Anna
Magnavacca: Oltre la siepe di sambuco e
altre poesie. Guerra Edizioni.
Perugia.
Pp. 70. € 6,00
Qualcosa che rimarrà prima e dopo la traversata del
grande fiume
Poesia novativa
e chiara. Sì!, chiara quella di Anna Magnavacca che non tradisce i suoi intenti
sia nel verso che nelle tematiche. E si offre, con tutto il potere di un verbo
arroccato sul significante, ad una confessione spontanea e fortemente terrena. Ci
si fa poeti davanti ai suoi versi e si soffre, magari, con ritorni montaliani, leggendo
le sue arrampicate e le sue discese, le sue iperboli e le sue immissioni nella
folta selva delle questioni umane. Nelle sofferenze umane. Si partecipa, si
vive intensamente tutto il suo patema esistenziale. Ma si gioisce, anche e soprattutto,
con i suoi acuti da soprano in quei recuperi memoriali che sanno strappare, a
sfocate lontananze spazio-temporali, sia lembi di esistenze tormentate che
rivoli di acqua pura in cui immergersi per refrigerarsi:
Si ballava – il sabato sera – nel salone del partito
sui mattoni rossi levigati e sbrecciati.
S’arrampicava la musica – come edera –
sulla mia finestra chiusa al sonno adolescenziale
che tardava arrivare.
(…)
E nel sogno la mia finestra si riempiva di musica
e perché nessuno la portasse via
sentinelle
passeri e gatti randagi… (Pp. 18).
Non può seguire
un calcolo preciso la sua metrica; non può essere domata dalla ragione; qui è
il sentimento, quel grande ribollire di sensazioni ed emozioni, a dettare i
ritmi di un percorso che si fa ora breve (ternario o quaternario), ora
ipermetrico. Perché è l’anima che si rovescia direttamente sul foglio senza
intralci o ripensamenti; un’anima
talmente gonfia che la parola ora stenta a seguirla, ora si rasserena, si
distende, ora fuoriesce con frangimenti, interruzioni, e segmentazioni, come
singhiozzo dalla bocca stretta di una fiasca rovesciata. Direi che la
spontaneità è un valore aggiunto a questa poesia che fa di tutto per staccarsi
dalle vicissitudini umane, ove è fortemente intrisa:
Non è colpa mia.
Nessuno mi ha aperto la porta.
Nessuno mi ha dato scarpe da neve…
Se ne andrà quella persona.
All’imbrunire flirterà con una giovane ragazza (Pp.
22).
Al mio
risveglio un camice di neve.
Sembra un grattacielo. “Bene… si è svegliata…
Fate la terapia – controllata –
Anche una flebo… ok… un analgesico” (pp. 20.
Ma che sa proiettarsi,
anche, al di là di una siepe che offre immensità lenitive:
Forse comincerà a nevicare.
E allora tornerà a noi il fiore dell’infanzia (Pp.
48).
Malinconia,
piccole cose, grandi accidents; fatti
semplici, o smisurati; ma tutto inizia dal quotidiano per allargarsi a sogni, a
speranze, a voli incondizionati, perché la Nostra sa che “E’ un soffio la vita./ Come un improvviso
vento di marzo/ e chiara pioggia scompiglia i capelli,/ morde sulla pelle e poi
se ne va” (Pp. 32). Ma:
Tu non spegnere mai il cuore sognante.
Imprigiona l’oro di una stella (Pp. 28).
Autunno porti già il cuore
alla primavera – rigoglio di rose
e giallo abbraccio di pane (Pp. 30).
Voglio ancora sognare e sognare
e ancora appendere desideri a lenzuola d’aria (Pp.
40).
Un dire di
grande impatto emotivo, coinvolgente per il suo percorso metaforico, allusivo
che trita l’esistere, lo scandaglia, lo spolpa per ricavarne un senso, ma
quello che emerge è che tutto è precario e sfuggevole; e delle grandi passioni
o dei grandi giochi sentimentali, che un tempo fiorivano come azzardi di ricami
nel cielo, resta solo “questo treno”
che “srotola senza pietà/ il buio della
vita” (Pp. 42). E allora correre…
correre… correre. Correre per sfilarsi dai suoi giochi obliqui. Sì!,
proprio da quei giochi per:
Svanire poi come una pallida dolce nevicata
nella luce dell’armonia eterna (Pp. 33).
Forse è proprio
là il senso di tutta la silloge. Una corsa a perdi fiato verso una mèta, anche
se irraggiungibile, sognata. Ed il sogno fa parte di una storia. Di un
travaglio, di un ricamo di esistenza che non esclude mai fiori di primavere o
squarci di azzurro, che come alcove, riportano a giorni felici:
Camminare leggera come piuma
per
incontrare chi ho amato
e i nostri occhi
non avranno bisogno di voce.
Librarmi
fra i gabbiani bassi sull’onda addormentata.
soffermarmi ai profumi di forno
per assaporare
la crosta di pane appena sfornata (Pp. 49).
E, come da
titolo, la Nostra
tenta sempre di staccare il rosa del tramonto dalle cose, per proiettarsi oltre
la siepe. Oltre quel confine che demarca la zona umana da un naufragio in cui
spesso cerca di tuffarsi per schivare quel senso di fine che inquieta. Perché
il buio della notte, a cui pensa la poetessa, è simile alla morte “di cui è intessuto il mosaico della vita”. Ma l’esserci non è solo quotidiano
vivere, è anche immaginazione, forza onirica, vissuta tanto intensamente, che si fa nuova vicenda per un’anima
disposta ad offrire impulsi iperbolici.
… Voglio erba
brillante fuoco di papaveri
E promesse di gioia.
… e parlare… parlare di questa neve al tramonto
Correre… correre… correre
Fino a camminare sospesa nella primavera (Pp. 22).
C’è anche la
natura a supportare le tensioni emotive in questi versi, con i suoi profumi,
con i suoi squarci di cielo, le sue vermiglie bacche, le fioriture improvvise,
o gli odori di mosto a donare momenti di
allettanti fughe edeniche; c’è la natura
coi suoi magici poteri a cospirare a favore di riposi interiori. E d’altronde
anche quelle fusioni paniche non sono altro che soluzioni per un sentire che
prende corpo e si concretizza; che si materializza in ariosi slarghi di
pensiero, e di amore, intenti, forse, a vedere, nelle vicissitudini del tempo,
primavere e attese di glicini dorati per offrire respiro agli affanni del
vivere. Vera reazione alla negatività, quindi, che il lettore percepisce dalla
contrapposizione dei colori: da una parte quel rosa, quasi a significare
l’ultimo sforzo da parte del tramonto per restare aggrappato al giorno;
dall’altra il fiorire immaginifico di una luce che ci invade di presenze, che
s’impone come germoglio di fanciullezze. E il sogno è vita e la vita è sogno.
Lo afferma il poeta: “La coscienza del futile, la memoria, e il sogno sono quei
nutrimenti che fanno di un sospiro un uragano, e di un uragano un poema”. Che
uragano? Proprio quello che nasce da un’esplosione
della nostra intimità per reagire a quella parte di noi tesa a misurarsi con
l’incommensurabile, con l’impossibile. E la Nostra azzarda sguardi lontano. Oltre la siepe,
per svincolarsi da una morsa che tiene ogni essere pensante vincolato a terra.
A quella terra che adoriamo, ma che vorremmo fosse candida come la neve che
spesso ricorre in questi versi; una neve simbolo di remote stagioni, di canti
d’amore, o di abbracci di speranza, nella poesia di Anna Magnavacca:
Quel cucchiaino rosso sul terrazzo
fra i miei vasi di gerani – adesso spenti –
mi ricorda il tuo ostinato scavare
fra la terra nel verde movimento delle tue mani.
(…)
Ora l’autunno scava la terra di questi miei gerani
con furtiva pioggia e voce di vento. Tra poco
saranno
ricoperti di neve. Allora il tuo cucchiaino
rosso
splenderà nel candore della prima – acerba nevicata (Pp. 45).
Ed è alla poesia
che la Nostra
affida la storia della siepe di sambuco. É ad essa che assegna il compito di
perpetrarne i profumi intrisi di malinconie. É alla poesia che la poetessa
affida tutta la sua vicissitudine, forse perché è in essa che crede, è in essa
che vede l’unico mezzo per assaporare quell’azzurro che più si avvicina
all’eterno.
Nazario Pardini 05/01/2013
molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto carino
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