Nazario Pardini
Serena Siniscalco: IL POESIARIO VIII. Genesi Editrice. Torino 2013.
Pp. 146. € 20
La fugacità del vivere
nell’armonia del verso
… Monili iridati in fulgore
modesto,
in tinta di latte, di giglio,
di neve;
ne sgranan le mani l’eterno
lucore
con alito d’ali o fiottar di
ruscello.
A quelle io tutto perdono,
persino
se sono fasulle, legate in
collane,
a giro di collo o in bracciali
raccolte,
avvolte più volte, a piacere…
(Perle, pp. 15)
Mi è giunto oggi 14 marzo Il Poesiario VIII di Serena Siniscalco. Un
dono da conservare religiosamente in biblioteca con tutta la considerazione che
merita un grande libro; un libro di prestigio, curato da una casa editrice di
tutto rispetto: Genesi Editrice, Torino. La copertina, con le sue preziose
perle, la dice lunga, a proposito, sia sull’indole della Siniscalco che sulla
sua poetica:
… E nitore di perle al collo
indosso
ed agli orecchi cascatelle di
neve,
a dar risalto agli occhi. Vere
astuzie.
(…)
Bianco come vorrei il futuro
breve,
bianca l’anima mia linda,
pulita,
bianca come quella signora
bella
che sta dietro la porta ad
aspettarmi. (Pp. 64).
Ma è soprattutto questo
candore che mi ha colpito. Questa purezza. Persino Thanatos si vestirà di
bianco per ricevere un’anima che ha amato, ama, e amerà, con tutta se stessa,
la vita; che l’ha amata pur nelle sue contrarietà e sottrazioni. E il vivere è
umano, anche troppo umano: il suo caduco esistere ci guarda in faccia,
predisponendoci alla tristezza, alla solitudine, ma anche all’abbandono
onirico, e alla gioia di starci in questo mondo, pur coscienti della precarietà
e dell’inconsistenza di questa grande avventura. Avventura di cui la Nostra
conosce bene l’inaffidabilità e la fugacità, ma di cui sa apprezzare, anche, l’incommensurabile
dono. Poesia/vita. Vita come atto supremo, come categoria dello spirito da
incidere su steli resistenti all’erosione del tempo. Da tramandare ai posteri
con tutta la sua sacralità. Perché di una vita si tratta, di quella di un
essere umano che dà tutto se stesso per questa antica arte, e le affida le
ansie, i tormenti, le inquietudini, le attese e i rimandi, le fughe e i ritorni.
Insomma tutto quel patrimonio, insostituibile, unico patrimonio, che, pur
sollevando questioni, è nostro in tutta la sua urgenza; in quella dell’anima,
ad esempio, della sua portata, del suo svolazzare sui fiori per portare all’essenza
della poesia il nettare del gioco
esistenziale, della sua permanenza vitale; del suo nascondersi in misteriosi
anfratti, per lasciarci soli o perché “il
cuore/ gioisca di te divina la presenza”.
E mi domando: “Dove stai
celata,
anima mia, afflato della vita?
Stai forse in grembo al cuore
come dentro
a un cespuglio fronzuto,
ombroso,
che attorno effonde refoli di
pietà,
di tenerezza e amore?... (Pp.
91).
Una
poesia tutta volta a dipingere Serena Siniscalco, la sua storia, una realtà
interiore, disposta a coinvolgere ogni particolare in tale funzione. Ogni pur
minimo tratto della quotidianità. Ed è poetando con simboli, con figure
stilistiche che il linguaggio sa farsi allegorico, allusivo. E che le serpi, la chiave segreta, il bosso, la
vela bianca, la clessidra assumono connotazioni ben precise nel rivestire
impulsi emotivo-intellettivi. Tanto che, dicendo allegoricamente, la Nostra dà
l’idea di collocarsi, con una serenità disarmante, oltre le cose; su una torre
ariostesca, dalla quale il mondo si fa più piccolo, le vicende meno
drammatiche, e lo spleen storia normale, fatale allo sguardo disincantato della
poetessa; al suo sentire; dove ogni elemento cospira a che la di lei dimensione
spirituale ne esca pulita, aperta, gioviale, pensosa; umana, insomma, e se
triste, pur sempre volta a rapire la luce al buio della notte.
(…) E il groppo sta là, nella
dipartita,
nel dove, quando, come. Sta
là, dove
non è risposta.
Ma domani…
il cielo
sopra il tetto, il raggio di
novello giorno,
il fringuello querulo sul
davanzale,
aire nuovo daranno a
proseguire
incontro ad un occaso
serenante. (Pp. 33-34).
Ed è proprio
questo serenante che, alfine, domina
sulla stesura del dettato poetico. Sì!, perché è la preziosità della vita a
incidere, a fungere da leit motiv in
questo lirismo coinvolgente sia per la spartitura lessico-fonica, che per la
cura attenta e puntigliosa del verbo. Sempre pronto, questo, a involucrare con
sonorità simbiotica i ritmi emotivi che, inevitabilmente, si fanno oggetto di
meditazione e riflessione per l’autrice; per la sua anima, cosciente di vivere
in uno spazio ristretto con lo sguardo rivolto all’oltre; in una diacronica
dicotomia fra il qui, l’ora e il sempre;
fra l’umano e l’ultra/umano; fra
l’inconsistenza del presente e il tentativo di fare della poesia un
messaggio universale, motivo che, nei suoi versi, si sa avvicinare, con
naturalezza, ad ogni spirito:
(…) Come meteora già s’invola
il tempo:
non bastano ore per narrar dei
giorni
lieti od amari degli
accadimenti
del mio peregrinare in questo
mondo. (Pp. 43).
Ed è nella poesia che la poetessa
scopre un’ancora di salvataggio. E’ ad essa che affida il sacrosanto compito di
risolvere o sminuire questi dilemmi di sottrazione. “(…) E il groppo sta là, nella dipartita,/ nel dove, quando, come. Sta
là, dove/non è risposta…” (Pp. 33-34). E si affida alla Musa perché non
l’abbandoni e la rigeneri in continuazione, perpetuamente, nel suo stretto
abbraccio col poiein; l’unico strumento in cui vede la possibilità di
perpetrarsi, di azzardare oltre la siepe il suo sentire, e spalancare la finestra al nuovo aprile::
(…) Alla tastiera passo alfin
le dita
leggere e con le note sboccia
il canto
che goccia dolce al cuore e
che mi dice
della mia “vie en rose” del
tempo andato.
E in pillole d’amore la poesia
spalanca la finestra al nuovo
aprile. (Pp. 42).
E la natura, toccata con delicatezza, con voce
educata dal silenzio, e con idillico umanesimo, interviene ad aiutare l’anima
del canto. Un umanesimo di colori, di luci, di sfumature, di ombre e penombre,
anche, in cui la Nostra trova la sua identità. E il mattino, il giorno, il vento di levante, la vela, il tronco
sradicato, la radice, un nido di primavera, i bocci, i fiori sfiniti sono
le tante configurazioni naturali in cui concretizza il suo pathos esistenziale.
Un pathos alimentato da meditazioni, melanconie, illusioni, delusioni, ma,
alfine, da una visione estremamente positiva della vita. Mai, qui, le
inquietudini o i ripensamenti sfociano in sentimentalismi decadenti o
pessimisti. Quando il sentimento volge alla malinconia, c’è sempre una virata a
riportare il tono su un binario di disincanto, anche d’ironia.
La poetica della Siniscalco è attenta ad
osservare il tutto e a farne tesoro. Ad osservare ogni pur minimo particolare della
realtà per costruire, con un’analisi psicologica puntuale, il suo percorso
interiore. Quel percorso vissuto con grande intensità emotiva, e che lei riabbraccia,
rievocandone le tappe essenziali, come un amore sempre nuovo per effetti
rigenerativi. Perché il memoriale ha un grande potere; può avere funzione di
alcova, dove rifugiare le nostre solitudini, dove ritrovare volti cari e
immagini di vita rasserenanti. E anche se soffre la Nostra, e pacatamente
soffre per il commiato (tormento della nostra finitezza di essere umani), tuttavia vorrebbe poter godere di un approdo sopra un prato di nuvole
lucenti:
Ho trattenuto il tempo con le
mani,
ma or lo sento sfuggire dalle
dita
e s’avvicina l’ora del
commiato.
Vorrei partire viva, occhi
vivaci,
lucida mente per goder
l’approdo
sopra un prato di nuvole
lucenti. (Pp. 23).
Una riflessione tanto
spontanea quanto umana: a chi le nostre memorie? a chi il nostro patrimonio? sarà
la mente sana per gioire di quell’approdo? Quale male più grande che perdere
l’identità, la memoria della nostra unicità. Da qui solitudini e meditazioni.
Ma, forse, affidandoci all’atto onirico, si può ingannare quel senso di
solitudine che attanaglia l’anima:
(…) E parlo ad alta voce con
me stessa
“Rimuovi presto l’ansie, gli
sgomenti,
ad esibir la tigre
che in grembo a te dimora.
E poi che a chiave hai ben
chiuso la porta,
le luci spente, affidati ad un
sogno:
il tuo ritorno a casa, i cari
visi.
E
ti sia lieto il sonno e serenante!” (Pp. 82).
Mai tragico, comunque, il futuro. Mai
eccessivamente travagliato. Semmai si veste di bianco, di rosa, di candido
manto, come candido l’animo della Nostra. Sincero, schietto, aperto come il suo
canto. Un canto armonioso, che fa, dell’endecasillabo, lo strumento principale
del suo orchestrare. Una melodia che avvince e convince. Una melodia che funge
da contraltare al significato/significante de Il Poesiario, intento a
tradurre, con naturalezza, la sua forza emozionale in un lirismo suasivo. In
un brivido che offre la possibilità di sognare e di lasciarsi andare a eterei
incantamenti. Sembra dire: “Questa è la vita; può essere cruda, triste, ma è
vita. Quel dono irripetibile che a te è toccato. Amala per quello che ti ha
dato! E ripagala con il canto che è pur
sempre un atto d’amore ed un inno al suo altare”. E Serena Siniscalco affida,
proprio, alla poesia il suo senso d’eterno, perché la ama, perché sente che è
l’unica parte di sé a non tradirla. E sente, sente profondamente, che ogni
lembo, ogni tappa di questa avventura, col tempo, si sono fatti terriccio
fertile per nutrire la sua anima. Anima degna di essere consacrata alla
luminosità di Calliope:
Fa che non tremi la mia mano,
lascia
che il mio sentire qualche
gemma serbi
sotto lo scalpo bianco del mio
inverno,
estremo bucaneve nel mio orto
che tutti i giorni un poco si
conchiude. (A Calliope, pp. 43).
Nazario Pardini 15/03/2013
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