APPUNTI SULLE TRDUZIONI
DI
LUCIANO DOMENIGHINI
Orazio Antonio Bologna, collaboratore di Lèucade |
È una vera sorpresa e inattesa
meraviglia trovare, oggi, una persona che, con amore e passione, coltiva il latino.
Da vecchio docente di lingua e letteratura latina nonché scrittore e verseggiatore
in latino, l’avrei potuto incontrare o immaginare qualche tempo addietro, non oggi,
perché la gloriosa, e mai del tutto tramontata, lingua di Roma, nella
cosiddetta società civile e tecnologicamente progredita, è messa in un angolino
nella speranza che taccia per sempre. Tutti ne vogliono decretare la fine, ma
nessuno, o solo qualche voce extra chorum, si chiede il perché. Ed è
proprio intorno a questo ‘perché’ vorrei richiamare all’intelligenza del
lettore una sola osservazione: la lingua latina, oggi, è più viva che nel
passato, perché l’uomo, oggi, ha più possibilità di accedere alla cultura e la
tecnologia, che avanza con passi da gigante, offre i mezzi, che qualche generazione
addietro non aveva.
La lingua latina, finché ha un
messaggio, anche pallido, da veicolare al lettore, è viva. Si può dire che una
lingua non è più parlata, ma non si può affermare che è morta. Chi si sbraccia
a berciare con insulse argomentazioni che il latino è morto, e per sempre, probabilmente
non gli è chiaro, in linguistica e, in generale, nella fisiologia dei diversi idiomi,
il concetto né di vita, né di morte. Il ‘colto’ di oggi dia, di sfuggita, uno
sguardo alla produzione poetica latina di Giovanni Pascoli. Da più d’uno, che
si atteggia a maestro, solo perché ha avuto la sorte di porre davanti al suo
nome Dott., si sente dire scandalizzato: «E che c’entra Pascoli col latino?». Problemi
di crassa e abissale ignoranza. La lingua latina è oltremodo viva, perché veicola
ancora messaggi di particolare importanza. Se l’uomo di oggi si chinasse sui
grandi maestri del passato, probabilmente non si assisterebbe allo sfacelo
della società, alla negazione di una humanitas, della quale ogni giorno
si avvertono le pulsioni, non si vivrebbe, oggi, l’homo homini lupus di
plautina memoria.
Perché il messaggio degli
immortali maestri del passato non cada nell’oblio, Luciano Domenighini[1] ha pensato bene di presentarlo
nella lingua di oggi, in italiano, perché sia accessibile a tutti e tutti possano
meditare sulla bellezza, sull’armonia, sulla grandezza della poesia latina,
prendendo le mosse dai tempi più remoti per giungere al secondo secolo d.C.,
quando l’Impero di Roma avvertiva profondamente i primi sussulti del messaggio cristiano.
Luciano, con competenza, amore, serietà ha offerto con magistrale esemplarità
un piccolo assaggio di ciò che la grande stagione letteraria latina ancora
riserva, purtroppo, a pochi raffinati intenditori.
Questi appunti, un po’
disordinati e sconnessi, saranno divisi in due parti, perché l’illustre cultore
della lingua latina ha pubblicato due libri: il primo intitolato Poemi didascalici
latini, con sottotitolo tra parentesi, Traduzioni da Virgilio, Lucrezio,
Ovidio e l’altro non meno interessante Poeti satirici latini.
Il colto studioso del mondo romano
ha voluto accostare in un binomio inscindibile la difficile arte del poema didascalico,
che tanta fortuna e importanza ha avuto nella cultura greco-romana, a quella
non meno facile della satira. Spesso questi due generi letterari sono così strettamente
uniti, che l’uno non esiste senza l’altro, perché l’uno ha necessariamente bisogno
dell’altro. Anche la scelta degli autori in entrambi i volumi è sofferta e a lungo
meditata, perché cogliere i fiori più belli o più freschi, sbocciati nell’arco
di ben quattro secoli, non è un impego di poco conto.
Prima di affrontare la linea
seguita nel rendere in italiano i brani tratti dagli autori più celebrati della
letteratura latina, vorrei accennare alla profonda e vasta cultura, nonché alla
fine sensibilità del traduttore. Per affrontare un autore latino si chiede
innanzitutto la perfetta conoscenza del periodo storico, nel quale ha quegli vissuto
e nel quale l’opera è nata; a questo requisito se ne aggiunge un altro, non meno
importante del primo: la perfetta padronanza della lingua latina, sì da rendere
per il lettore moderno, ignaro del complesso mondo che vi è sotteso, le più
lievi sfumature del testo originale: le traduzioni presentate non sono esercitazioni
di uno scolaretto.
Non si può tacere la perfetta
padronanza e l’invidiabile correttezza della lingua italiana, oggi, purtroppo,
nota a pochi eletti. Si potrebbe parlare di un bilinguismo bene equilibrato e
armonizzato nel poliedrico complesso del bagaglio culturale. Il testo di arrivo,
è ovvio, non è né uguale né simile a quello di partenza: la traduzione è una
mediazione tra il personaggio romano e l’uomo moderno, non una sostituzione. Per
cui la traduzione per quanto bella e perfetta possa essere non può mai sostituire
l’originale. E il traduttore cosciente, come il nostro Luciano, lo sa bene e si
riguarda bene dal sostituirsi all’autore, che, di volta in volta, affronta, pur
ponendosi al suo fianco e accompagnandolo col dovuto rispetto e con le dovute distanze.
A tal riguardo si potrebbero
citare celebri traduzioni, diventate veri capolavori di arte, di stile, di
inventiva, come l’Eneide di Annibale Caro, l’Iliade di Vincenzo Monti,
l’Odissea di Ippolito Pindemonte. L’elenco potrebbe continuare, perché queste
opere, anche in italiano, hanno ancora molto da insegnare, anche se per il loro
linguaggio è considerato antico, obsoleto, non adatto alla comunicazione di
oggi.
Il nostro traduttore nell’affrontare
i brani scelti non ha usato la poesia con l’endecasillabo o un altro metro, ma
una prosa ritmica, ben calibrata, con forbite cadenze lessematiche. La prosa
non ricalca perfettamente il testo latino, ma al suo interno si notano evidenti
allusioni ed emistichi di grande suggestione. Il traduttore non cade né nella
banalità, né nell’affettazione, né nella forbitezza di un linguaggio obsoleto o
spocchioso.
Per dimostrare le competenze
conseguite, si potrebbe riportare, come esempio, qualche brano tratto da Lucrezio,
come i vv. 12 e 13 …tuumque / significant initum perculsae corda tua vi,
che Luciano rende: (gli uccelli) turbati nel cuore dalla tua forza, / te
annunciando…
Nel testo originale, come si
può notare, l’esametro termina con un potente monosillabo, vi, con il
quale Lucrezio denota il grande potere dell’amore sul cuore di ogni creatura,
nella resa italiana Luciano, per il differente mezzo espressivo, rende la
potente immagine lucreziana con turbati nel cuore dalla tua forza, preferendo
richiamare l’attenzione su perculsae / turbati piuttosto che su vi /
forza. Questo proteron è di grande effetto per il lettore ignaro di latino,
ma una trovata intelligente e originale per chi legge Lucrezio in latino.
A riprova dell’abilità, che l’interprete
dimostra, e in più occasioni, si riporta un altro verso, tratto dall’invocazione
a Venere: omnibus incutiens blandum per pectora amorem. Il potente e
fremente esametro lucreziano con una bella sinestesia è da Luciano così stemperato:
a tutti tu, infondendo in petto un alito d’amore…
Lucrezio nella concretezza della
lingua latina cerca di infondere la grande conquista astrattiva del linguaggio
filosofico greco, e da genio qual è crea un capolavoro, che ha sfidato e sfida ancora
i secoli. Il De rerum natura, come accennava la prefatrice, prof.ssa
Chiara Filippini, è il frutto più maturo forse del più tormentato periodo della
storia di Roma. Ma questi problemi si lasciano ai filologi: qui si vuol solo sottolineare
la straordinaria opera sia dell’interprete che del divulgatore.
Il traduttore, però, lasciato
l’aspetto filosofico, molto interessante per conoscere il travaglio interiore,
che attraversava e turbava profondamente la società romana del primo sec. a.C.,
con animo più sereno e con linguaggio più pacato ed equilibrato si accosta quasi
in punta di piedi alle Georgiche di Virgilio. Il grande poeta mantovano
scrive quando, sotto Augusto, le guerre civili erano finite e doveva iniziare
un nuovo corso nella storia di Roma. Nella IV ecloga, non a caso,
riferendosi al puer, e Ottaviano era solo un giovanotto all’epoca, Virgilio
scrive: magnus ab integro saeclorum nascitur ordo, che si potrebbe rendere:
da ora per la storia di Roma inizia un nuovo corso. Ma tanto l’esegesi
quanto l’ermeneutica di questo verso non è così banale, come è stata resa. Si è
cercato, interpretando Virgilio, di rievocare il clima creatosi con la restaurazione
della Pax Augustea.
Virgilio con l’eccelsa
levatura della sua opera invita gli uomini a coltivare la terra, la quale, se
custodita e accudita con dedizione e amore, non è mai ingrata, ma riversa nelle
case dei coltivatori i frutti copiosi della sua generosità. A causa delle sanguinose
guerre civili i campi erano rimasti abbandonati, perché le robuste braccia dei
contadini servivano per ben altri scopi e, non ultimo, per ammazzare il proprio
simile, il proprio conterraneo.
Dal primo libro, per
dimostrare la sensibilità nonché l’abilità del traduttore, si riportano questi
pochi versi: Vere novo, gelidus canis cum montibus umor / liqutur et Zephirus
putris se glaeba resoluit …, che l’interprete, ricreando la dolcezza del
paesaggio virgiliano, rende: a ogni nuova primavera, quando si liquefanno le
acque gelate e allo Zefiro diventano molli le zolle…Nella traduzione italiana
si avverte il lento, ma potente, risveglio della natura anche con l’efficace chiasmo
di acque gelate - allo Zefiro. L’ampio periodo, trimembre, segue ora il
ritmo della poesia italiana ora le clausole metrico-ritmiche della poesia e
prosa classica. Ciò contribuisce notevolmente a ricreare l’armonia imitativa
dell’esametro, che Virgilio, proprio con le Georgiche, sulle tracce della
poesia ellenistica, ha portato alla massima espressività. È vero che con Ovidio
l’esametro latino, partito da incerte e umili origini, acquisterà maggior
duttilità e scioltezza, ma presuppone il raffinato lavorio di Virgilio.
Per provare la valentia dell’interprete
e traduttore bastano questi pochi esempi, che qui, in maniera forse maldestra,
sono stati affastellati in modo acritico e raffazzonato. Ma quello che balza
subito all’occhio dell’esperto è l’utilizzo accorto ed equilibrato delle edizioni
critiche, che dei diversi autori nel corso dei decenni passati sono state redatte
da illustri latinisti e costituiscono un punto di riferimento anche per un’opera,
che, nell’apparenza, vuole essere solo divulgativa.
Tralasciati a malincuore i
poeti didascalici, si passa ad esaminare, seppur brevemente, i Poeti
satirici latini, un’altra pregevole opera di Luciano Domenighini. Satira
tota nostra est, la satira è tutta romana, scrisse con vanto Quintiliano,
un retore spagnolo vissuto a Roma sotto i Flavi. Non si discute in questo luogo
la differenza semantica, che intercorre tra satura e satira, perché,
per il particolare ambito di siffatta distinzione, condurrebbe necessariamente
a trascurare il traduttore.
Nell’accurata selezione dei
brani, Luciano prende, e giustamente, le mosse da Lucilio, il conditor,
il padre della satira latina. Lucilio è una pietra miliare, anche se Orazio ne
lamentava la fretta non l’arte, della quale il grande Venusino si è certamente
nutrito e alla quale, solo per un veloce riferimento, si è ispirato nella satira
odeporica, del primo libro e presente nel volume curato da Luciano.
L’acuta critica nonché l’ammirazione
di Orazio nei riguardi di Lucilio è contenuta in queste poche e meditate parole:
Lucilius, hosce secutus, / mutatis tantum pedibus numerisque, facetus / emunctae
naris, durus componere versus. / nam fuit hoc vitiosus: in hora saepe ducentos,
ut magnum, versus dictabat stans pede in uno…Luciano così rende le osservazioni
obiettive di Orazio, il principe della satira latina: da tutti costoro deriva
Lucilio, loro seguace, / mutati solo i ritmi e le misure, che era garbato / di
naso fine, ma grezzo e approssimativo nel comporre, / perché in questo era manchevole:
spesso in un’ora arrivava a dettare anche duecento versi…
Orazio, poeta dell’età augustea,
è quello che meglio e più di tutti ha interpretato le diverse sfaccettature
della cultura e della società romana, alla fine delle guerre civili, mentre Ottaviano
cercava con molta moderazione di imporre il principato, secondo le antiche e illuminanti
monarchie ellenistiche, che amavano circondarsi di uomini colti e illustri. Nell’ambasceria
inviata a Brindisi, per trattare con M. Antonio, la delegazione è costituita da
uomini di grande levatura culturale. Per cui gli esiti non potevano che essere sicuri.
Di Lucilio Luciano traduce
solo pochissimi brani, perché la voluminosa opera, prodotta dal cavaliere di
Sessa negli Aurunci, è andata tutta perduta. A noi, oggi, sono giunte le citazioni
trovate presso gli autori antichi, che si sono interessati a lui o hanno scovato
in lui un motto idoneo ad illustrare il loro pensiero o a suffragare una tesi.
La satira, oltre a interpretare
i malesseri o le aberrazioni della società, accanto alla denuncia, la pars destruens
in apparenza, contiene sempre, e comunque, la pars construens quella didascalica
sia espressa sia sottintesa, lasciata, per lo più, all’acume del lettore. Spesso
la satira è caratterizzata dalla gnome, che riporta un detto popolare o
un’osservazione dall’apparenza ovvia. La satira lungi dalla solennità del tono
eroico, piega l’esametro a un andamento colloquiale, al discorso che si sente
in bocca al personaggio sia esso colto o della strada. Per rendersene conto si
leggano i seguenti versi di Lucilio: Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum
/ quis in versamur, quis vivimus rebus, potesse…, che Luciano giustamente interpreta:
Albino, virtù è saper stabilire il giusto prezzo alle cose che viviamo e di
cui ci occupiamo. Non credo che qualcuno, leggendo questa osservazione, si
accorga dell’allusione, che Orazio in Sat., I, 1, 106-107 ricalca nei
seguenti esametri: est modus in rebus sunt certi denique fines, / quos ultra citraque nequit consistere
rectum, che si potrebbe
rendere: in tutto ci deve essere una misura; vi sono netti confini, al
di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto. Le osservazioni potrebbero
continuare, ma ci si addentrerebbe in discussioni tecniche, utili solo agli
specialisti del settore.
Nella
raccolta di Domenighini non poteva mancare la mordace lingua di Marziale, che
ha reso l’epigramma una vera opera d’arte. Prima con i poetae novi e
successivamente, in epoca imperiale, con Marziale l’epigramma è diventato una
forma espressiva raffinata e versatile, come nell’immensa produzione ellenistica,
certamente nota al versatile spagnolo. Non è, infatti, un caso che la raccolta,
per il tramite della tradizione manoscritta, sia giunta integra fino ai lettori
di oggi.
Ma
sono molto pochi coloro che si accostano alla sublime poesia dell’intramontabile
epigrammatista, l’attualità del quale è intramontabile. Si consideri il seguente
epigramma V, LXXXI, e qualche dotto di oggi dica che la sua pungente osservazione
non è attuale: Semper pauper eris, si pauper es, Aemiliane: / dantur opes
nullis nunc nisi diuitibus, che Luciano giustamente rende in italiano: Sempre
povero sarai, se povero sei, Emiliano. In questo tempo le ricchezze si danno solo
ai ricchi. Alzi la mano chi nega questa tremenda realtà, sferzante nella
chiusa coriambica.
Perché
le osservazioni non si protraggano troppo, ci si domanda chi è Luciano Domenighini.
Non è un professore né universitario, né di liceo: è un medico e, come non pochi
medici dei secoli passati, nutre l’amore per le belle lettere e, in modo particolare,
per il latino, la gloriosa e intramontabile lingua di Roma. Ci si augura che
molti, seguendo il suo esempio, ritornino alle radici della propria cultura, la
fecondità delle quali è foriera solo di beni autentici e intramontabili.
[1] L. Domenighini,
Poemi didascalici latini. (Traduzioni da Virgilio, Lucrezio, Ovidio), Segrate
(MI) 2017. Id., Poeti satirici
latini, Segrate (MI) 2019.
Non conosco il libro di Luciano Domenighini, però posso dire che l'ampia ed accurata analisi, anche descrittiva, dell'amico prof. Orazio Antonio Bologna ne ha certamente reso quanto meno il sapore. E da "antico" laureato in Lettere ad indirizzo classico -come allora si diceva- non posso non concordare con Bologna quando afferma, a proposito del latino, che non si può parlare di lingua morta, anche se non più parlata, ma di una lingua viva, almeno fino a quando ha un messaggio da veicolare. Io, per me, aggiungo che la lingua latina ha molti messaggi da veicolare, innanzitutto a livello glottologico, perché vive di suo in tutte le lingue che da essa derivano; vive ancora di più quando un qualsiasi curioso va ad indagare sulle radici di una lingua neolatina e ne scopre dipendenze, connessioni, contiguità, analogie con la lingua madre. Se poi questo curioso diventa anche studioso, allora il mondo latino dispiegherà per lui una ricchezza di sapere, di saggezza, di bellezza, di cultura, assolutamente ignota non solo all'uomo comune odierno ma anche a persone di qualche dottrina. Ben vengano, dunque, opere come questa di Domenighini se servono a rendere un qualche sentore della latinità e ad accendere interessi per una benemerita civiltà ultramillenaria.
RispondiEliminaComplimenti all’autore e al recensore.
Pasquale Balestriere