Turandot, dramma lirico in tre atti
di
Sintesi
La Turandot impegna Puccini
per vari anni fra alti e bassi a causa “di disturbi alla gola che nell'ottobre
1924 saranno diagnosticati come cancro. Verso la fine del 1923 l 'opera è quasi
compiuta, ma ancora manca il duetto finale, il cui testo viene faticosamente
rielaborato”[1].
Prima di essere ricoverato a Bruxelles in una clinica specializzata, Puccini prende
accordi con Toscanini per la prima rappresentazione dell'opera, con la speranza
di guarire e tornare presto dalla sua Turandot.
Ci lascerà, alcuni giorni dopo
l'operazione, il 29 novembre 1924.
Ma procediamo con ordine.
Terminato il Trittico
(Gianni Schicchi e, Suor Angelica e
il Tabarro), nel 1918
a Puccini si presenta il problema di una scelta del nuovo
soggetto da musicare. Fermamente convinto nel lavoro di collaborazione, dopo la
morte nel 1906 di Giacosa e quindi lo scioglimento della coppia Giacosa-Illica,
il Maestro sente il bisogno urgente di trovare degli affidabili librettisti; la
sua scelta ricade sul drammaturgo Renato Simoni, come sostituto di Giacosa, e
il veronese Giuseppe “Adami, il contraltare di Illica”1
che gli aveva già scritto La Rondine e Il Tabarro.
Fu lo stesso Simoni, con l'idea di presentare
qualcosa di fantastico e di remoto interpretando un sentimento di umanità con
una sfumatura moderna, a proporre “un soggetto genericamente ispirato al teatro
di Carlo Gozzi”2, “e fu lo stesso Puccini
a fermare la propria attenzione sulla fiaba cinese teatrale tragicomica Turandot”3 del 1762. Per la lettura della fiaba
utilizzano però la traduzione in italiano, eseguita da Andrea Maffei, “del
testo di un adattamento realizzato da Schiller nel 1801” 4.
Il libretto dell'opera di Puccini, Adami e
Simoni, presenta però delle sorprendenti analogie con un mito degli indios
amazzonici Cashinawa, aprendo così nuovi interrogativi sulle fonti a cui
attinsero. Riporto qui un passaggio per me fondamentale che lega le due storie:
<<Un tempo non c'erano né la luna, né le
stelle, né l'arcobaleno, e la notte era completamente oscura. Questa situazione
mutò a causa di una ragazza che si non si voleva sposare. Si chiamava Luna.
Esasperata dalla sua ostinazione la madre la cacciò via. La ragazza errò a
lungo piangendo, e quando volle rientrare in casa, la madre si rifiutò di
aprirle: «Non ti resta che dormire fuori» gridò «così imparerai a non volerti
sposare!». Disperata, la ragazza correva su e giù, batteva alla porta e
singhiozzava. La madre si infuriò talmente per questo comportamento che prese
un coltello da boscaglia, aprì alla figlia e le tagliò la testa... Durante la
notte la testa rotola gemendo intorno alla capanna. Dopo essersi interrogata
sul suo avvenire essa decide di trasformarsi in luna. «Così» pensò «mi vedranno
solo di lontano>>5.
I riferimenti sono chiari: entrambe non si vogliono sposare e anche Turandot, come una visione, si lascia ammirare solo da lontano e viene definita dalla folla pura come la luna.
Ma ci sono altri indizi che ci portano a credere
che le fonti d'ispirazione siano altre come, per esempio, la simbologia lunare
nella Grecia classica, la “scandalosa”Salome di Strauss presentata nel 1905 a Dresda e infine il
dramma di Oscar Wilde.
Nella primavera del 1920 iniziano il lavoro con
grande entusiasmo; alla fine di questo anno hanno già scritto la prima parte
del libretto ma Puccini, come sempre, non è soddisfatto e prosegue la scrittura
alternando momenti di sconforto, a momenti di propositi di rinuncia definitiva.
Precisamente un anno dopo Puccini decide di
ridurre l'azione in solo due atti, diversamente da quanto deciso in precedenza
da Adami e Simoni che, dagli iniziali cinque atti della fiaba originale, e i
quattro di Schiller, erano già scesi a tre.
<<Un altro elemento di discussione
riguardava le maschere. In Gozzi sono quattro (Pantalone, Tartaglia, Brighella
e Truffaldino)e, secondo la tradizione della commedia dell'arte le loro battute
sono affidate all'improvvisazione degli attori che parlano, ovviamente, in
veneziano. Schiller aveva invece scritto per esteso i dialoghi delle maschere,
attenuandone, seppur di poco, il tono decisamente comico6.>>
Adami e Simoni inizialmente accolgono l'idea
delle maschere, rinunciando tuttavia al dialetto veneziano, poi le abbandonano
per infine riprenderle sotto suggerimento di Puccini, senza però fare di loro,
personaggi inopportuni e petulanti. Nascono le tre creature Ping, Pong e Pang,
che agiscono sempre insieme e che trovano l'unica diversificazioni nella scelta
delle voci (Pang e Pong sono tenori, Ping un baritono). Queste tre figure
vengono contraddistinte da una grande ricchezza ritmica di rapidi passaggi
pentatonici, e dall'efficacia di un linguaggio parlato, sottolineato dai giochi
delle assonanze.
Non ci sono discussioni, invece, per quanto
riguarda la figura di Liù, lontana dalla fastidiosa e pettegola Adelma di
Gozzi, che probabilmente inventa lo stesso Simoni. Liù non è una regina
decaduta, ma solo la schiava del re tartaro Timur, invaghita di Calaf, figlio
di Timur e quindi anch'esso principe che un giorno le ha sorriso. Ma la sua
importanza nella vicenda è un'altra: in contrapposizione con Turandot,
rappresenta la dedizione, la generosità fino alla morte e la felicità raggiunta
attraverso il sacrificio. La dolce ed eroica schiava, “cresce e diventa un nodo
drammatico decisivo”7; è
Puccini a scrivere i versi dell'ultima aria Tu che di gel sei cinta,
convinto che debba essere il duetto clou dell'opera, quello in cui la
principessa Turandot scioglie il suo ghiaccio. Nella tipologia del melodramma
italiano era un'anomalia pensare ad un'opera di forte contenuto drammatico,
come Turandot, conclusa dal lieto fine; ed è questa la caratteristica
che preoccupò Puccini durante i quattro anni di lavoro.
Nel giugno del 1923 inizia l'ultimo atto che in
novembre giunge alla morte di Liù e, alla fine di questo anno, termina
l'orchestrazione dei primi due atti, portando quasi al compimento anche il
terzo.
Purtroppo per Giacomo comincia il dolore alla
gola e quindi il calvario che rallenta il lavoro. A settembre del 1924 si incontra a Viareggio
con Toscanini che avrebbe diretto l'opera alla Scala nell'aprile seguente. In
ottobre si sottopone ad alcuni esami medici che rivelano un grave carcinoma
alla faringe; i professori proteggono Puccini nascondendo la vera causa del suo
male, con una falsa diagnosi di un papilloma sotto la base dell'epiglottide. Il
3 novembre parte per Bruxelles diretto in una clinica, pieno di speranza in una
veloce guarigione e angosciato per la sua Turandot non ancora finita.
Ma il nodo
cruciale del dramma, che Puccini cercò invano di risolvere, è costituito dalla
trasformazione della principessa Turandot, algida e sanguinaria, in una donna
innamorata. Gli storici
sostengono che il mancato finale della Turandot sia dipeso più dal venir meno
della passione iniziale del Maestro che dai suoi problemi di salute. Penso invece
che le due cose siano strettamente legate e che proprio il cancro, che si
impossessò di lui, gli abbia creato quell’indebolimento interiore, ed un
sentire insufficiente a tradursi in un finale di grande passione
erotico-sentimentale, come richiedeva la sua Turandot.
Pochi giorni dopo la morte di Puccini, l'editore
Ricordi affronta il problema della rappresentazione dell'opera: dapprima pensa
di lasciarla incompiuta, ma in un secondo momento decide di affidare il compito
a Franco Alfano, su suggerimento di Toscanini. All'inizio del nuovo anno Alfano
invia il lavoro all'editore che, d'accordo col direttore, lo boccia in quanto
non aveva considerato gli appunti lasciati da Puccini e viene invitato a rifare
il finale che viene consegnato all'inizio di febbraio.
L'opera va in scena alla Scala di Milano il 25
aprile 1926 e in quell'occasione non viene eseguito il finale elaborato da
Alfano e al termine della scena della morte di Liù Toscanini si interrompe e
rivolgendosi al pubblico dice: “Qui finisce
l'opera perché a questo punto il Maestro è morto”8,
forse desiderio dello stesso Puccini.”.
Turandot è un immenso affresco drammatico e musicale che Puccini non avrebbe potuto scrivere senza la sua lunga esperienza, “valido proprio per il suo assunto novecentesco, estetizzante, moderno”9, a conferma del patrimonio che ci ha lasciato sia sul piano melodico, orchestrale che vocale. Lui, con le sue consuete esigenze che lo portarono ad essere sempre indulgente con sé stesso e con i suoi collaboratori, e inseguìto da “un'inesorabile ansia di perfezione”10, trovò proprio in Turandot, forse con l'intuizione che quest'opera fosse destinata a restare l'ultima, il completamento di una brillante ed eccelsa carriera artistica.
[1] E. RESCIGNO: Giacomo Puccini. Turandot.1998. Dramma lirico in tre atti. Di Giuseppe
Adami e Renato Simoni. Ricordi. Roma. 1998. Pp. 11.
1 EDUARDO RESCIGNO: Giacomo Puccini.
Turandot. Dramma lirico in tre atti di
Giuseppe Adami e Renato Simoni. Ricordi. Roma. 1998. Pp. 18.
2 Per la sua fiaba, Carlo Gozzi a sua volta
prende spunto da una raccolta di fiabe persiane, da una novella della celebre
raccolta Le mille e una notte, e accenna alcuni riferimenti ai numerosi
racconti orientali anche della Russia; il nome stesso della protagonista sembra derivare da Turan, che in
persiano significa Terra dei Turchi.
3 E. RESCIGNO, 1998. p. 18.
4 Ibidem.
5 CLAUDE LÈVI-STRAUSS, in SANDRO CAPPELLETTO
(a cura di), Giacomo Puccini. Turandot. Guida all'opera. Gremese
Editore. Roma. 1988. Pp. 8-9.
6 E. RESCIGNO: 1998. Pp. 19
7 S. CAPPELLETTO: 1988. Pp. 22
8 ARTURO TOSCANINI in E. RESCIGNO. 1998.
Pp.21.
9
SILVESTRO SEVERGNINI: Invito all'ascolto di Giacomo Puccini. Mursia Editore. Milano. 1984. Pp. 182.
Un luogo sicuramente adatto per ascoltare la buona musica e che fa rivedere le atmosfere tanto care anche al maestro Puccini.
RispondiEliminaBellissima pagina, ricca di suggestioni che tengono nel sottofondo note di romanze in dimenticabili.
RispondiEliminaGrazie
Prof Angelo Bozzi