Lucianna Argentino: L’ospite indocile. Passigli Editori. Firenze. 2012. Pp. 80. € 12,00
Cercare
nelle radure del cielo, del mare e dell’anima spazi per dire
Scrivere è togliere lo spazio al
male
è addomesticare la paura
che torna selvatica a ogni
respiro
è tentativo di conoscere
se nella radice dell’albero
dimorano
necessità e libertà,
se nel suo tronco è la misura
di altezza e statura
se nella sua chioma nidificano
verità e verosimiglianza,
adesso che so stare sotto la sua
ombra
lo svantaggio umano.
É nelle corde umane azzardare
sguardi verso il cielo per soddisfare quelle esigenze interiori che più ci
avvicinano all’eccelso. É nelle corde umane
tormentarci per questa nostra condanna di dicotomica natura: essere
terreni sotto un immenso e incomprensibile azzurro. E quindi scrivere è donarci a quella ricerca
di soluzioni, seppur improbabili, ma pur sempre appagante, dacché accontentarci
di vivere all’ombra, senza tentare di
conoscere la luce, è solo uno svantaggio umano. Questo il motivo dominante dell’opera:
siamo umani con la piena coscienza di esserlo, umani nella precarietà del
dubbio e nella inconsistenza del tempo. Ma umani, anche, in questo meraviglioso
tentativo di volare in radure immense di cielo e di mare “dove le felici
scorribande del vento/ raccolgono per me lo spazio/ per dire”. Perché è nella
nostra natura cercare, indagare, e pretendere soluzioni al tentativo di
scoprire chi siamo. Ed è vero! É così! Siamo proprio degli ospiti indocili in
questo nostro precario soggiorno. E quindi il dire è anima, sintagma, è quell’affascinante
gioco di intarsi, combinazioni, smontaggi e rimontaggi, che si combinano in parole.
E
Lucianna Argentino è poetessa attenta alla parola. La sa sforzare fino ai limiti
del possibile, oltrepassando le misure di una grammatica poeticamente
tradizionale. Direi fino ai limiti del possibilmente impossibile. La sbriciola,
la spolpa, la disossa, per afferrarne l’essenza iniziale, il suono portante. Per
ricomporne i pezzi in insiemi sintattico-verbali di grande generosità lessicale.
Per renderla, quindi, adatta ad involucrare gli intenti etico-intellettivi, intimi,
e immaginativi. Sì!, perché, nella sua poesia, i temi ispirativi sono tanti,
anche se tutti riconducibili ad un unico tema: quello della coscienza di
esistere in spazi inquietanti. In spazi ristretti venati di memorie che ci
parlano dell’esilità della vita:
Ci diciamo è già finito gennaio
e gli anni dietro a sorridere
del nostro ingenuo sorprenderci
ogni volta
(…)
per noi che continuiamo a
mangiare il frutto
della prima disobbedienza. (Pp.
68).
Ed è per questo che il vuoto che
ci circonda, il frangente che ci limita e il tempo che ci annulla ci chiedono
continuamente linguaggi consoni ad una spiegazione; ed è per questo che ci
assilliamo e ci tormentiamo in questo nostro dibatterci da ospiti indocili,
senza plausibili risposte.
Tanti
gli imput che motivano e spingono la Nostra a rivelare o meglio
a cercare, o meglio ancòra ad indagare per conoscere verità sui silenzi e
sui misteri dell’esistere. Sull’oltre di
quel vuoto. Di quello che contiene una ragione, un’anima alla ricerca di se
stessa e dei propri perché. Poesia del silenzio, dunque. Di un raccoglimento
meditativo, fortemente umano e vicino a tutti noi. Un silenzio che educa e
istruisce questa poesia. Le dice di parlare non con voce stentorea, ma con voce
suasiva e modulata per un canto che sgorga dal dentro, intimo, riflessivo,
debole, anche, nelle sue conclusioni, come debole è ogni possibile conclusine
umana per la sua inaffidabile precarietà. Ma per questo oggettiva, universale e
pienamente arrivante. Se ci sono certezze, e ci sono, si trovano su ciò che ci
è rimasto di grande ed immenso: i dolori o le fatiche di padri e di madri, le
cose sfuggite - dum loquimur, fugerit
invida aetas -, le antiche primavere sempreverdi, declinate brevi tempore in autunni flebili e
spogli. E come è impossibile tracciare linee geometriche oltre cui azzardare la
nostra spinta emotivo-razionale, è
egualmente impossibile fissare termini linguistici per espansioni che vadano al
di là di tali orizzonti. Per questo la Nostra è impegnata in uno sforzo etimo-fonico di
rara fattura. Risultato nuovo ed interessante in questa sua andatura
singhiozzante, celiniana direi, per decriptare intensità vicissitudinali. Costrutti
e tecniche architettonicamente esperiti che, pur spontanei, appaiono rivisitati,
anche, da tocchi necessari a raggiungere pointes di alto equilibrio fra dire e
sentire. É così che la sera si fa “chiostro serale” e che le nubi “infilano la cruna dei
campanili” e che la poetessa per un
mondo sciupato ed esangue morde “… la
carne di Dio/ e si lascia (mi lascio) mordere”. Anche perché il confronto fra
l’attimo e l’eterno – dicotomico quesito pascaliano fra l’esiguità del terreno
e il senso del sempre che è in noi – è inquietudine esistenziale. E lo è pure
chiedere all’attimo la ragione del suo essere, la verità del suo starci, senza,
per questo, “morirne”. Orgasmi di misura umana ed ultra. Traslazioni forti che
vanno dalle ferite del giorno all’unicità del tutto. C’è in Argentino questo
sfibrante agone fra la coscienza di se
stessa come essere umanamente fragile e la percezione di un vuoto da colmare in
abbracci e in armonie:
… poca materia intorno e vuoto.
Sia passaggio e allaccio
sia lo spazio dell’abbraccio
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso
esposto alla parola. (Pp.10).
D’altronde è terreno fertile per
la poesia chiederci se siamo, perché lo siamo, e a che fine lo siamo. E chiederci
se il tempo, ed ogni suo segmento, abbiano la stessa validità, dato che non esiste
l’uno senza l’altro. O se abbiano la stessa misura in funzione dell’umano. O chiederci,
ancora, se la vita, in tutta la sua precarietà - e la poetessa ne è cosciente
-, possa acquisire la sostanziale portata dell’attimo indispensabile alla sapidità
del tutto, dell’eccelso. Noi, con la nostra vicissitudine, con la nostra
avventura irripetibile, con il patrimonio della nostra memoria, possiamo essere
quel tassello di una piramide che, senza, crollerebbe?
A te che mi slabbri, mi smussi
mi fai argine e argano
ai tuoi desueti sensi
dico di angeli domestici
l’ossuto stare presagio
del nostro inospitale andare.
(pp. 15).
E l’inospitale andare è
senz’altro un inospitale esserci, qui ed ora, in vista di orizzonti verso cui
il nostro audace sentire ambisce protendersi. Sì!, perché:
Fammela bella l’anima e radiosa
che poi si salta, si cambia
quota. (pp. 17).
Lo stesso variare di quantità
metriche, lo stesso cambio di marcia fra versi brevi (settenari) e altri
ipermetrici “Sembrava facile pensare che potesse essere tutto lì.” sta ad
indicare il tribolare di una grammatica versificatoria nel trasmettere azzardi dai contorni ora troppo umani,
ora illimitati.
E c’è anche tanta natura in
questa plaquette, una natura che, anche se propinata con nonchalance, rivela
amore e disponibilità nell’accompagnare questi slanci emotivi dell’esistere:
Arrivano le campane
a siglare l’inizio di maggio
e poi di nuovo la buona stagione
a sciorinare pistilli e spore
nei parchi allevati dall’infanzia
a ciuffi d’erba e pinoli
a sassolini e terra nelle scarpe
e formiche e luce tra i capelli.
(pp. 38).
Sembra di annusarlo quel profumo
di terra primaverile. Sembra proprio, in questa corsa un po’ irrequieta verso
sassolini, scarpe, formiche, capelli di altre primavere. Fa corpo questa natura
con i suoi messaggi colorati e profumati; cristallizza essenzialità vicine al
vivere e all’esistere. E diventa allusiva con i suoi prati, le sue acque di
“neonati autunnali”, con le sue pulcritudini in contrasto con le nefandezze
degli esseri umani tutti vòlti ad eccessi negativi, non ultimo quello di
infangarle queste bellezze:
Prossimi al mio dire
quelli battezzati con la terra
rivestiti della grazia delle
zolle,
braccati nelle selve cittadine,
entro radure di pestilenze umane,
di ossa rotte, di fracassate
seranze.
Prossimi al mio dire
quelli senza peso, senza giusta
misura
predestinati
all’indeterminazione,
cause efficienti della frazione
del pane. (pp. 35).
Un dire, comunque, tratto, pur
sempre, da quelle parole che esondano dal vibrante afflato di ricerca e di
scoperta, di speranza e delusione della Nostra:
Quali spigoli, quali voci
quali anfratti, venti e maree
quali lame e testardi sguardi
quali strade e scoscesi abissi
quali silenzi e quale vita
ne fanno quel sangue in più nelle
vener
dì in aiuto al dire di che
sostanza è
lo spazio tra il tempo e
l’eternità. (pp. 59).
E naturalmente convince, ed
emoziona, nell’opera, il ricorso a metafore, ad assonanze o a rime,
sapientemente usate, che contribuiscono alquanto a tradire intenzioni poco
musicali di una penna votata ad un verso estremamente libero. Perché è proprio al
suo interno che è insita questa orchestrazione.
Cosa
dire ancora. Solo confermare che la Argentino ama la poesia, e le affida il
sacrosanto compito di comunicare con un linguaggio nuovo di vertigini paniche e
creazioni improvvise, non solo le sue/nostre inquietudini, ma anche i forti sentimenti
di rigetto per un mondo che si avventura su strade opposte alla direzione del
buono e del bello. Sì!, perché scriverla, e offrirla al lettore con intenzioni
di condanna, ma soprattutto di ricerca, significa togliere spazio al male; significa
addomesticare la paura in un tentativo di conoscere se nelle radici di un albero che tanto ci rassomiglia,
incontriamo quelle verità che affannosamente cerchiamo. La poetessa sa che lo
svantaggio umano è “stare sotto la sua ombra”.
Nazario Pardini 19/01/2013
Trovo appropriata,esauriente ed ampia questa analisi di Nazario Pardini sulla poesia di Lucianna Argentino. Poetessa che nei suoi scritti attua una evoluzione/innovazione dei temi esistenziali a lei cari e una cura continua del lessico e del sintagma espressivo giungendo a soluzioni liriche originali. Sonorità e profondità di un dire prossimo al respiro, al battito vitale dell'andare nei giorni. Poesia come riscatto e come speranza, come segno, liberamente, inciso nel tempo.
RispondiEliminaUn caro saluto,
Rosaria Di Donato
Un sentito grazie a Nazario Pardini per la sua puntuale e attenta lettura del mio lavoro e per avervi riconosciuto l'amore che porto alla poesia. Un grazie anche a Rosaria Di Donato per la cara testimonianza di amicizia e condivisione. Un caro saluto, Lucianna Argentino
RispondiEliminaHo apprezzato molto questa attenta e minuziosa nota critica sul libro “L’ospite indocile” di Lucianna Argentino, la cui poesia ha un’intensità e un’energia tali da emozionare ogni volta che la si legge.
RispondiEliminaE’ un libro di grande umanità e riflessione, e mi è piaciuta molto l’analisi testuale affrontata in questa recensione. La musicalità, la grazia e la tensione lirica dei versi ne fanno apprezzare ancor di più il contenuto sui grandi temi esistenziali e spirituali con cui ogni essere umano si trova a confrontarsi e che l’autrice riesce a descrivere così vivamente.
Complimenti
Monica Martinelli