Pagine

sabato 19 gennaio 2013

N. PARDINI: LETTURA DI "L'OSPITE INDOCILE" DI LUCIANNA ARGENTINO

 
 
 
 
Lucianna Argentino: L’ospite indocile. Passigli Editori. Firenze. 2012. Pp. 80. € 12,00

 
Cercare nelle radure del cielo, del mare e dell’anima spazi per dire

 

Scrivere è togliere lo spazio al male
è addomesticare la paura
che torna selvatica a ogni respiro
è tentativo di conoscere
se nella radice dell’albero dimorano
necessità e libertà,
se nel suo tronco è la misura
di altezza e statura
se nella sua chioma nidificano
verità e verosimiglianza,
adesso che so stare sotto la sua ombra
lo svantaggio umano.



É nelle corde umane azzardare sguardi verso il cielo per soddisfare quelle esigenze interiori che più ci avvicinano all’eccelso. É nelle corde umane  tormentarci per questa nostra condanna di dicotomica natura: essere terreni sotto un immenso e incomprensibile azzurro.  E quindi scrivere è donarci a quella ricerca di soluzioni, seppur improbabili, ma pur sempre appagante, dacché accontentarci di vivere all’ombra, senza tentare  di conoscere la luce, è solo uno svantaggio umano. Questo il motivo dominante dell’opera: siamo umani con la piena coscienza di esserlo, umani nella precarietà del dubbio e nella inconsistenza del tempo. Ma umani, anche, in questo meraviglioso tentativo di volare in radure immense di cielo e di mare “dove le felici scorribande del vento/ raccolgono per me lo spazio/ per dire”. Perché è nella nostra natura cercare, indagare, e pretendere soluzioni al tentativo di scoprire chi siamo. Ed è vero! É così! Siamo proprio degli ospiti indocili in questo nostro precario soggiorno. E quindi il dire è anima, sintagma, è quell’affascinante gioco di intarsi, combinazioni, smontaggi e rimontaggi, che si combinano in parole.
  E Lucianna Argentino è poetessa attenta alla parola. La sa sforzare fino ai limiti del possibile, oltrepassando le misure di una grammatica poeticamente tradizionale. Direi fino ai limiti del possibilmente impossibile. La sbriciola, la spolpa, la disossa, per afferrarne l’essenza iniziale, il suono portante. Per ricomporne i pezzi in insiemi sintattico-verbali di grande generosità lessicale. Per renderla, quindi, adatta ad involucrare gli intenti etico-intellettivi, intimi, e immaginativi. Sì!, perché, nella sua poesia, i temi ispirativi sono tanti, anche se tutti riconducibili ad un unico tema: quello della coscienza di esistere in spazi inquietanti. In spazi ristretti venati di memorie che ci parlano dell’esilità della vita:
 

Ci diciamo è già finito gennaio
e gli anni dietro a sorridere
del nostro ingenuo sorprenderci
ogni volta
(…)
per noi che continuiamo a mangiare il frutto
della prima disobbedienza. (Pp. 68).

 
Ed è per questo che il vuoto che ci circonda, il frangente che ci limita e il tempo che ci annulla ci chiedono continuamente linguaggi consoni ad una spiegazione; ed è per questo che ci assilliamo e ci tormentiamo in questo nostro dibatterci da ospiti indocili, senza plausibili risposte.
  Tanti gli imput che  motivano e spingono la Nostra a rivelare o meglio a cercare, o meglio ancòra ad indagare per conoscere verità sui silenzi e sui  misteri dell’esistere. Sull’oltre di quel vuoto. Di quello che contiene una ragione, un’anima alla ricerca di se stessa e dei propri perché. Poesia del silenzio, dunque. Di un raccoglimento meditativo, fortemente umano e vicino a tutti noi. Un silenzio che educa e istruisce questa poesia. Le dice di parlare non con voce stentorea, ma con voce suasiva e modulata per un canto che sgorga dal dentro, intimo, riflessivo, debole, anche, nelle sue conclusioni, come debole è ogni possibile conclusine umana per la sua inaffidabile precarietà. Ma per questo oggettiva, universale e pienamente arrivante. Se ci sono certezze, e ci sono, si trovano su ciò che ci è rimasto di grande ed immenso: i dolori o le fatiche di padri e di madri, le cose sfuggite - dum loquimur, fugerit invida aetas -, le antiche primavere sempreverdi, declinate brevi tempore in autunni flebili e spogli. E come è impossibile tracciare linee geometriche oltre cui azzardare la nostra  spinta emotivo-razionale, è egualmente impossibile fissare termini linguistici per espansioni che vadano al di là di tali orizzonti. Per questo la Nostra è impegnata in uno sforzo etimo-fonico di rara fattura. Risultato nuovo ed interessante in questa sua andatura singhiozzante, celiniana direi, per decriptare intensità vicissitudinali. Costrutti e tecniche architettonicamente esperiti che, pur spontanei, appaiono rivisitati, anche, da tocchi necessari a raggiungere pointes di alto equilibrio fra dire e sentire. É così che la sera si fa “chiostro serale”  e che le nubi “infilano la cruna dei campanili”  e che la poetessa per un mondo sciupato ed esangue  morde “… la carne di Dio/ e si lascia (mi lascio) mordere”. Anche perché il confronto fra l’attimo e l’eterno – dicotomico quesito pascaliano fra l’esiguità del terreno e il senso del sempre che è in noi – è inquietudine esistenziale. E lo è pure chiedere all’attimo la ragione del suo essere, la verità del suo starci, senza, per questo, “morirne”. Orgasmi di misura umana ed ultra. Traslazioni forti che vanno dalle ferite del giorno all’unicità del tutto. C’è in Argentino questo sfibrante agone fra la  coscienza di se stessa come essere umanamente fragile e la percezione di un vuoto da colmare in abbracci e in armonie:
 

… poca materia intorno e vuoto.
           Sia passaggio e allaccio                                                                                                                                              
sia lo spazio dell’abbraccio
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso
esposto alla parola. (Pp.10).
 

D’altronde è terreno fertile per la poesia chiederci se siamo, perché lo siamo, e a che fine lo siamo. E chiederci se il tempo, ed ogni suo segmento, abbiano la stessa validità, dato che non esiste l’uno senza l’altro. O se abbiano la stessa  misura in funzione dell’umano. O chiederci, ancora, se la vita, in tutta la sua precarietà - e la poetessa ne è cosciente -, possa acquisire la sostanziale portata dell’attimo indispensabile alla sapidità del tutto, dell’eccelso. Noi, con la nostra vicissitudine, con la nostra avventura irripetibile, con il patrimonio della nostra memoria, possiamo essere quel tassello di una piramide che, senza, crollerebbe?

 
A te che mi slabbri, mi smussi
mi fai argine e argano
ai tuoi desueti sensi
dico di angeli domestici
l’ossuto stare presagio
del nostro inospitale andare. (pp. 15).

 
E l’inospitale andare è senz’altro un inospitale esserci, qui ed ora, in vista di orizzonti verso cui il nostro audace sentire ambisce protendersi. Sì!, perché:

 
Fammela bella l’anima e radiosa
che poi si salta, si cambia quota. (pp. 17).

 
Lo stesso variare di quantità metriche, lo stesso cambio di marcia fra versi brevi (settenari) e altri ipermetrici “Sembrava facile pensare che potesse essere tutto lì.” sta ad indicare il tribolare di una grammatica versificatoria nel trasmettere azzardi dai contorni ora troppo umani, ora illimitati.
E c’è anche tanta natura in questa plaquette, una natura che, anche se propinata con nonchalance, rivela amore e disponibilità nell’accompagnare questi slanci emotivi dell’esistere:

 
Arrivano le campane
a siglare l’inizio di maggio
e poi di nuovo la buona stagione
a sciorinare pistilli e spore 
nei parchi allevati dall’infanzia
a ciuffi d’erba e pinoli
a sassolini e terra nelle scarpe
e formiche e luce tra i capelli. (pp. 38).

 
Sembra di annusarlo quel profumo di terra primaverile. Sembra proprio, in questa corsa un po’ irrequieta verso sassolini, scarpe, formiche, capelli di altre primavere. Fa corpo questa natura con i suoi messaggi colorati e profumati; cristallizza essenzialità vicine al vivere e all’esistere. E diventa allusiva con i suoi prati, le sue acque di “neonati autunnali”, con le sue pulcritudini in contrasto con le nefandezze degli esseri umani tutti vòlti ad eccessi negativi, non ultimo quello di infangarle queste bellezze:

 
Prossimi al mio dire
quelli battezzati con la terra
rivestiti della grazia delle zolle,  
braccati nelle selve cittadine,
entro radure di pestilenze umane,
di ossa rotte, di fracassate seranze.
Prossimi al mio dire
quelli senza peso, senza giusta misura
predestinati all’indeterminazione,
cause efficienti della frazione del pane. (pp. 35).
 

Un dire, comunque, tratto, pur sempre, da quelle parole che esondano dal vibrante afflato di ricerca e di scoperta, di speranza e delusione della Nostra:

 
Quali spigoli, quali voci
quali anfratti, venti e maree
quali lame e testardi sguardi
quali strade e scoscesi abissi
quali silenzi e quale vita
ne fanno quel sangue in più nelle vener
dì in aiuto al dire di che sostanza è
lo spazio tra il tempo e l’eternità. (pp. 59).

 
E naturalmente convince, ed emoziona, nell’opera, il ricorso a metafore, ad assonanze o a rime, sapientemente usate, che contribuiscono alquanto a tradire intenzioni poco musicali di una penna votata ad un verso estremamente libero. Perché è proprio al suo interno che è insita questa orchestrazione.
  Cosa dire ancora. Solo confermare che la Argentino ama la poesia, e le affida il sacrosanto compito di comunicare con un linguaggio nuovo di vertigini paniche e creazioni improvvise, non solo le sue/nostre inquietudini, ma anche i forti sentimenti di rigetto per un mondo che si avventura su strade opposte alla direzione del buono e del bello. Sì!, perché scriverla, e offrirla al lettore con intenzioni di condanna, ma soprattutto di ricerca, significa togliere spazio al male; significa addomesticare la paura in un tentativo di conoscere se nelle radici di un albero che tanto ci rassomiglia, incontriamo quelle verità che affannosamente cerchiamo. La poetessa sa che lo svantaggio umano è “stare sotto la sua ombra”.

 

Nazario Pardini                                                   19/01/2013


3 commenti:

  1. Trovo appropriata,esauriente ed ampia questa analisi di Nazario Pardini sulla poesia di Lucianna Argentino. Poetessa che nei suoi scritti attua una evoluzione/innovazione dei temi esistenziali a lei cari e una cura continua del lessico e del sintagma espressivo giungendo a soluzioni liriche originali. Sonorità e profondità di un dire prossimo al respiro, al battito vitale dell'andare nei giorni. Poesia come riscatto e come speranza, come segno, liberamente, inciso nel tempo.

    Un caro saluto,

    Rosaria Di Donato

    RispondiElimina
  2. Un sentito grazie a Nazario Pardini per la sua puntuale e attenta lettura del mio lavoro e per avervi riconosciuto l'amore che porto alla poesia. Un grazie anche a Rosaria Di Donato per la cara testimonianza di amicizia e condivisione. Un caro saluto, Lucianna Argentino

    RispondiElimina
  3. Ho apprezzato molto questa attenta e minuziosa nota critica sul libro “L’ospite indocile” di Lucianna Argentino, la cui poesia ha un’intensità e un’energia tali da emozionare ogni volta che la si legge.
    E’ un libro di grande umanità e riflessione, e mi è piaciuta molto l’analisi testuale affrontata in questa recensione. La musicalità, la grazia e la tensione lirica dei versi ne fanno apprezzare ancor di più il contenuto sui grandi temi esistenziali e spirituali con cui ogni essere umano si trova a confrontarsi e che l’autrice riesce a descrivere così vivamente.
    Complimenti
    Monica Martinelli

    RispondiElimina