M. Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
Maria Grazia Ferraris, studiosa e attenta
divulgatrice dell’opera rodariana, si accinge a illustrare e a ricordarci, a
cento anni dalla nascita del poeta, la molteplicità scritturale, la apparente semplicità metrico-esistenziale, gli intenti
più nascosti, e soprattutto quelli che erano i suoi desideri più segreti:
scrivere per adulti. Ma in effetti tutta
la sua opera lo era. Non c’è riga dei suoi canti da cui non si possa trarre motivo
di riflessione sugli uomini; sul loro esistere; sul loro comportamento, eros thanatos,
vicissitudini, piaceri e dolori. Poesia complessa, totale, umanamente
indagatrice, la sua: le radici, il memoriale, il sociale, l’autobiografismo…
Numerose possono essere le chiavi di
lettura. E nei messaggi poetici fa
sempre intendere che tutti siamo stati bambini ma pochi sono quelli che se lo
ricordano. La Ferraris, con proteiforme versatilità, con acribia culturale, e
con plurale competenza, ci spiattella nel suo saggio le varie tappe di questo
autentico e vero scrittore che mai dimentica di essere uomo, di possedere quei
valori che ci fanno essere umani, nel bene e nel male. Credo che la letteratura
critica abbia interpretato parzialmente lo spirito di Rodari; che non abbia
capito fino in fondo la grandezza sociale, estetica ed etica di questo autore;
la sua modernità, la sua attualità, il suo essere innovativo, sia nello stile
che nel suo racconto-apologo.
In ogni sua poesia
c’è un insegnamento forte e audace, semplice e naturale: la storiografia
avrebbe dovuto insistere su questo aspetto. Ciò che fa la Ferraris mettendo in
evidenza la peculiarità della sua funzione col ricorso alla rotondità della
vena ispirativa, all’unicità e profondità dei suoi scritti che, pur operando a livello didascalico, mai vengono
meno a quello che lo spirito del canto pretende: libertà, sentimento,
ispirazione, musicalità, semplicità comunicativa, partecipazione e vita: il
fatto di esistere che in lui sfodera tutta la sua complessità, con l’inquietudine,
la turbolenza, il malum, lo splenetico travaglio esistenziale. Tutto questo
emerge dalla sua produzione ed è con il suo
stile, parole giusta nel verso giusto, che sa trasmettere la
pluirivocità dell’esserci, facendo della natura una coadiutrice assidua nel
reificare sentimenti e pensieri. Così conclude la Ferraris toccando il nerbo
scoperto della questione: “… E’ davvero quella di
Rodari la testimonianza di un uomo
inquieto, che ha lavorato e faticato, senza desistere, ma che sa che il
mestiere più difficile è forse quello di vivere, e dare senso alle nostre
vicende, ai sogni e alle rinunce, e giunto alla fine del viaggio, che
presagisce ormai prossima, anche se senza meta definita, in un qualche modo- un po’ amaro, ma anche
scanzonato e ironico- doloroso, incoraggia, corteggia la morte. Eppure nella
sua vita si è sforzato continuamente, insistentemente di “rubare una rosa al padrone di casa”, di
“respirare la sua parte di mattino /alla finestra della primavera”. Anche la
primavera però sa essere crudele.
“Pendono
squarciate le ali/ dell’eucalipto/ non
volerà più/
nel
cuore dei venti/ il grande uccello vegetale. Ma /
gli
è rimasto un ramo,/ un grido verticale:/
nel silenzio sordo del mondo/ la bellezza
non tacerà.”
Nazario
Pardini
L’altro Rodari: la forza della poesia, di M. Grazia Ferraris
Sembra che su Gianni Rodari (1920-1980) a cento
anni dalla nascita, non ci sia ormai più niente da dire. La bibliografia sulla
sua opera è corposa, sia per la ricostruzione biografica, sia per l’analisi pedagogica, sia per le analisi linguistiche raffinate
intorno al suo stile, al suo racconto e alle sue filastrocche , che sono state
magistralmente condotte da T. De Mauro e da A. Asor Rosa. Analisi didattiche e
pedagogiche sono state compiute su tutti i suoi libri. La scuola l’ha
saccheggiato.…
G. Rodari è entrato definitivamente nel canone
letterario di <scrittore per l’infanzia > e come <uomo politico nella
sinistra storica > italiana. Due etichette: indubbiamente vere, ma
sicuramente riduttive che non ne rispettano la complessità umana e culturale.
Manca uno spazio autonomo per lui nella storia della letteratura italiana, dove
possa apparire nel posto che merita, nel capitolo Letteratura fantastica,
e nella Storia linguistica del nostro
paese, per il contributo che ha dato dopo gli anni Cinquanta alla diffusione e valorizzazione della lingua
italiana; compare solo nel capitolo, che
sa molto di provvisorio e di incerto, di “ Letteratura di confine”, come appare
oggi nella grande e per molti aspetti
meritoria letteratura Einaudi. Nessun rilievo è dato alla sua poesia.
Lui di sé poco parla in prima persona. Forse
l’avrebbe voluto fare verso la fine della sua vita, quando dopo le poesie
uscite su Il Caffè, nel ’68, manifestava qualche timida intenzione, di
pubblicare poesie per adulti, svelando il suo “amore segreto”:
Amore segreto / segreta purità / come un fiume
interrato/ che per grotte d’abissi/ sotto il suolo scorrendo/ un giorno
eromperà, vedrà la luce/ e la specchierà cantando fra le rive/ e ora è un buio gorgoglio/e ignari della sua
passione sepolta / sulla terra uomini e case / tramonti e vergogne / e le stagioni si battagliano, /così per anni
tu e me poesia / terribile parola / segreta nobiltà della mia vita / forza che
turba i giorni più tranquilli / che incrina i vetri delle cento stanze/gli
avvenimenti quotidiani/ e il suo grido imperioso e misterioso / erompe improvviso, / a te si deve obbedire /cedere
il passo all’onda che si gonfia / e per seguirla accettare / di
scomparire-giurare obbedienza/ sorgi e cammina,/ chiama, riannoda il filo
ininterrotto
Impiegherà molto tempo per ammettere questo
amore irrinunciabile, avvicinandosi alla poesia con grande serietà e umiltà. Un
esempio di questa sua ritrosia, lo possiamo cercare nelle parole che ricordano
il suo esordio poetico: semplicità, quasi umile ridimensionamento, umorismo
disincantato: “Facevo la terza elementare a Omegna, sul lago d’Orta, dove sono
nato, quando scrissi su una carta assorbente i miei primi versi….La maestra lo
mostrò al direttore. Ne venne pubblicata una…Questo fu il mio massimo successo
in ogni tempo come poeta. Anche perché, raggiunta l’età della ragione e fatta
conoscenza con le poesie di Montale, Saba, Ungaretti, Gatto, Quasimodo, ebbi il
buon senso di capire che non avrei mai saputo scrivere cose tanto belle e smisi
del tutto di scrivere.”
L’umorismo è una maschera graziosa, bonaria,
allegra e arguta, divertente dietro la quale si celano i suoi dubbi severi, i
suoi problemi esistenziali e filosofici, le utopie che ha continuato a
corteggiare, i paradossi surreali che aprono la strada al metafisico, la sua
coltivata modestia, da schivo pensatore.
“Avevo diciassette anni quando feci il
proposito di starmi zitto, e uscivo dall’istituto magistrale per rientrare
nella scuola dalla parte della cattedra, invece che da quella dei banchi. Ero
troppo giovane per essere un buon maestro…A quell’età, come tutti i giovani, mi
dedicavo soprattutto a me stesso, ai miei studi, alle mie letture, alle mie
fantasticherie.. spero almeno di essere stato un maestro divertente. Difatti
raccontavo storie…. Anni dopo lasciai la scuola per il giornalismo. …Quando un
editore mi propose di raccoglierle in volume, ebbi di nuovo una pensata di buon
senso, e invece di intitolare il libro <poesie> lo intitolai
<filastrocche>....I miei prodotti finiti- siano filastrocche o favole-
amo considerarli come giocattoli. Un buon giocattolo ha un posto importante…:
mette in moto energie, fa lavorare, fa discutere, qualche volta fa anche
pensare.
Ma la poesia in senso alto rimane la costante
ricerca della sua vita. Il primo approccio è quello più intimista, il recupero
del suo mondo affettivo. Poco disposto a
concedersi, ritroviamo lo stesso tono
dimesso, quasi evasivo, di nascondimento, allerta, senza mai esibizione, di
antica ansia, toni e atmosfere fondamentalmente dolorose.
I
ricordi personali affettivi si mescolano con la storia della miseria della vita
quotidiana di fine secolo nei nostri paesi- Omegna e Gavirate -, con
l’emigrazione in atto e col ricordo dei primi moti socialisti della Lombardia,
del ‘98. I genitori erano infatti lombardi, originari della Valcuvia. Giuseppe
Rodari, il padre, nato nel 1878, come tanti giovani di quel tempo aveva
lasciato la sua terra per cercare lavoro, dapprima ad Intra poi a Piedimulera
in Piemonte, riuscendo poi a mettersi in proprio, con un forno da
panificazione, ad Omegna, sul Lago d’Orta.
Il padre
morì sul finire degli anni venti. Rodari lo ricorda in vari modi; dal più intimo:
“… seduto su un sacco di riso violone vuoto a
metà, con gli occhiali dalle lenti ovali sul naso che ora è mio, fornaio e
anticlericale, l’uomo che chiuse gli occhi
per non vedermi vestito da Balilla, l’uomo che rivedo ogni volta che
guardo il campanile di Omegna. Stessa espressione severa e ironica, stessa
disperazione saggia e ostinata. Stessi occhi, campane a parte.” , al più
affettuoso:
“ L’ultima immagine che conservo di mio padre è
quella di un uomo che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il suo forno.
È fradicio e trema. È uscito sotto il temporale per aiutare un gattino rimasto
isolato tra le pozzanghere. Morirà dopo sette giorni, di bronco-polmonite. A
quei tempi non c’era la penicillina , al più melanconico, in un componimento
poetico, pubblicato postumo da Einaudi, un ricordo lontano che affiora
involontariamente durante un viaggio nell’URSS del ’79, dove si era recato per
studiare il mondo infantile di quella vasta regione e si concentra in un grumo
dolente di ricordi personali di un rapporto dolorosamente felice, finito troppo
presto.
Oggi ho rivisto mio padre…./Ho visto
d’improvviso,/mio padre bambino, /
lontano da casa, diviso dai suoi,/operaio di
otto anni in un forno /tra le dure montagne dell’Ossola./Io l’ho riconosciuto
nei bimbi sorridenti/che mi offrivano danzando il pane/della festa d’autunno, mi
ha chiamato per nome dalla cupola dorata/ di quel grande, bellissimo pane: così
sogna il pane chi ha fame/ e solo in sogno ne sente il profumo. Era contento,
mio padre, e cantava/con le acute voci infantili/ come non l’ho mai udito
cantare, quando era in vita./Nel mio cuore batteva forte il suo. Grazie, amici,
per il dolce pane,/per i ricordi dolci e amari,/per mio padre bambino solo con
la sua fatica/ a impastare nel dolore /il pane degli altri.
Verso la fine della sua vita il ricordo di
entrambi i genitori si unisce in una lirica che riassume ed unifica passato e
presente, e che dà peso affettivo , ma anche consapevolezza alla sua
privatissima storia personale, includendo in questo bilancio anche i suoi amati luoghi di nascita e di
formazione adolescenziale:
Sono un uomo senza passato/ e me ne infischio
del mio passato/
il mio passato è una bambina/ di sette anni che
andava in cartiera/
e che io ho chiamato madre/i miei casi
meschini/sono meno che merda/ di fronte alla sua paura alle sue piccole gioie
così piccole/ che la storia non potrà registrarle nel mio passato c’è un uomo/
che ha impastato milioni di pani e che io ho chiamato padre../ la sua docile
morte…
……. le montagne sono il mio passato i laghi
prealpini e i loro pesci/ le stelle e i loro pianeti le candele e i loro
altari/ le trottole i mitragliatori/ i nidi delle processionarie… io sono il
mio passato…/me ne infischio del mio nome/
posso
perdermi senza rimpiangermi.. come si perde il sole ogni sera/ come si perdono
le parole con cui si finge di vivere/ di essere un tale, quel tale, questo
tale,questo stronzo.
E il peso dei ricordi è inteso come fonte di
dolore e di poesia :
Ricordi, ciarpame, cascame,/ ma io posso
sconfiggerti, memoria / perché a tuo dispetto, con rabbia e furore/ nel mucchio
dei rifiuti/ posso scegliere,/ con mano furente il filo trovare / che mi lega
agli uomini/ alla storia / al Kaiser, a Hitler a Gengiskhan / agli Albigesi, a
Dachau alle pietre/ che hanno bevuto il sangue di Thälmannn..…. Vattene,
memoria, / andate via, ricordini, patetici / croccanti delle sagre padronali
file di castagne arrostite infilate,/campane, prati, ragazze, laghi/ autunni,
primavere, boschi/io non vi accetto.
Ricordi, studio, meditazione, affettività che
si avvitano sul rimosso e si liberano. C’è posto importante anche per
l’inconscio e i suoi conflitti, l’esperienza, la memoria, l’ideologia, la
parola nelle sue variabili e funzioni.
Della sua famiglia di formazione, moglie e
figlia, ci parla poco. Il privato, l’intimità,
tale devono rimanere.Tenerezza e affettuosità sono vivissime, ma anche
queste permeate di preoccupazioni, di un senso intimo, inconfessato, di inadeguatezza. Raccontano della figlia neonata in una poesia
inedita e dell’affetto per la compagna della sua vita:
Se un giorno alle stelle si daranno nomi nuovi,
io ne prenoto uno, una vispa stellina alla destra della Luna,per darle il nome
della mia bambina La mia bambina sorride nel sonno,/..come un sorriso
dimenticato con i piccoli pugni chiusi/ difende la sua cuccia, il suo respiro.
Tutto quello che ora le sussurro/ non le arriva
là dentro, le più dolci parole le girano intorno/ come farfalle lenci sulla
zanzariera scaldano il buio perché non le pesi sugli occhi/ e le dicano le più
belle bugie per farle diventare vere.
Per la moglie: .. ma tu sei ben viva /e nostra
figlia è vera / e sono veri i bambini di tutto il mondo e vero è il dolore/che
bisogna cancellare/ vera la morte/ che bisogna morire vero l’amore/ che bisogna
inventare
Le parole più forti sono quelle della paura e
dell’ansia che vuole esorcizzare, (dolore , morte, amore da inventare,
tormento, sforzo di esistere),delle illusioni cui vuole volontaristicamente
credere in un momento felice, (farfalle lenci, belle bugie), quelle dello sforzo eroico della volontà che
cancellino l’impotenza e il male di vivere.
E più tardi, quando la figlia cresce e comincia
a fare le sue scelte autonome:
Il gioco di fare da sola/ è quello che più ti
tenta/ e già non vuoi che ti tenga la mano/ e ogni giorno vai più lontano/ per
questo sono così pronto/ a dirti sempre di sì/ per ripagarmi fin d’ora/ del no
che mi dovrai dire/ per essere giusta con te stessa.
Sapienza e vasta cultura. Nessuna ottimistica
fiducia nella leggerezza del gioco. Nell’illusione della idealizzazione.
Neppure in quelle davvero favolose novelle in cui il gioco della fantasia e del
paradosso sembrano catturarlo completamente. Dietro alla trovata grottesca,
ironica, traspare la carica del severo osservatore, dello psicologo
introspettivo, del moralista infelice, del naturalista pessimista. Riserbo, scarsa condivisione della propria
intimità, dolore inconsolato che tenta costantemente di razionalizzare sono le
sue costanti.
Come quello per la perdita degli amici. Due
soli amici che rimangono come punto fermo della sua affettività privata, Nino
Bianchi e Amedeo Marvelli, purtroppo morti giovanissimi: ritornano al suo
ricordo durante il viaggio in Urss del ’64, nella poesia Il treno del Caucaso:
A. dorme in terra russa / ha tutte le Russie
per cimitero/ e una tomba grande come il mondo, / se c’è un mondo grande come
una tomba, /una steppa intera per un ragazzo / avvolto in un lungo mantello / gonfiato
dall’astuccio del suo violino / parlavamo di Kant…,pedalando / tra le verdi
colline / azzurro il lago dorato il vino / ero inquieto a lui daccanto / perché
non sognava / né si disperava” ed io rimasi solo…solo e atterrito/ come
l’uomo che si sveglia in treno/ e capisce che non tornerà dalla guerra.
Non ci sorprendono quindi la malinconia, la
solitudine, il pianto inconsolato, l’infelicità, l’addio irrevocabile ai sogni
della gioventù, tale da rasentare il nichilismo, della poesia che ha dedicato a
Gavirate:
L’autunno è la mia patria,/ riconosco i suoi
monti/ e gli alberi di cui ritrovo i nomi./I loro volti sereni e severi/ come
per anni li ho portati in cuore
senza sospetto ma non senza piangerli/
oscuramente. Ritrovo i sentieri che furono miei,/ riascolto il vero suono del
mio passo. Questa è stata la mia giovinezza,/ questo bosco prigioniero dei suoi
rami, nutrito dai suoi profondi odori,/ vivo di mille morti,…il capanno in
fondo alla pioggia. Non mi inganno, vi amo,/ amata prigione che odiai,/ dove
solo i ricordi giacciono in pace,/ricordi di ricordi, impietose menzogne/ che
la pietà di me mi fabbricava/per consolarmi di un meschino rifugio.
La
poesia è però anche speranza, forza di volontà, impegno, emozione
politica, sentimento, passione autentica di quegli anni- siamo nel
1955-, quando come direttore di <Avanguardia>, organo della federazione
giovanile comunista, in occasione dell’80esimo compleanno di papà Cervi
scriverà :
Vecchio nodoso come un olmo antico,/ pianta
potata dei suoi sette rami,
che dura scorza gli anni ed il nemico/ han
fatto al mio volto, alle mie mani.
I Cervi, è buona terra: ara, nemico,/ affonda
il vomero nelle mie carni,
coi pugnali dell’erpice colpisci:/ morte non
puoi darmi, male non puoi farmi.
E’ buona terra questa carne antica,/ mieti,
nemico, le mie sette spighe:
il grano non muore nel pane,/ non sono morti i
miei sette figli
che hanno dato la vita alla vita. In tutto ciò
che vive sono vivi,/ in tutto ciò che spera sono vivi, in tutto ciò che soffre
e lotta e vive/ i miei figli sono sempre vivi
Accanto a questo grande nucleo di poesia intesa
come emozione, espressione diretta dei sentimenti assistiamo in Rodari anche a
una meditazione sul ruolo, significato, necessità della poesia nella nostra società.
A Roma, in piazza dell’Argentina, /suona un
ciechino la fisarmonica.
Si ferma la gente ogni mattina /a quella musica
un po’ malinconica. Prima di correre a lavorare,/ prigionieri in una stanza, gli
impiegati si fermano a fare/ provvista di musica e di speranza. Quando finisce
la canzonetta/ si ricordano di avere fretta.
È vero
che le poesie sono come bolle di sapone, ma
salgono verso il cielo, come una preghiera, come una favola, piena
d’ogni dolcezza che non si può perdere…giacché…
non ci sono abbastanza plotoni
d’esecuzione/ in questo mondo e in ogni
altro
per fucilare le bolle di sapone… Ed anche
quando si conquista orgogliosamente la Luna, bisogna essere molto cauti….
Sulla Luna, per piacere, / non mandate un
generale:
ne farebbe una caserma / con la tromba e il
caporale.
Non mandateci un banchiere / sul satellite
d’argento,
o lo mette in cassaforte / per mostrarlo a
pagamento.
Non mandateci un ministro/ col suo seguito di
uscieri:
empirebbe di scartoffie / i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta / sulla Luna ad allunare:
con la testa nella Luna/lui da un pezzo ci sa
stare...
Il mondo in cui viviamo del resto, così
affannato, poco attento ed educato, si
presta malvolentieri ad aprire il cuore alla poesia.
Ed ecco
emergere il pessimismo rodariano come in
“Situazione impoetica” :
E’ difficile leggere i poeti / in una casa
senza pareti
Il cristallo di Juan Ramon / lo sbriciolano le
motorette,
lo friggono le canzonette / Gatto, Montale o
Pasolini,
come distinguere le loro parole / dall’audio
dei vicini?
Povero Esenin, povero Pasternak, / sulle loro
betulle / fioriscono i detersivi.
Zanzotto, Sanguineti, / dai vostri versi
schizzano / confetti purgativi.
È la vita un mistero / o un telequiz a
gettoni?….
Eppure non si deve desistere,
scoraggiarsi: la poesia è anche azzardo,
il desiderio e volontà di salvarsi, speranza di cogliere l’autentico nella
banalità delle norme, dei doveri e delle
prescrizioni del quotidiano:
Ho rubato una rosa / al padrone di casa. La
primavera fa l’uomo ladro,/ la primavera e la finestra ventosa e l’aria di
mille amori invasa la mia parte di mattino ho respirato / alla finestra della
primavera ho pagato l’affitto / ma la rosa l’ho rubata
La vena surreale che si consolida sempre più
nel tempo gli fa immaginare la Poesia come una allegoria, che non può fare a
meno della sua componente ossimorica:
uno splendido pianoforte a vela. Ne ribadisce la forza nella storia
fantastica di un pianoforte a vela che unisce paradossalmente le caratteristiche
del fascino dello strumento musicale, antisentimentale e affamato d’ideale, con
la leggerezza della vela che corre veloce e leggera sul mare. È l’
allegoria della pesantezza e arretratezza della cultura ufficiale, che non sa
alzare un’unica, ideale bandiera, ma solo rafforzare le pesanti difese e della
cultura accademica e l’espressione della speranza che, nel paradosso
fantastico, la poesia salvi se stessa allontanandosi nel sole, armata solo di
dissonanze a lunghissima gittata.
C’era una volta un
pianoforte a vela / che navigava di porto in porto,
sempre sul mare, vivendo di musica e di pesca,/
strumento di marea e non privo di ancora,… temperamento sportivo e
dodecafonico/ che aveva giurato eterno odio ai romantici e ne sconsigliava
l’ascolto…. Tali principi inevitabilmente gli valsero / l’odio di numerosi
pianisti battenti ogni sorta di bandiere, /non c’ è da stupire né da rimanere
di sasso apprendendo che essi organizzavano
/una flotta di corazzate e incrociatori,… allo scopo di colare a picco
il pianoforte a vela. La spedizione salpò le ancore un lunedì mattina,/gran
folla di patronesse, autorità religiose navali militari civili incivili… fin
che la flotta non fu una manciata di note,/una collana di semibiscrome sparse
all’orizzonte. Allora apparve da oriente e biancheggiò / una vela solitaria
ammiccando ironicamente. Il pianoforte antiromantico si era armato /di
dissonanze a lunghissima gittata….. si allontanò verso il sole / seguito da
delfini elettronici e concerti in un mare finalmente mal temperato.”
Eppure il bilancio della sua vita, nonostante
gli sforzi, l’impegno profuso, il lavoro costante, la lotta, la consolazione
del dovere compiuto non è detto che sia del tutto rassicurante:
Io non sono che uno sforzo per esistere/
qualcosa che arranca/ nel nulla quotidiano per giungere alla sponda
dell’essere/ mille volte ricade/ mille volte ritenta s’arrampica s’aggrappa/ e
sa che non avrà/ se non questo tormento
e sa che saperlo una volta/ non è saperlo per
sempre sempre bisogna imparare daccapo/ con sudore e con lacrime.
Rimangono al di là di ogni ragionevole dubbio
però anche le poche certezze che diventano consolanti nella consapevolezza di
aver speso la vita in cause non individualistiche né meschine, di aver
collaborato a rendere più umano questo nostro mondo infelice, anche se l’ansia
del futuro, la mancanza di risposte certe, l’affievolirsi delle speranze nella
morte delle utopie, il sentimento della morte che si avvicina stanno diventando
allarmanti:
Lo consolava la matematica degli insiemi. Riflettendo
sui suoi casi facilmente scopriva /di far parte di numerosi insiemi così
catalogabili: l’insieme degli uomini nati nel 1920,/l’insieme degli uomini nati
nel 1920 ancora viventi, l’insieme di tutti i nati,…/l’insieme degli italiani
sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, l’insieme degli italiani che
tremano per la terza,…
Col tempo si rese conto, non senza sentimento
di orgoglio di essere un elemento di un insieme infinito/quale è certamente e
al di là di ogni meschino dubbio l’insieme degli uomini reali e degli uomini
immaginari. Scoprì con gioia di far parte di numerosi sottoinsiemi,/di insiemi
universali, di insiemi disgiunti,/di insiemi complementari. Lo entusiasmò la
certezza che mai, per soffiar di venti,/sarebbe precipitato in un insieme
vuoto….. Ogni giorno aggiungeva/ all’inventario dei suoi insiemi decine di nuovi interessanti raggruppamenti. Come
avrebbe potuto sentirsi mai solo,/ o temere per le sue difese personali, contemplando
l’insieme di tutti gli insiemi,/vedendolo crescere a vista d’occhio, docile ai
suoi comandi? Mai vi fu un uomo più sicuro, più protetto, eserciti innumerevoli
muovevano in suo soccorso/ da ogni parte del cosmo, dalle sterminate riserve
dell’immaginazione,..
Eppure, di quando in quando, con frequenza
irregolare,
guardandosi allo specchio o toccandosi una
guancia,
non
vedeva che un’immagine un po’ assurda.
Chiusa la porta di casa,/oltre a lui non v’era
anima viva nelle stanze.
La notte si destava inquieto… pensava
stancamente un insieme /che costringesse almeno i fiori finti a schierarsi al
suo fianco / e, <che sarà >, si domandava, <di me >.
E’
davvero quella di Rodari la
testimonianza di un uomo inquieto, che ha lavorato e faticato, senza desistere,
ma che sa che il mestiere più difficile è forse quello di vivere, e dare senso
alle nostre vicende, ai sogni e alle rinunce, e giunto alla fine del viaggio,
che presagisce ormai prossima, anche se senza meta definita, in un qualche modo- un po’ amaro, ma anche
scanzonato e ironico- doloroso, incoraggia, corteggia la morte.
Eppure nella sua vita si è sforzato
continuamente, insistentemente di
“rubare una rosa al padrone di casa”, di “respirare la sua parte di mattino
/alla finestra della primavera”.
Anche la primavera però sa essere crudele.
“Pendono squarciate le ali/ dell’eucalipto/ non volerà più/ nel cuore dei venti/ il grande
uccello vegetale. Ma / gli è rimasto un ramo,/ un grido verticale:/ nel
silenzio sordo del mondo/ la bellezza non tacerà.”
Maria Grazia Ferraris
un ringraziamento sentito al nostro Nazario, lettore acuto, preparato e generoso che ospita e commenta da par suo il mio lavoro su un aspetto del grande Rodari, di cui celebriamo in questo mese il centenario della nascita.
RispondiEliminaIl progresso scientifico-tecnologico ha portato l'uomo sulla luna e alcuni hanno stoltamente gioito per il colpo mortale inferto - secondo loro - alla poesia. "Finalmente la luna è stata tolta ai poeti, così zittiranno per sempre questi ubriaconi!". Gianni Rodari non si scompone, ha la risposta pronta, ironica, mordace: "Ha da essere un poeta / sulla Luna ad allunare / con la testa nella Luna / lui da un pezzo ci sa stare". Non c'è barba di positivismo che possa togliere di mezzo la poesia. Perché dovrebbe? da dove nasce questa intollerante e assurda pretesa che la verità stia tutta da una parte e l'errore dall'altra? Vogliamo capirlo, o no, che è un'auto castrazione? Non esiste una sola logica al mondo, l'umanità ne ha sviluppate tantissime, nel corso della sua storia e tutte indistintamente le occorrono: non importa che siano in contrasto tra di loro. A cento anni dalla nascita di Gianni Rodari, Maria Grazia Ferraris, nota studiosa dello scrittore e splendida divulgatrice della sua opera, ne fornisce un ritratto molto più attento e aderente dell'usuale. Sostiene infatti che il desiderio segreto dello scrittore è stato di "scrivere per gli adulti", a dispetto del suo essere relegato, da un certo pressapochismo critico, a "scrittore per l'infanzia". E fa benissimo Pardini a ricordare che lo scrittore, "nei messaggi poetici fa sempre intendere che tutti sono stati bambini ma pochi sono quelli che se lo ricordano". La fanciullezza viene giustamente equiparata all'innocenza, ma è un crasso errore pensare ad essa come ad un grezzo stadio mentale da superare con l'esperienza (del negativo, ovviamente). Innocenza non è assenza o ignoranza del negativo, ma equilibrio, armonia, capacità di neutralizzare il positivo con il negativo, e viceversa. Capacità che solitamente si arrugginisce con il raggiungimento della maggiore età ("età della ragione"), dove si tende a viaggiare a senso unico, separando il bene dal male, come ogni altra coppia di opposti in armonia. Purtroppo, la stragrande maggioranza di noi adulti vive come adulterazione il passaggio dalla fanciullezza alla maggiore età e a farne le spese è la nostra innocenza, il nostro equilibrio, la nostra naturale sapienza. Sta nella fanciullezza il nostro vero stampo. Stanno lì i nostri veri valori, i nostri ideali e tutti quei sogni che solitamente, da grandi, finiamo per chiudere nel cassetto per codardia o pura e semplice pigrizia mentale. E così facendo tradiamo noi stessi. Ascoltiamoli dunque i fanciulli, solo la loro sapienza è in grado di salvare il mondo. Abbiamo sentito tante sciocchezze sul movimento adolescenziale che è insorto a livello mondiale in favore dell'habitat. Quei ragazzi, si è detto, non sono attendibili perché si limitano a fare proclami senza dare esempi personali e diretti. Che vergogna! Sono gli adulti a dover dare degli esempi, non i fanciulli, e purtroppo gli adulti raramente li danno. A proposito di Gianni Rodari, la Ferraris cita questo interessante passaggio: "Avevo diciassette anni quando feci il proposito di starmi zitto, e uscivo dall'istituto magistrale per rientrare nella scuola dalla parte della cattedra, invece che da quella dei banchi. Ero troppo giovane per essere un buon maestro... A quell'età, come tutti i giovani, mi dedicavo soprattutto a me stesso, ai miei studi, alle mie letture, alle mie fantasticherie". Però, "buon maestro", Rodari lo è diventato da grande, quando ha iniziato a prodigarsi per realizzare, anziché mortificare, i suoi sogni.
RispondiEliminaFranco Campegiani
ESEMPLARE: così mi viene da aggettivare questo commento di Franco Campegiani. Esemplare, e pungente, come è giusto che sia nei riguardi del positivismo: "Non c'è barba di positivismo che possa togliere di mezzo la poesia. Perché dovrebbe? da dove nasce questa intollerante e assurda pretesa che la verità stia tutta da una parte e l'errore dall'altra? Vogliamo capirlo, o no, che è un'auto castrazione?".
EliminaE aggiunge, a sostegno di quanto asserisce Maria Grazia Ferraris su Rodari, con la competenza che la distingue nei confronti del poeta, così ingiustamente bistrattato dal "pressappochismo" critico, che "Innocenza non è assenza o ignoranza del negativo, ma equilibrio, armonia, capacità di neutralizzare il positivo con il negativo, e viceversa.", nonché in favore di Pardini: "E fa benissimo Pardini a ricordare che lo scrittore,
'nei messaggi poetici fa sempre intendere che tutti sono stati bambini ma pochi sono quelli che se lo ricordano'.".
Complimenti vivissimi a tutti e tre. E non arrendiamoci!
Sandro Angelucci
Grazie all'amico Sandro A. che con la sensibilità che lo distingue sa cogliere anche il meglio degli interventi altrui e valorizzarli. Grande e sensibile lettore!
EliminaUn grazie all’attento e profondo Franco C. che sa riprendere e universalizzare il discorso rodariano: innocenza e sapienza di contro ad arida razionalità e convenienze esistenziali, poesia di contro a buon senso positivistico. Tutti siamo stati bambini- innocenti- (che ricca e bella parola!) ma non tutti ci ricordiamo che l'innocenza è innanzitutto una sottile situazione interiore, psicologica.
RispondiEliminaL’innocenza sia della lingua, dell’arte o della poesia – è infatti in stretta relazione con le origini,
con il momento iniziale della civiltà umana e le parole innocenti della poesia sono dunque «semplici e favolose» come già ipotizzava Leopardi e tendere all’innocenza significa tentare di riconquistare la «gioventù», fatta di slancio, di spontaneità e di libertà, quella che animava i primi uomini e che è andata perduta in un processo evolutivo che va da un punto di positività, ad un punto di massima negatività, che coincide con i nostri utilitaristici tempi coevi.