Gianni Rescigno: NESSUNO PUO’ RESTARE. Genesi Editrice. Torino. 2013. Pp. 120. €
15,00
Dalla terra al
cielo con l’amore nell’anima e gli occhi al mare
Nessuno può restare sempre
tra terra e mare ad aspettare.
Bisogna lavare l’anima
con le lacrime ed asciugarla
alla tramontana di febbraio.
Nessuno può restare. Questa la poesia da cui trae il titolo la silloge. E
fin dall’inizio il poeta ci mette di fronte al motivo principale che rende
compatta e organica l’opera. L’attesa di un giorno, di un’ora, di un tempo;
forse l’attesa del tempo che ci è concesso; del redde rationem di un percorso;
del destino di un’anima incisa da vibrazioni di mistero, di una soluzione lasciata
ad una tramontana che porta messaggi di essenziale connotazione per l’oggi e
per il domani: nessuno può restare. Un incipit poeticamente saturo di vita e di
morte. Di quella morte che ingombra di sé ogni minuto del nostro esserci. E di una
vita di cui il poeta per primo riconosce l’inaffidabilità, avendone provato in
prima persona il dolore per sottrazioni e per delusioni. Anche se queste defaillances esistenziali vengono
ripagate, in queste poesie, da un saldo ancoraggio a valori etico-civili e
religiosi che si fanno fondamentali nella storia di Rescigno. Questa è la sua
poesia che, pregna di perché, di abbandoni, e di ritorni aggrappati all’azzurro,
si distende su un tracciato fatto di pièces brevi e concise, in cui
l’articolazione di una metrica essenziale sa lasciare spazi ad endecasillabi
dalla bellezza eufonica per uscite dal sapore sinfonico: “Si va avanti così/ sempre col desiderio d’amore./ Si cerca di
trovare un’altra mano…”. E il dire, con i suoi slarghi ed azzardi
ipersintattici, cerca di affiancare e contenere, sempre, gli slarghi di
un’anima tutta volta ad una confessione ora dolce, ora risentita, ma pur sempre
libera e spontanea. Sono tutti qui, in queste trame, quei sentimenti, quelle
riflessioni, e quello spleen, che determinano il sale del dire
lirico-memoriale, erotico-confidenziale, e strettamente umano: la solitudine,
il mistero, la speranza, l’amore, la curiosità, lo stupore, il sogno e
l’ancoraggio all’immenso potere del Creatore. Sono questi i cardini della
silloge. Il mistero. Sì!, quel senso di
smarrimento di fronte al tutto ed alla pluralità del sentire che accompagna la
coscienza della nostra debolezza di esseri umani. Ma anche la coscienza della
nostra forza in quanto esseri pensanti, esseri che, nati con questa grande dolorosa
dote, riusciamo a proiettare la nostra parte più vicina all’immortalità in un
azzurro che non è facilmente perscrutabile. E c’è questa coscienza della caducità,
c’è ben chiara nelle parole e nel substrato, delicatamente diffusa, dell’opera.
Ed è umano che ci sia. Ed è anche propedeutica al mistero. L’uomo sa di questa
sua condanna: quella di misurare la sua pochezza con la grandezza
incommensurabile dell’eterno. Ha scritto Blaise Pascal, considerando la
posizione dell’uomo nello spazio e nel tempo:
<<
Quando considero la breve durata della
mia vita, inghiottita nell’eternità passata e futura, l’esiguo spazio che
occupo, e che posso vedere, inabissato nell’infinita immensità di spazi che
ignoro e che non mi conobbero, io sono atterrito, sono sorpreso di essere qui
piuttosto che altrove; giacché non vi è motivo al perché qui anziché là, oggi
anziché domani. Chi mi ha messo dove mi trovo? Per ordine e istruzione di chi
mi sono stati assegnati questo posto e quest’epoca? L’eterno silenzio di questi
spazi infiniti mi terrorizza>>.
E tutto, spesso, assume questo aspetto di caducità e di fragilità: la vita scorre veloce come un fulmine e ti ritrovi addosso la vecchiaia con tutto il bagaglio delle tue preziose memorie:
E tutto, spesso, assume questo aspetto di caducità e di fragilità: la vita scorre veloce come un fulmine e ti ritrovi addosso la vecchiaia con tutto il bagaglio delle tue preziose memorie:
<<E
poi la vecchiaia
cancella
tutto ciò che sei stato:
occhi
mani passo.
Non
ti riconosci.
Stai
sulla battigia
su
una panchina
all’ombra
d’un pino
a
guardare colui
che
ha la tua voce
e
che ti sveglia il cuore.>>
(E poi la vecchiaia. Pp. 80).
E
tanti i silenzi a raccogliere perplessità, dubbi, incertezze; a seminare
terreni su cui investire tutte le nostre meditazioni sulla vita, i suoi dilemmi;
e vibrano le corde del cuore, danno gli imput alla mente che vive e rivive le
immagini, fino ad accelerare i battiti cardiaci in quella selva ricca e
generosa di motivazioni che è l’esistenza. E tanti di questi impulsi sono
dettati da un amore che è sempre vigile e trascinante con la sua
presenza-assenza. Storie e fatti vissuti con la compagna di una intera vita
sono rimasti a covare nell’anima. Azioni semplici, quotidiane - tradotte da Rescigno
in motivi di alta creatività - rinascono
ingrossate a reclamare la loro validità, la loro essenzialità, ogni ora, ogni attimo:
<<Aprile
portò la morte
tra
fiori di pèschi e di ciliegi.
Ne
parlavi sempre con dolcezza:
un
giorno giungerà
il
riposo che mi spetta.
E
lei la morte
per
lasciarti il soriso sulle labbra
s’inchinò
davanti alla tua stanchezza.>>
(Aprile portò la tua morte Pp. 87).
<<Del
nostro dialogo vorrei
che
continuasse il prosieguo
nelle
ore di sonno.
(…)
Andando
per questa strada
Cerco
di metter i piedi
Sulle
tue orme.
La
tua ombra mi attende
Ad
ogni miglio di mistero…>>
(Nel nostro dialogo. Pp. 60)-
Momenti
di grande lirismo quelli dedicati alla donna amata. É nel dolore, o meglio, nel
dolore rivissuto, che si generano le condizioni dei ritorni e degli abbracci,
degli impulsi umanamente più caldi per una poesia che arriva con estrema
generosità. E forse è proprio questo mondo immaginifico di sogni, e
slanci onirici a creare una storia nuova, fattasi presente. Sì!, perché il
sogno è vita, e la vita è sogno. Rifugiarsi in certi angoli. Riposare l’anima
in alcove edeniche di grande rendimento umano ed ultra/umano, qui, è motivo di
una poesia ricca di un patema che si confessa con giusta misura senza scadere
in lamentatio “degenerative”:
<<Un
altro profumo ha la notte.
Un’altra
bocca ha la parola.
(…)
Un
altro profumo ha la tua anima
e
l’edera della tua speranza
avvinta
al riposo della mia.>>
(Profumi canzoni respiri. Pp. 89).
<<I
tuoi passi si uniscono ai miei:
Trottano
per i viali deserti,
non
hanno né bocca né parola.
Sono
soltanto il nostro rumore,
eco
di desiderio di un sogno
che
domani cadrà sull’asfalto
all’ora
del primo squarcio di luce.>>
(Rumori di passi. Pp. 90).
Una
luce che equivale a realtà implacabili che sopraggiungono a tradire voli impossibilmente
possibili. Sì!, c’è questa dualità nella poesia del Nostro, che la rende nuova:
da una parte quella realtà, dall’altra spazi traboccanti di rievocazioni
oniriche:
<<Tanti
cieli ho avuto
quanti
i miei giorni.
E
le notti? Una sola.
Sempre
con lo stesso
sole
del giorno
e
una imparagonabile luce:
quella
del sogno.>>
(Tanti cieli quanti i giorni. Pp. 91).
Ed
è la solitudine ad accompagnare il poeta nel suo percorso terreno e poetico.
Quella solitudine/raccoglimento che non è mai fine a se stessa, ma che porta tutto l’amore che non hai mai avuto:
<<…Infine
sai: nessuno ti vede
Sei
soltanto la tua anima
In
giro per il mondo.
Infine
capisci: incontrerai l’ora
a
cui non hai mai pensato
e
ti porterà tutto l’amore
che
non hai mai avuto.>>
(Con le cose che non hanno parola. Pp.
92).
D’altronde
dobbiamo vivere e pensare nel tempo e con il tempo. E misurarci tristemente con
la sua sproporzionata dimensione. Con le sue ore. Ma sono le ore che non si
contano a determinare un’eternità in cui saremo spersi, per il poeta. Proprio su
quelle ore resta a meditare. Sì, perché a noi mortali sfugge il senso di quel
sempre il cui presente non ci è concesso afferrare. La nostra mente non possiede
la facoltà di recepirlo: è precario e inconsistente; è fugace come il nostro
esistere. Ma la speranza esiste. C’è, non è chiusa nel vaso di Pandora; è a lei
che si affida il Nostro, pur aggrappando il tutto alla memoria o ad un sogno, incognito
e a volte doloroso. E anche se la morte è lì, fra le onde del mare, sempre in
agguato:
<<…
Origli, ascolti la morte:
sale
le scale delle onde.
E
quando riappare il sole
ti
tocchi gli occhi
per
sapere se ancora vivi.>>
(Acqua di mare. Pp. 36).
se
ci avviciniamo all’azzurro - a Lui - è più facile rivelare le proprie debolezze
ed è più semplice allargare il cuore e piangere:
<<…
E allora liberi
al
migrare delle nuvole
i sogni dal pensiero.
Uno
soltanto
ti
si avvinghia all’anima.
Non
parte.
Ti
sussurra il nome
e ti sorride: sono la speranza.>>
(Avvicinandoti a Lui. Pp. 93).
É
così che Rescigno riesce a staccarsi dai dolori della vita. Dal terreno.
Portandosi dietro, però, in un viaggio verso il cielo, le cose più preziose del
suo mondo. E vola con nell’anima Dio, l’impronta dell’amore, e con negli occhi
il mare.
<<Partirò
con un pugno
di
terra in tasca
e il mare negli occhi.
Lì
non hanno terra i campi
e sono senz’acqua i mari.>>
(Il mare negli occhi. Pp. 82).
<<L’anima:
terra di domani.
Soltanto
il vomere di Dio la solca.>>
(Il vomere di Dio. Pp. 83).
Nazario
Pardini 10/01/2013
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