dintorni della solitudine" è - coerentemente con il pensiero dell'amico - come iniziare dalla fine. Mi spiego: parlare di solitudine senza prendere in considerazione la compagnia equivale a discettare del nulla, di aria fritta; così come parlare di luce senza ombre non avrebbe alcun senso, di più: non ci farebbe comprendere né l'una né le altre.
E, tuttavia, non sarebbe ancora sufficiente se non si facesse un passo successivo, che è poi quello che Franco fa subito dopo scrivendo: "In primis, compagnia dell'uomo con se stesso, con il proprio mistero...". Certo, perché non può esserci vera relazione con il mondo e gli altri esseri viventi se - prima - non si sta volentieri con se stessi.
Da qui, prende piede tutta la disamina, e da qui bisogna sempre ricominciare. Così, quando Campegiani parla di difesa della soggettività del fare artistico a proposito della poiesi pardiniana, tiene a sottolineare che non si tratta di insegnare niente a nessuno ma di mettere "a disposizione" degli altri il proprio sentire; quando parla di maniera, mette in guardia circa la confusione che si potrebbe generare tra questa ed il manierismo, che tutto è fuorché libera creazione, libera espressività (di qualunque genere esso sia). "La maniera" di Pardini si chiama Tradizione - dice - ma non ciò che passivamente si tramanda nei secoli bensì "ciò che muore e si rinnova ad ogni generazione, come il fogliame dai rami stecchiti, come i frutti dai disfatti semi.".
"Quello che vedi è fumo". Silva svanisce e una voce invita il poeta a tornare al reale, alla vita concreta, unico luogo dove è possibile coltivare la luce dell'innocenza. La verità sta dentro di noi, non possiamo fuggire da noi stessi nell'illusione di poterla trovare altrove.".
Il poemetto che chiude la raccolta è quanto di più esplicativo al riguardo, e non è un caso che sia Nazario che Franco abbiano voluto concludere in questo modo: è da lì che Ulisse riprende a navigare.
Sandro Angelucci
Carissimo Sandro, il tuo lungo e appassionato commento la dice lunga sulla matrice comune del nostro pensare e sentire. Grazie per ciò che dici a proposito della solitudine e della compagnia, con la sottolineatura formidabile che "non può esserci vera relazione con il mondo e gli altri esseri viventi se - prima - non si sta volentieri con se stessi". Ciò rende giustizia ad una poetica relazionale e combattiva (odissaica), tutt'altro che intimistica o orfica come quella pardiniana. E grazie anche per avere colto il distinguo tra "maniera" e "manierismo", che tutto è - quest'ultimo - "fuorché libera creazione, libera espressività (di qualunque genere esso sia)". Un caro saluto.
RispondiEliminaFranco
Straordinaria l'esegesi del'amico Franco Campegiani dell'Opera di Nazario "I dintorni della solitudine". Nell'annegare nel suo dire prendevo atto di quali sono le capacità e le conoscenze che deve possedere un critico letterario. Magnifica la lettura della solitudine intesa come capacità di star bene anche con se stessi e di realizzare un afflato con l'universo. In effetti si può solo scegliere di star soli nel senso letterale del termine, ovvero avulsi dal mondo che ci circonda. La solitudine pardiniana è tensione verso la vita, è un'esperienza panica, sottolinea Franco, "una solitudine non intimistica o crepuscolare, ma una solitudine che è afflato cosmico e intensa compagnia".
RispondiEliminaNessun sentimento di fuga, ma volontà di legarsi ogni giorno di più alle radici. Ho trovato molto efficaci anche i commenti della signora Cinzia, che non ho l’onore di conoscere e del caro Sandro Angelucci. Anche nel caso del magnifico testo di Nazario la dualità del vivere è quanto mai attinente. E quale meraviglia l’interpretazione di Franco del termine ‘tradizione’! Il termine deriva dal latino tradizione(m), e propriamente significa ‘consegna’. Non è un rituale che si ripete. Avviene ‘la consegna’ e si costruisce altro,si cresce, si matura. Il mito nell’interpretazione di Franco e, naturalmente di Nazario, la fa da padrone, tant’è che il nostro termina il suo lavora con il riferimento a Ulisse. La ‘consegna’ mi sembra quanto mai attinente a quest’ultimo, in quanto Odisseo viaggia e non si stanca di scoprire.
Un ‘analisi eccellente, che crea nuove suggestioni sull’Opera del Maestro e mi rende onorata allieva di tanta magistrale bravura. Un caro abbraccio a Franco, a Nazario e agli altri critici letterari….
Maria Rizzi
Grazie Maria,
RispondiEliminai tuoi interventi sono tutti pieni di saggezza e di sostanza.
Nazario
Carissima Maria, il tuo brillante commento stimola in me ulteriori considerazioni. Che cos'è che danno in "consegna" ai poteri gli avi? nient'altro che il pungolo a prendere direttamente in mano la propria esistenza, dando fondo alla propria creatività e alle proprie risorse umane. E' questo che loro han fatto ed è questo che anche noi dobbiamo imparare a fare. Non impareremo mai a farlo fin quando ci limiteremo a copiare i loro insegnamenti evitando di farli scaturire direttamente dal nostro intimo sentire. Sta qui la maieutica, l'arte del "far partorire", davvero la più alta forma pedagogica che sia stata mai elaborata dall'essere umano. Ti sono grato per questo tuo contributo.
RispondiEliminaFranco
Errata corrige: non "ai poteri gli avi", ma "ai posteri gli avi".
RispondiEliminaF. C.