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lunedì 11 marzo 2013

N. PARDINI: RECENSIONE A "CEMENTO" DI L. SPURIO


Recensione

a

Cemento

silloge inedita di Lorenzo Spurio

 

Costruivo zattere con legni scheggiati

nelle notti assolate di dicembre.

Avrei solcato fiumi e mari

spingendomi oltre

in territori mai svelati da nessuno.

In quei pensieri affondavo

e lo scricchiolante legno si spezzava,

dopo insicuri movimenti

su un mare oleoso.

Alla fioca luce di una abat-jour

sorseggiavo un finto whisky

e rievocavo ninne nanne d’altri tempi

convertite in litanie amare e senza fine

 

Cemento. Questo il titolo della prima silloge di Lorenzo Spurio tutta diretta a dire del mondo, dell’anima, di una storia fatta d’illusioni, delusioni, ansie, enigmi esistenziali, ma, soprattutto, del taedium vitae. Una trama intrecciata di brevi componimenti che gridano ingiustizie, accoramenti per un mondo che ci annulla; che rivendicano amore, onestà, anche dolcezza sulle dure massicciate di cemento che coprono spazi sottratti a primavere rigogliose di vita. E lo fanno ora con voce stentorea,  ora con voce cristallina; è la passione o la meditazione a guidare l’andamento del “poema”. Si!, perché è tanta la voglia del dire che a volte il verso si disarticola e si spezza, quasi a identificarsi, con un importante significante metrico, all’esondazione dell’anima, all’urgenza del suo sentire. A volte le immagini, riposate e decantate, ritornano a vita con l’ausilio di un memoriale incline al lirismo.      

 

… qualche mesto piccione nei dintorni

invoca un po’ di generosità

nell’uomo arrabbiato

per sua stessa colpa… (Pp. 10).

 

Voci ondulanti, appunto, per accompagnare  il variare degli stati d’animo, intensi e emotivamente ispirati; e, veri tatuaggi di un’anima aperta alla denuncia e alla confessione spontanea  e diretta, ci arrivano attraverso una parola ricercata, puntigliosa, voluta e guadagnata col gioco dell’esistere; dell’esserci, del riconoscersi e della difficoltà, anche, a sentirsi esistenti su un cemento che appesantisce, ma che si può, anche, crepare alla caparbia di un fiore. Da qui le analogie e le dicotomie fra il cielo e la terra, fra noi e il tutto; e gli interrogativi sul nostro essere umani con lo sguardo all’oltre, coscienti di una precarietà che ci turba:    

 

… Ridipingo scenari indistinti

con una penna invisibile

che il Fato ha voluto incancellabile

e mi appello a riscrivere il tutto.

M’illudo di esserci, ma non so

e per questo mi domando: “chi sono?”… (Pp. 6).

 

C’è tutto il tremito dell’essere in questi versi. E il poeta cerca con ogni mezzo di accattivarsi il supporto della natura, per dire di sé. Per involucrare la sua interiorità in muschi, in sempreverdi ombrosi, in mari, fiumi, petali freschi. E il linguaggio si fa, anche, audace, cucendo fra loro metafore di notevole impatto stilistico. Metafore che danno un fresco sapore di allusiva intonazione. Si!, perché il Nostro, pur partendo dal  quotidiano, dalle piccole cose, e dalle minime questioni, ha tutta l’intenzione di staccarsene, di svincolarsene, per proiettarsi al di là della siepe, nel tentativo di andare a fondo sulla questione irrisolvibile della verità. E da lì la sua tristezza, la sua malinconia. Una malinconia umana, troppo umana, che deriva, anche, da un inquietante confronto fra quei sempreverdi ombrosi, che scampati al cemento s’inchinano al Cielo, e quegli ampi cimiteri assolati di pianto. Lo scandalo delle contraddizioni. E’ qui il nutrimento della poesia.    

 

Sempreverdi ombrosi

al margine del cemento

screpolato

spaccato

rialzato

si inchinano al Cielo

sfidando l’umano.

Religiosi cerchi nel vuoto

cimiteri assolati di pianti

di chi più non ci sarà.

 

Ma mai il Nostro sfocia nel nichilismo, nel pessimismo. Perché ogni sua azione e reazione è frutto di un amore, di un sacrosanto amore per la vita.

 

Mi affaccio alla finestra,

un fruscio mi pare di sentire

terso è il cielo, fuggiasche le nuvole.

Rabbrividisco

in un’assolata giornata

di un luglio al vetriolo. (Pp. 6).

 

Un amore che ci fa rabbrividire di fronte alle meraviglie del creato. Ci fa ritrovare tutti noi stessi in quel maestoso, quanto divino equilibrio di bene e di male; di vita e di morte; di Eros e di Thanatos.
Ma c’è anche il rischio di sperderci in una solitudine mortificante, se non ci sentiamo convinti di far parte del tutto e della sua pluralità.

 

Non era tempo per favole

e idiote freddure, quello.

Il sole riscaldava l’erba,

l’aria e il cemento

ma non me.

Me ne andavo solo

riflettendo beota

mentre incespicavo

ai bordi di un marciapiede

spaccato.

Un gatto senza coda

correva baldanzoso

zampettando felice

in un prato

poco distante da me. (Pp. 8).

 
Ed è proprio quell’animale a fare da contraltare alle questioni impellenti dell’esistere. La coscienza e l’incoscienza. L’anima e la carne. E ci si arrovella la mente nel tentativo di rivelarci, di conoscerci; fino a piangere per certe sottrazioni:

 
 … La radio frusciava,

la televisione strillava,

io mi specchiavo

per ricordare a me stesso

come fossi fatto.

Ho visto petali freschi

divelti dai loro steli

in una fresca giornata di Maggio.

Ed ho pianto

davanti allo specchio… (Pp. 12).

 
Liriche fresche, zeppe di questioni irrisolte, di insoluzioni che dipendono dal fatto di essere umani.
Ma anche se il cemento è lì davanti a noi a coprire prati fioriti, non è detto che uno stelo non trovi la forza di aprire un pertugio per azzardare il suo petalo al Cielo. Lo stesso pertugio da cui riesce a sbucare questo canto, per aprirsi all’uomo con un verbo nato dal dolore.   

 

Nazario Pardini                                   09/03/2013

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