Francesco Casuscelli, collaboratore di Lèucade |
Una poesia che ci racconta i dialoghi intimi di
un padre e un figlio, figure che si mettono in relazione con le cose e con la
casa che li ha visti crescere in un tempo che si fa presente. Ombre che
accarezzano i muri e il focolare dove il fuoco arde e scalda le parole e le
memorie. Un tavolo di ciliegio intorno a cui si svolgeva ogni azione
quotidiana, le mani della nonna che si fanno pasta e leste rimuovono la cenere
che ricopre gli oggetti in rame. Le faville s’immillavano in alto ad illuminare
la stanza e anche i ricordi che il figlio traduce in questi versi carichi di
suoni di un linguaggio rurale ma sapienziale ancora vivo nei sui occhi che
attraversano lo spazio temporale. Ancora il freddo dell’inverno si presentava
alla finestra che entrava dalle fessure e suggeriva di guardare il disegno
cristallino sui rami della campagna, con filigrane candide come il latte. Il
racconto continua con la figura del nonno come se fosse un passaggio di
testimone tra generazioni. La sera il contadino sta all’erta dei rumori
inconsueti come un pollaio minacciato dalle faine e non c’è neve ne freddo che
possano sottrarre l’impegno per agire per la difesa dei propri beni. E qui lo
stupore del ragazzo consola la voce del padre poiché sa che il futuro
cancellerà tutto quello che ha rappresentato la sua vita. Qui prende la parola
il ragazzo divenuto ormai poeta che ha lasciato quei luoghi e canta la sua
nostalgia per quel tempo difficile e aspro ma ricco di umiltà, fatto di magia
che si esprime nel biancore della neve e nel freddo invernale che contiene le
storie della campagna. La poesia si conclude con la domanda al padre ma chi è
il padre? Forse è quel ragazzo che oggi racconta a suo figlio e a noi lettori quello
che il tempo ha sedimentato nel suo cuore e con occhi lucidi aspira a
tramandare il legame che unisce il fuoco di un camino alle ombre della sera
distese sul paesaggio e nelle stanze mentre fuori fioccano le voci della
campagna.
Una poesia lirica e ricca di rimandi ancestrali
che intesse il sentimento poetico con la narrazione delle figure della famiglia
e la casa padronale vero crogiolo della vita. Un dettato poetico coinvolgente
che con efficacia pennella parole immaginifiche che richiamano l’attenzione e
ci portano dentro la storia. Versi come le ombre del tempo da cui sortono le
voci dei luoghi della casa che hanno echi linguistici ancora fertili e si
riversano sulle pagine bianche come le orme delle faine sulla neve. Un canto
poetico in cui Pardini invita ad uscire dalle nostre abitudini che ci rendono
prigionieri del progresso e cercare di recuperare quel dialogo con le persone
care e con i luoghi che li rendono unici e inimitabili. Versi che questi giorni
di confinamento rendono ancora più urgenti di ascolto per dare all’uomo quella
dimensione di armonia con la natura dove l’uomo si nutre dello stretto
necessario che la campagna dona come frutto del sudore e non c’è accumulo ma
una semplice provvista per superare il corso delle stagioni.
N. PARDINI: "LA MIA CASA"
La mia casa
- Perché mi parli sempre di una casa
di due stanze con nell’ombra un po' in disparte
un focolaio a struggere un gran ciocco
pigramente; e di un tavolo nel centro,
smisurato, costruito con il legno
di un ciliegio reciso; e della nonna
a stendere la pasta al matterello
o a usare la ventaglia sul fornello
a carbone che spolverava cenere;
e degli oggetti in rame; e lungamente
di quel paiolo adorno di faville
che s’immillavano in alto. Le volte
che mi hai parlato della vecchia casa
in cui abitavi, padre, saran mille. -
- Ma guarda che mia madre era tua nonna,
anche se mai l’hai vista! E quel camino
era meraviglioso coi suoi schiocchi.
Sembravano dei fuochi d’artificio.
- Sì. Me l’hai detto. - - Allora ti racconto
dell’inverno mio amico. Penetrava
frusciando da fessure, s’inoltrava
nella stanza, poi andava alla finestra.
Alzava la tendina e in cuor gioiva
di vedersi l’autore, tutt’intorno,
di una campagna a stelle in filigrana
candida come il latte. Parlavamo.
Quante cose diceva. Poi tuo nonno... -
- Cosa faceva nonno? - - A tarda sera
andava con la torcia sulla neve.
Vedo ancora la scia. Io credevo
lo facesse per gioco. Quando vecchi,
si ritorna bambini. - - E invece? - - Udiva
gli schiamazzi di galline. Andava giù,
rumoreggiava intorno e le faine
prendevano la strada per i campi. -
- Le faine? - - Allora t’interessa
la mia casa. - - Sarei proprio curioso
di vederne le stanze, i campi bianchi
della neve notturna e i fiocchi lievi
fruscianti sotto l’occhio di un inverno
che racconta le storie. E tu ci andavi
nel candido cortile o per il prato
a sprofondare i piedi con tuo padre? -
da Alla
volta di Lèucade, Baroni Editore, Viareggio, 1999
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