Il
Professore di Latino e Greco
Iniziare il
primo anno di Liceo Classico la consideravo un’avventura molto stimolante e, tuttavia,
circondata da un alone di mistero e molte curiosità, alcune delle quali
sarebbero state poi delle sorprese.
L’avere già
frequentato i primi due anni di Ginnasio mi aveva abituato ad una forma di
studio nuova e, per certi versi, piacevole. D’ora in poi, però, si cominciava a
fare sul serio, era come se si ricominciasse tutto dall’inizio: nuove materie,
nuovo sistema di studio e nuovi insegnanti.
Il primo di
questi che ci diede il benvenuto, all’inizio del nuovo anno scolastico, fu il
professore di Latino e Greco. La prima impressione non fu delle più felici, di
età indefinibile sembrava un manichino robotizzato, tanto si muoveva a scatti e
talmente era metodico nel sistemare le sue cose prendendo possesso della sua
cattedra, da farlo sembrare un automa.
Di statura
media aveva un fisico asciutto e molto efficiente, di carnagione molto chiara, i
capelli rossi tagliati cortissimi incorniciavano un viso tirato ma, ben curato.
Portava gli occhiali con una montatura di celluloide arancione, dietro i quali
facevano capolino due piccoli occhi da miope che non incontravano mai,
direttamente, lo sguardo altrui.
Vestito in
modo convenzionale e, tuttavia, accurato nei particolari dava l’impressione di
una persona che accordava molta importanza alla pulizia, all’igiene ed alla
salute. Appena entrava in classe, prima ancora di sedersi in cattedra, esigeva
che si aprisse la finestra, poco importava se fosse inverno o estate e
qualunque fosse la temperatura ambientale, lui voleva respirare aria pulita.
Non era
siciliano e il suo parlare, schietto e stringato, aveva un accento che lo
collocava come origine geografica nel Nord d’Italia. Di abitudini spartane,
quasi militaresche, sapevamo che si alzava molto presto la mattina, faceva una
colazione molto abbondante ed era sempre un esempio di efficienza e puntualità.
Della sua metodicità faceva parte, durante l’ora di lezione, un’abitudine ormai
consolidata nel tempo, di dividerla in due parti: si toglieva l’orologio da
polso e lo sistemava di fronte a lui sulla cattedra, mezz’ora era dedicata alla
spiegazione e mezz’ora alle interrogazioni. Prima di cominciare la lezione
chiamava sempre l’appello al quale seguiva, sistematicamente, la conta degli
studenti in classe.
Da questo tipo
di comportamenti non si discostò mai durante tutti e tre gli anni di Liceo.
Estremamente serio e riservato, era l’unico docente che dava del lei ai suoi
studenti, di poche parole ma, essenziali, difficilmente rideva durante le
lezioni e, a volte, se proprio era costretto, per non uscire fuori dal coro,
accennava ad un sorriso di compiacenza.
Una sola
volta, durante gli anni del Liceo, si lasciò andare ad una risata di cuore;
accadde durante le feste di carnevale, il solito “monellaccio” della classe
architettò uno scherzo che era tutto un programma e che si poneva in polemica
antitesi all’abitudine della conta degli alunni che puntualmente avveniva ogni
volta dopo l’appello.
Con i
cappotti, i berretti e le sciarpe che erano depositati negli attacca panni
della classe, fu confezionato un fantoccio, tenuto assieme dagli elastici che
servivano per tenere assieme i libri, al quale fu anche appiccicato un paio di
occhiali su quella che doveva sembrare una faccia. Per rendere la cosa più
credibile e tenendo conto della vista corta che aveva l’insegnante, il
fantoccio fu posto a sedere all’ultimo banco, in fondo all’aula, dove appariva
solo parzialmente in quanto coperto, a bella posta, dai ragazzi che occupavano
i banchi davanti.
L’epilogo,
esilarante, dello scherzo si ebbe quando, chiamato l’appello ed effettuata la
conta degli alunni, all’insegnante ne avanzava uno. Piuttosto perplesso,
l’appello fu ripetuto e, con esso, il successivo conteggio, non c’era verso,
esisteva un’unità in più. Quando l’Insegnante guardando attentamente tra i
banchi, scorse in fondo una sagoma indistinta, si alzò e, sceso dalla cattedra,
andò a sincerarsi di persona per rendersi conto di chi fosse l’intruso.
Giunto
all’ultimo banco, prima ancora che si accorgesse dello scherzo, ci fu un’irrefrenabile
risata collettiva di tutti noi che non eravamo riusciti a trattenere le risa.
Constatato che l’unità in più era un fantoccio, anch’egli, abbandonando per un
attimo il suo “a plomb”, si sciolse in una risata, sempre misurata ma,
autentica e di cuore, mostrando con ciò, che aveva apprezzato l’intraprendenza
umoristica dei suoi studenti.
Sembrava una
persona tutta d’un pezzo, dura ed intransigente, burbera ed insensibile ma,
così poteva sembrare ad una prima e superficiale osservazione, a chi come me,
invece, che ebbe l’opportunità di conoscerlo e stargli vicino, quasi
quotidianamente, per tre anni, si rivelò una persona timida, sensibile e
gentile, molto preparata professionalmente, di sani e giusti principi ed un
esempio costante di attenzione, puntualità, rispetto e educazione per gli
altri.
Gli altri,
appunto, alcuni dei quali erano miei compagni di classe, spesso lo prendevano
in giro per il suo modo di fare da robot e per quella sua metodicità quasi
maniacale: “Il tedesco” – lo chiamavano - e qualcuno, che purtroppo ora non c’è
più, approfittando del fatto di essere figlio del vice prefetto della città, si
burlava di lui mettendolo in difficoltà con alcuni scherzi goliardici che
travalicavano il comportamento ed il rispetto dovuti al proprio insegnante.
Personalmente, ho conservato di lui un gradito ricordo, alla fine del Liceo, lo
stimavo molto e mi sentivo legato a lui da una sorta di affettuosa amicizia, mi
faceva tenerezza, quando era vittima degli scherzi e del dileggio di qualche
alunno “furfante” e poiché, per timidezza e educazione, non sapeva reagire alle
provocazioni, mi appariva una creatura debole e indifesa, desiderosa di aiuto e
protezione.
Credo che
egli, quasi sommessamente con molta umiltà, mi abbia insegnato molte cose che,
sicuramente, andavano oltre l’impegno professionale pedagogico, come la
rettitudine, il rispetto per gli altri e la puntualità, la cura dei dettagli e
l’onestà di comportamento, la disciplina interiore e l’educazione mentale,
tutte cose queste che ho sempre considerato essenziali nella vita.
Lo
accreditavano di cinismo, indifferenza e insensibilità, quando affrontammo
l’Esame di Stato (ora chiamato di maturità), lui fu scelto tra tutti i docenti
dell’Istituto per fare il membro interno in seno alla Commissione esterna di
Esame. Durante lo svolgimento delle prove scritte, Il Presidente della
Commissione gli assegnò il compito di passeggiare tra i banchi per sorvegliare
le eventuali “manovre” da parte dei soliti “somari” di turno. Ebbene, “il
tedesco” invece di mostrare la sua teutonica freddezza, non si comportò da
“giannizzero lanzichenecco” ma, da quella brava persona quale, in effetti, era,
non accusò nessuno di quelli che armeggiavano nel tentativo di scopiazzare e
anzi, aiutò paternamente, tutti coloro che non sapevano che “pesci prendere” o
da dove cominciare il compito che era stato loro assegnato di svolgere.
Il ricordo
visivo che conservo di lui, paradossalmente, non è quello stereotipo del
docente, nell’esercizio delle sue funzioni, bensì quello che mi capitò di
osservare qualche tempo dopo aver superato gli Esami di Stato. Seppi, allora,
che il professore coltivava una sua passione sportiva, al di fuori di quella
per lo studio e il perfezionamento della sua cultura: il motociclismo da
diporto.
Lo scorsi un
giorno, infatti, su una fiammante moto Guzzi 500 con sidecar nel quale era
alloggiata la compagna della sua vita, sorprendentemente, il professore
indossava un completo tweed, giacca sportiva e pantaloni alla zuava, con una
“Coppola” da motociclista anni ’20, un vistoso paio di occhialoni da pilota e
una sciarpa marrone che si agitava al vento. Sembrava un perfetto “Gentleman”
del primo ‘900.
Mi piace
sempre ricordarlo così, come si fa per un vecchio amico di gioventù cui si deve
molto e al quale si è voluto bene.
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