Assaggi critici, di Pasquale Balestriere
(Genesi Editrice, maggio 2018)
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Nel maggio 2018 Genesi Editrice ha dato alle stampe "Assaggi critici" di Pasquale
Balestriere, Primo Premio I Murazzi per
l'inedito dello stesso anno, indetto dall'Editrice. Nell'opera, la raffinata
intelligenza critica dell'autore ha avuto modo di sbizzarrirsi prendendo spunto
dal poeta latino Orazio, conclamato maestro di eleganza nel circolo di Mecenate.
Successivamente lo studioso ha esteso lo sguardo su alcuni massimi protagonisti
della letteratura del Novecento, come Dino Campana, Pasquale Festa Campanile, Giorgio
Barberi Squarotti, per giungere ad alcune voci di autori viventi di spicco,
come Spagnuolo e Ruffilli, e concludendo infine con altri validi scrittori
italiani.
Confesso di essere
stato combattuto se parlare di questo saggio, o meno. Un certo pudore
m'impediva di farlo perché fra gli autori commentati figura anche il mio nome
(e ne sono molto lusingato), ma il lavoro di Balestriere è importante e merita
di essere evidenziato a prescindere da questa considerazione personale. Dunque mi
sono deciso a farlo. Come dicevo, gli Assaggi
critici si aprono con pagine di grande spessore investigativo sul poeta
latino Orazio, vissuto nel primo secolo avanti Cristo in una fase cruciale
della storia romana, tra Cesare e Augusto, tra la fine della Repubblica e
l'inizio del Principato che aprirà le porte all'Impero.
L'autore passa in
rassegna varie opere del grande venosino (dalle Satire agli Epodi, dalle Odi alle Epistole) e si diffonde in pagine esemplari sulla radice epicurea, con
venature stoiche, della sua poesia squisitamente armonica, "aliena da
estremismi clamorosi e forse anche velleitari", a dispetto dell'inquietudine
e dell'angoscia da cui è attraversata, in considerazione soprattutto del tempo
che fugge e della natura mortale. C'è poi tanto spazio per l'eros, intensamente vissuto, ma sempre
limpido e privo di foschie, per non dire del vina liques di cui il poeta è grande conoscitore: di quel vino che
rallegra, donando "serenità d'animo ed equilibrata adesione alla
vita". Da qui il carpe diem, invito
a godere dei piaceri della vita senza abusarne.
"Qualcuno,
sostiene Balestriere, potrebbe essere indotto a pensare a Orazio come a un
libertino. Niente di più falso". Il suo messaggio, infatti, è di
"vivere in modo onesto e tranquillo, sobrio e vero, con coraggio e
parsimonia, con civiltà e lealtà, difendendo la giustizia, la religione e la
patria, confidando nella missione imperiale di Roma nel mondo. E consiglia
morigeratezza alle matrone e grande serietà, anzi severità, nel processo
educativo dei futuri cittadini e soldati". Ligio ai dettami epicurei, che
qui curiosamente sembrano coincidere con quelli dell'ascetismo nirvanico, egli
si tiene lontano dalle passioni che danno dolore, prodigandosi per il dominio degli
istinti e della vita sentimentale.
Dopo questo primo assaggio critico, dedicato ad un poeta
classico universalmente noto per il senso della misura e dell'equilibrio, lo
sguardo di Balestriere si sposta, con un salto di millenni, verso un autore contemporaneo,
Dino Campana, fautore di una poetica diametralmente opposta, visionaria,
allucinata e folle, titanica, pervasa da "onirismo evocativo e
medianico", che fissa "una realtà profonda e oscura che reclama di
essere condotta alla luce". Fascinosa espressione dell'Orfismo
contemporaneo, questa poetica tenta morbosamente di catturare gli dei fuggiti
dal mondo, senza ovviamente riuscire nell'irrealizzabile impresa.
Altra cosa è la
sana, frizzante e sorridente follia del carpe
diem, quel lasciarsi andare di
Orazio ai sani piaceri, ma la storia dell'equilibrio è ovviamente pervasa di
squilibri da equilibrare: un equilibrio mai statico, ma sempre in azione. E
arriviamo al terzo cardine di questo stimolante elaborato, dove l'occhio
investigativo si sofferma su un personaggio fondamentale della letteratura dei
nostri tempi: Giorgio Barberi Squarotti, l'agguerrito critico che tutti
conosciamo, di cui si esaminano alcune sillogi elaborate tra il 2006 e il 2011
in un surrealismo fluente e immaginifico, sostenuto da stile limpido e
controllato. Un amante della bellezza, Squarotti, femminile soprattutto, che
dipinge la serenità in punta di penna ,"pur
se, al fondo, non si fatica a trovare la consapevolezza della sofferenza e
della violenza che intridono la vita".
Subito dopo lo
sguardo si appunta su Paolo Ruffilli, cui sono dedicati ben tre capitoli, con
l'analisi di quattro testi fondamentali: due in versi,"Affari di cuore" (2011) e "Natura morta" (2012), e due in prosa, "Un'altra vita" (2010) e "L'isola e il sogno" (2011). "Poesia
come processo creativo ma, prima ancora, come atto cognitivo", dice
Balestriere, purché non si pensi ad una conoscenza teoretica, bensì ad una
conoscenza come consapevolezza di vita, esperienza vissuta, reale. "Poesia
che si fa cosa", commenta, a proposito di "Natura morta", mentre per "Affari di cuore" evidenzia il "linguaggio
spudoratamente nuovo e inedito nel dire dei sensi e dei sentimenti, di impulsi
e di battaglie, del cuore gonfio di sangue vitale, di vene e arterie che
pulsano impazzite".
"Una descensio ad inferos fin nel magma tumultuoso
della passione", aggiunge, dove tuttavia regna incontrastato "il
verso breve, talvolta scolpito in tre/quattro sillabe, che dice l'ansimo della
passione, lo scoppio dei sensi". E parlando di "Natura morta", specifica: "Ruffilli è tanto
smisurato nel sentire quanto asciutto nell'esprimere, convinto com'è che la
poesia non possa essere altro che sottrazione estrema, anche feroce".
Occorre tuttavia che qualcosa da sottrarre ci sia: quel vulcano di tumulti
interiori, quel tornado di sentimenti e passioni da illimpidire, solo
apparentemente lontano dalle onde tranquille e dall'aurea mediocritas dello spirito oraziano. "Dire tanto con
pochi segni", ripete infine, soffermandosi su "Un'altra vita".
Rigore ed emotività
fusi in un solo respiro, per citare un noto motto di Braque a proposito della
pittura: programma assai caro allo studioso ischitano impegnato in altro campo
espressivo. Ne "L'isola e il
sogno", da lui definita labirintica, con riferimento alle travolgenti passioni amorose e politiche di
Ippolito Nievo, il poeta garibaldino morto naufrago nel mare di Ischia nella
notte del 4 / 5 marzo 1861, in realtà Ruffilli - così argomenta Balestriere - concede
molto più spazio alla parola che non in altri suoi elaborati. Ma subito aggiunge
che "la sua scrittura, pur sempre sobria, composta e quasi severa, ma meno
laconica, nulla perde in intensità... in urgenza o in efficacia".
Quale sia pertanto
l'ideale estetico di Balestriere, risulta evidente. Sta tutto nell'urgenza di
chiarezza e di rigore formale - che è anche morale ed intellettuale - imposto
all'onda emotiva dall'esercizio della scrittura. Ciò che più sta a cuore allo
studioso, in queste attente disamine, è l'istanza di equilibrio tra il dentro e
il fuori; l'incontro del conscio con l'inconscio sul piano scritturale; la familiarità
tra il livello discorsivo dei segni e quello dei sogni e dei moti interiori. Turbolenza
e austerità in equilibrio tra di loro. Ed è da queste premesse, improntate a
un'esigenza di profonda armonia, che si sviluppa l'appunto riservato a un'opera
demitizzante e dissacrante di Pasquale Festa Campanile, "Uno strano amore" (1983), Premio Campiello dell'84.
Questa narrazione
tende all'umanizzazione di personaggi agiografici come San Giuseppe e la sacra famiglia, sfatandone la valenza
sacrale loro assegnata dalla tradizione. Dice Balestriere che l'orizzonte d'attesa di Festa Campanile,
da intendersi come "pubblico a cui rivolgersi", è quello della società
materialistica e consumistica dei tempi attuali, e ciò è un bene, ma la contaminatio risulta alla fine
sgradevole, per cui il critico si chiede "se valesse la pena che l'autore
operasse tale scelta discutibile", mentre "avrebbe potuto scegliere
di scrivere una storia ex novo".
Un'opera, secondo Balestriere, che, pur notevole sotto il profilo scritturale, penalizza
la valenza mitica e leggendaria necessaria per storie di tal fatta, e perciò
risulta sbilanciata.
Dopodiché sfila una
carrellata di validissimi autori in pagine di grande acume e forte
partecipazione emotiva. Si parte da Maria Ebe Argenti, che in Dell'anima e del cuore "esorcizza
il male e lo risolve in occasione di riscatto, in motivo di canto", per
giungere a Carla Baroni che, in Rose di
luce offre una visione della morte "che non ha nulla di tragico"
e "nulla di orrendo", e che "si esaurisce nel trionfo della
luce", dacché "la poesia è sempre poesia della vita. Anche quando
parla della morte". Segue l'esame di ben quattro raccolte di Giannicola Ceccarossi
(in particolare Dove l'erba trasuda
narcisi del 2014), "testimonianza di un animo umanamente inquieto, che
cerca... la composizione, e forse il totale superamento, degli affetti terreni
in una dimensione... iperurania, se non propriamente spirituale e
sacrale".
Quindi è la volta di
Umberto Cerio (La luce o del gioco delle
memorie, 2016), con la sua poesia che "rampolla dalla vita reale, con
il suo carico di gioie e di dolori... (e) se ne solleva, depurandosi del
torbido e delle scorie dell'hic et nunc e
cercando una dimensione spirituale... in una recuperata misura di saggezza...
Perché la luce e il buio come la vita e la morte sono complementari, proprio
come facce di una stessa medaglia". Ed eccoci a Nazario Pardini, di cui si
analizzano due intense raccolte poetiche (Foglie
di campo, aghi di pino, scaglie di mare, del '93, e Alla volta di Leucade, del '99), dominate dal "motivo del
ricordo e del rimpianto... in un contesto naturale - elegiaco e insieme
georgico - ... dove si realizza e trova compimento un tipo di poesia... che
erompe da pienezza di cuore e da tripudio d'affetti".
Una poesia, quella
di Pardini, ricca di colti richiami "per una sottesa solida filosofia che
aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro
precarietà". Balestriere dedica
un secondo capitolo al poeta toscano, prendendo in esame l'aspetto esegetico della
sua scrittura, di cui coglie la valenza squisitamente intuitiva ed estetica,
"prevalente sul dato puramente critico", soffermandosi su Lettura di testi di autori contemporanei
del 2014. La carrellata continua con Gianni Rescigno, di cui l'autore esamina Un sogno che sosta (2014), soffermandosi
su una poetica "votata all'essenzialità", nonché all'intreccio di
realismo e simbolismo, di lessico quotidiano e parlar figurato, in un binomio
strettissimo di terra e cielo, di sangue e spiritualità.
Altra voce poetica,
quella di Serena Siniscalco, dei cui Poesiari
(in particolare Il Poesiario IX,
2014) il critico apprezza la sobrietà dei toni, "la serietà, lontana dagli
estremismi, sapida di humanitas, con
qualche punta di piacevole ironia". Quindi è la volta di Antonio Spagnuolo,
con Oltre lo smeriglio (2014), un
canto orfico, tenero e disperato, dedicato alla donna scomparsa, alla sua
assenza/presenza "dolcemente ingannevole, amaramente reale". Ed ecco
infine Inventario di settembre (2015),
di Umberto Vicaretti, metafora dell'"autunno della vita", di cui si
esaltano il labor limae e ancora una
volta l'ideale di classicità. Di questo ideale si torna a parlare in dettaglio
nell'ultimo capitolo, dopo aver affrontato, in L'accento nella traslitterazione del Greco antico l'interessante
discussione filologica della corretta dizione di termini il cui uso gergale si
discosta dalla grammatica.
Per quanto concerne
il capitolo conclusivo, trovo molto stimolante, infine, il seguente pensiero,
denso di sviluppi riflessivi: "certamente parametro di bellezza, armonia,
pulizia, ordine interiore, misura, (la classicità) non va però imitata, ma...
rivissuta, senza rimpianti e nostalgie e, nei limiti possibili del nostro
tempo, reinterpretata, ricreata e riproposta... nella sua profondità, nei
valori essenziali che sono quelli dell'humanitas
nel senso più ampio del termine. Intendo dire che i classici non sapevano di essere
(o che sarebbero stati ritenuti) tali: non erano certo chiusi in una torre
d'avorio (dove poi li ha incastonati, relegati e cristallizzati un'ottusa
ammirazione) ". Un'estensione davvero ammirevole del concetto di
"classicità", fino a diventare sinonimo di "umanità" (di humanitas), nel senso più pieno e sempre
attuale del termine.
Franco Campegiani
L'ho già detto in privato e lo ripeto qui su Leucade: l'amico Franco Campegiani ha percorso il libro con pazienza e sapienza, con diligenza e dottrina; ne ha detto con chiarezza e partecipazione struttura e contenuti, squadernando l'opera davanti agli occhi del lettore e mettendolo in condizione di capirne, pur senza averla letta, le caratteristiche fondamentali, in termini di note critiche e spunti esegetici.
RispondiEliminaIn poche parole Franco ha colto e sottolineato, con la ben nota acutezza, gli aspetti salienti del libro, come appunto una nota recensiva deve fare, e li ha offerti al lettore con generosa dovizia.
Grazie infinite a Franco per il notevole impegno profuso in questa non facile operazione; e affettuosamente grazie a Nazario per lo spazio messo a disposizione.
Pasquale Balestriere
Mi complimento vivamente con questi due notevoli studiosi-Balestriere e Campegiani_ che alla competenza e bravura uniscono quella importante dote che si chiama chiarezza..
RispondiEliminaGrazie!
Edda Conte
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaCaro Franco, grazie per aver ricordato nella tua recensione anche i "piccolini" come me, inseriti nei saggi di Pasquale per la grande magnanimità dell'Autore. Però essere stata messa accanto ad Orazio, anche soltanto per locazione cartacea, fa sì che mi dia delle arie.
Ciao e grazie
Carla