Recensione
a
Cemento
silloge
inedita di Lorenzo Spurio
Costruivo zattere con legni scheggiati
nelle notti assolate di dicembre.
Avrei solcato fiumi e mari
spingendomi oltre
in territori mai svelati da nessuno.
In quei pensieri affondavo
e lo scricchiolante legno si spezzava,
dopo insicuri movimenti
su un mare oleoso.
Alla fioca luce di una abat-jour
sorseggiavo un finto whisky
e rievocavo ninne nanne d’altri tempi
convertite in litanie amare e senza fine
Cemento.
Questo il titolo della prima silloge di Lorenzo Spurio tutta diretta a dire del
mondo, dell’anima, di una storia fatta d’illusioni, delusioni, ansie, enigmi
esistenziali, ma, soprattutto, del taedium vitae. Una trama intrecciata di
brevi componimenti che gridano ingiustizie, accoramenti per un mondo che ci
annulla; che rivendicano amore, onestà, anche dolcezza sulle dure massicciate
di cemento che coprono spazi sottratti a primavere rigogliose di vita. E lo
fanno ora con voce stentorea, ora con
voce cristallina; è la passione o la meditazione a guidare l’andamento del
“poema”. Si!, perché è tanta la voglia del dire che a volte il verso si
disarticola e si spezza, quasi a identificarsi, con un importante significante
metrico, all’esondazione dell’anima, all’urgenza del suo sentire. A volte le
immagini, riposate e decantate, ritornano a vita con l’ausilio di un memoriale
incline al lirismo.
… qualche mesto piccione nei
dintorni
invoca un po’ di generosità
nell’uomo arrabbiato
per sua stessa
colpa… (Pp. 10).
Voci ondulanti, appunto, per accompagnare il variare degli stati d’animo, intensi e emotivamente
ispirati; e, veri tatuaggi di un’anima aperta alla denuncia e alla confessione
spontanea e diretta, ci arrivano attraverso
una parola ricercata, puntigliosa, voluta e guadagnata col gioco dell’esistere;
dell’esserci, del riconoscersi e della difficoltà, anche, a sentirsi esistenti su
un cemento che appesantisce, ma che si può, anche, crepare alla caparbia di un
fiore. Da qui le analogie e le dicotomie fra il cielo e la terra, fra noi e il
tutto; e gli interrogativi sul nostro essere umani con lo sguardo all’oltre,
coscienti di una precarietà che ci turba:
… Ridipingo scenari indistinti
con una penna invisibile
che il Fato ha voluto
incancellabile
e mi appello a riscrivere il
tutto.
M’illudo di esserci, ma non so
e per questo mi
domando: “chi sono?”… (Pp. 6).
C’è tutto il tremito dell’essere in questi
versi. E il poeta cerca con ogni mezzo di accattivarsi il supporto della
natura, per dire di sé. Per involucrare la sua interiorità in muschi, in sempreverdi ombrosi, in mari, fiumi, petali freschi.
E il linguaggio si fa, anche, audace, cucendo fra loro metafore di notevole
impatto stilistico. Metafore che danno un fresco sapore di allusiva
intonazione. Si!, perché il Nostro, pur partendo dal quotidiano, dalle piccole cose, e dalle minime
questioni, ha tutta l’intenzione di staccarsene, di svincolarsene, per
proiettarsi al di là della siepe, nel tentativo di andare a fondo sulla
questione irrisolvibile della verità. E da lì la sua tristezza, la sua malinconia.
Una malinconia umana, troppo umana, che deriva, anche, da un inquietante
confronto fra quei sempreverdi ombrosi, che scampati al cemento s’inchinano al
Cielo, e quegli ampi cimiteri assolati di pianto. Lo scandalo delle
contraddizioni. E’ qui il nutrimento della poesia.
Sempreverdi ombrosi
al margine del cemento
screpolato
spaccato
rialzato
si inchinano al Cielo
sfidando l’umano.
Religiosi cerchi nel vuoto
cimiteri assolati di pianti
di chi più non ci
sarà.
Ma mai il Nostro sfocia nel nichilismo, nel
pessimismo. Perché ogni sua azione e reazione è frutto di un amore, di un
sacrosanto amore per la vita.
Mi affaccio alla finestra,
un fruscio mi pare di sentire
terso è il cielo, fuggiasche le
nuvole.
Rabbrividisco
in un’assolata giornata
di un luglio al
vetriolo. (Pp. 6).
Un amore che ci fa rabbrividire di fronte alle
meraviglie del creato. Ci fa ritrovare tutti noi stessi in quel maestoso,
quanto divino equilibrio di bene e di male; di vita e di morte; di Eros e di Thanatos.
Ma c’è anche il rischio di sperderci in una
solitudine mortificante, se non ci sentiamo convinti di far parte del tutto e
della sua pluralità.
Non era tempo per favole
e idiote freddure, quello.
Il sole riscaldava l’erba,
l’aria e il cemento
ma non me.
Me ne andavo solo
riflettendo beota
mentre incespicavo
ai bordi di un marciapiede
spaccato.
Un gatto senza coda
correva baldanzoso
zampettando felice
in un prato
poco distante da me.
(Pp. 8).
Ed
è proprio quell’animale a fare da contraltare alle questioni impellenti
dell’esistere. La coscienza e l’incoscienza. L’anima e la carne. E ci si
arrovella la mente nel tentativo di rivelarci, di conoscerci; fino a piangere
per certe sottrazioni:
… La radio frusciava,
la televisione strillava,
io mi specchiavo
per ricordare a me stesso
come fossi fatto.
Ho visto petali freschi
divelti dai loro steli
in una fresca giornata di
Maggio.
Ed ho pianto
davanti allo
specchio… (Pp. 12).
Liriche
fresche, zeppe di questioni irrisolte, di insoluzioni che dipendono dal fatto
di essere umani.
Ma anche se il cemento è lì davanti a noi a
coprire prati fioriti, non è detto che uno stelo non trovi la forza di aprire un
pertugio per azzardare il suo petalo al Cielo. Lo stesso pertugio da cui riesce
a sbucare questo canto, per aprirsi all’uomo con un verbo nato dal dolore.
Nazario Pardini 09/03/2013
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