IL RACCONTO E' RISULTATO VINCITORE DEL
Concorso “Bere il territorio” - Go Wine
Via Vida, 6 - 12051 Alba (CN).
Via Vida, 6 - 12051 Alba (CN).
LA PREMIAZIONE SI SVOLGERA' AD ALBA IL GIORNO
16 MARZO
Giuria
composta da:
Giorgio Barberi Squarotti (Università di Torino), Gianluigi
Beccaria (Università di Torino), Valter Boggione (Università di Torino), Bruno
Quaranta (La Stampa-Tuttolibri), Gigi Brozzoni (Direttore Seminario Veronelli),
Massimo Corrado (Associazione Go Wine), Salvo Foti (Enologo).
UN’ISOLA
DEL TIRRENO
Un’isola del Tirreno, nel secondo
dopoguerra. “Dei vasai” o “delle
scimmie”, a sentir litigare i dotti per
questioni etimologiche. In realtà era l’isola della terra e delle viti, ricca
di fatica, di vino, di miseria. Solidale,
però. I denari del turismo sarebbero
arrivati più tardi. Ci vivevano, infanti, la
mente e la mano che ora scrivono queste parole.
Colline e cave, forre e
dirupi, poggi e ronchi. Un territorio cui era ignota la pianura. L’agricoltura
s’aggrappava a piccoli terrazzamenti per sopravvivere; ma anche alle zappe e alla
feroce volontà di resistenza di quei nativi scuri e ossuti, pescatori nelle
zone costiere.
Vino, dunque, in
abbondanza (ancora si favoleggia di un gran portale costruito con calcina
impastata con il vino!). E buono. Ma, in soldoni, valeva poco, per carenza di
richiesta. Sicché, insieme con le persone, cominciò a emigrare
anche il vino. Questo verso la Toscana, quelle per le Americhe.
S’avviava così la
costruzione del vino: con trasporti violenti, e strascinati per chilometri, di
pesantissimi fasci di tronchi di castagno dalle selve in collina fino alla
cantina, cioè alla grande grotta scavata nel tufo, che alloggiava qualsiasi
cosa avesse a che fare anche lontanamente con il vino. Che, prima di giungere
al palato, passava dunque per le spalle, sotto forma di pali per sostenere i
filari delle viti. Era quasi un rito il
trasporto, spossante e odiato, ma necessario. Con tempi, tecniche e luoghi.
Uomini al posto di rari asini e di muli costosi. Quando tra le tenebre cominciava a farsi
strada a fatica il chiarore dell’alba, l’intera famiglia saliva in collina tra
i boschi di castagno e, dalla propria cógnë
(cumulo) di pali lasciati per mesi, dopo il taglio novennale, ad alleggerirsi per disidratazione, ne
prendeva quanti ognuno era capace di trasportare in spalla fino al paese: ai
bambini ne toccava in genere uno
piuttosto piccolo, tre-quattro alle donne, che issavano il peso in equilibrio
sul capo difeso dal cercine, agli uomini dai sette in su, con la coda di un rumoroso
strascichìo soprattutto nel pendio ad
ampi gradoni di selce che attutiva la forte pendenza e rendeva più agevole il
cammino. La durata del percorso variava
dalla mezzora a un’ora e mezza, secondo che fosse più o meno lontano il luogo
del prelievo.
All’inizio il carico non
appariva mai troppo pesante , ma diventava ben presto intollerabile per i
sentieri sassosi e accidentati e per gli opprimenti sobbalzi da
trascinamento. La stanchezza aveva però
stabilito i luoghi per posare, cioè poggiare il carico e riposarsi.
Giunti a destinazione, si
scaricava. I bambini a scuola, con un pugno di fichi secchi in saccoccia, gli
adulti di nuovo su, ruminando anch’essi fichi secchi o fave arruscàte (abbrustolite sotto la cenere),
con il supporto , nel percorso esofageo, di ampi sorsi di vino che trovava pace nello
stomaco più che nel tascapane. Pronti per un altro viaggë o trasporto. A volte, per risparmiare
fatica e fare metà tiro (percorso),
veniva adottata la tecnica a scuntë ( a
incontro): ogni trasportatore, percorsa la metà del tragitto, affidava il
carico alle spalle di un altro, che lo
deponeva (con un sollievo facile da
immaginare) davanti alla cantina. Si dimezzavano così percorso, tempo e fatica.
Spesso poi s’andava avanti
a carrià ‘e lignammë , cioè a
trasportare pali, per l’intera giornata.
Talvolta, ma raramente, anche in giorni di festa. Fatiche bestiali in tempi di
nera miseria, quando s’andava a lavorare, a volte, anche solo per la mangiata, come si diceva.
Il trasporto dei pali: lo presentivano e lo temevano o, come
dicevano, se lo “sognavano di notte”, con nessun piacere, in sogni sempre molto
realistici e spossanti lungo sentieri scabrosi e scoscesi, riverberati nel subconscio. E sapevano bene come,
dopo una giornata di quella fatica, ogni
membro del corpo, indolenzito e franto, provasse una “sua” sofferenza, quasi
come se non facesse più parte di un tutto e
fosse invece dotato di vita propria.
Ma questo era solo il
primo passo - quello meno desiderato - verso il vino, che ancora dormiva nel corpo
delle viti spoglie. Presto sarebbe sbocciato in verdi teneri e dolci, poi fieri e intensi; in corimbi e in grappoli.
E avrebbe fatto la sua strada. Necessaria, inevitabile.
I pali venivano spaccati,
in due o in quattro, nel cortile della
cantina. Con cunei di ferro e mazzuola
pesante. Rifiniti con il falcetto per eliminarne punte e schegge dolorose per
le mani, appuntiti e trasportati a fasci nei campi: ossatura di spalliere per le viti. Si preparava così ‘a potë, la potatura, che nell’isola indicava la semplice
allacciatura delle viti ai sostegni con salici o cúllëlë, dicendosi invece spuntà (spuntare, svettare) l’operazione del potare. E poi la zappa. Prima per
radere l’erbe, dopo per sotterrarle, incidendo
in profondità e rivoltando la terra.
Guai a non affondare adeguatamente il taglio! Si veniva additati in eterno come scansafatiche e,
peggio, non c’era rischio di essere chiamati ancora a giornata. Per fortuna ci pensava il vino a drogare il cuore e la zappa; con il
fiasco posto a tirë, cioè alla giusta distanza dal taglio, per la prossima bevuta. Perché così funzionava, che non si doveva
bere prima di avere zappato un congruo tratto di terreno. Arrivare al vino. Raggiungere
il fiasco del temporaneo sollievo, del
frugale piacere: il sogno (a tappe) dei poveri.
C’era un mondo, però, che
non riservava al vino l’ attenzione e la venerazione degli adulti. I bambini,
infatti, si chiedevano nella loro innocenza cosa ci trovassero quegli uomini
ispidi di pelo e d modi nel bicchiere di vino, peraltro terso e brillante, che prima assaggiavano a piccoli sorsi e con
rumorose aspirazioni, poi rapidi tracannavano . Così capitava che qualche
ragazzino ne sottraesse un po’ a casa
per assaggi comuni e carbonari, senza tuttavia
che quel liquido biondo ottenesse molto successo. Anche per questo i fanciulli lavoravano con poco genio, fino a quando un
genitore non spiegò con molta chiarezza
che tutti, in quel paese, con il vino ci campavano. E che quelle fatiche erano
indispensabili.
I piccoli intuivano, però,
che a stento si sopravviveva. Altro che campare! I dieci chili di farina e il
mezzo litro d’olio, spesso comprati “ a credenza”, cioè a debito; e la fame da
calmare con erbe e legumi; oltre i quali c’era qualche raro e festivo coniglio
“ ‘e fuossë”, allevato cioè allo stato semibrado in fosse ingrottate, e qualche
uovo. E nulla più.
Per gli adulti il vino era
l’universo vitale, l’oggetto del desiderio. Il vino! Presagito e
carezzato durante tutto il tempo della gestazione. Sfemminellare e
spollonare, rattralciare e spampanare, irrorare di verderame, imbiancare di
zolfo: altre tappe nella costruzione del vino. Nella natura prorompente di vita
. Nel sole, fidato compagno, tuffato in brillii marini accecanti, che
trasformava in oro e rubini tutte le uve, Forastera e Aglianico, Biancolella e
Cannamela, Zibacco e Guarnaccia.
Cantano, ormai adulte,
la mente e la mano che scrivono queste parole. Un agreste ditirambo.
Evviva il vino,/ biondo bambino,/ vivo rubino!// In sua difesa/ alla contesa/ il cuore si
schiera,/ larva guerriera./ Guai a chi tocca/ questo dio d’oro/ purpureo nume,/
soave fiume!/ Che brilli nella brocca o nella coppa,/ compagno canoro!/ Che
passi per la bocca e sia ristoro!// ... Ave, o vino,/ ti scongiura/ questo verace
figlio della terra:/ ogni cura,/ ogni guerra/ sospingi via con
lazzo fescennino./ E se vieni sulla tavola/ a solleticarci l’ugola/ la dolcezza
della favola/ sposa l’aspro della rucola./ E biondeggi/ e rosseggi/ e spumeggi/ e inneggi a tutta
gioia,/ e non più dolore o noia,/ ma colore ma vigore/ ma calore ma valore.//
... A cantarti venga Omero,/ venga, o vino, Alceo altero,/ venga il divo
Anacreonte,/ venga Bacco giù dal monte;/ venga Ovidio, venga Orazio/ e il
Magnifico e Chiabrera./ Qui m’arresto per lo spazio/ e perché sennò fa sera./
Venga ancor Francesco Redi,/ vengan pure i suoi eredi./ E io, ultimo,
m’accodo,/ umilissimo rapsodo.// Evviva il vino,/ biondo bambino,/ vivo rubino!
C’era sempre un padre a tenere
in pugno la tradizione, a dosare i precetti ai figli, quasi sempre in maniera
apodittica, a verificarne apprendimenti e progressi; a redarguirli aspramente o
a lodarli parcamente e con penuria di parole. Sedeva a capotavola,
severo ma buono. E c’era sempre una madre,
saggia e scura, ad aiutare nei campi, a governare la casa, la tavola e le
preghiere serali. E fratelli e sorelle, tanti
e rumorosi.
In un’isola del Tirreno,
di eroica fatica, il fiasco di vino, al
centro della tavola frugalmente
imbandita, aveva l’aspetto
solenne e austero di un nume tutelare. Mente e cuore cantano
ancora: Ma allorquando / sulla mensa
apparve il vino / svanirono i dolori, rise il cuore / guarito .
E coltivano la terra. Fanno
vino.
Nell’isola d’Ischia.
Complimenti per questo bel premio. Bell'Isola.
RispondiEliminaSimo
Il lavoro, il dolore, la fatica, la presenza, la fusione con la terra; coi colori, con la zolla, con il pampino, col vitigno; tutto rende l'animo puro e degno di far Poesia. Quel ditirambo fra il serioso e il faceto, zeppo di venature classico-agresti, quella tavola dove troneggia il fiasco come un dio protettore; lo stesso fiasco che si è dato, sempre, generoso, alla fatica, lui stesso uomo, e lui stesso cosciente della resistenza della terra alla zappa; insomma quell'isola è amore, forza, generosità, storia, e vino, vino, vino; si!, perché è il vino che richianma Omero, che riporta l'uomo alle sue origini per ricodargli che se esiste lo deve a quell'amore, a quel rispetto; a quel nobile sacrificio che l'ha reso tutt'uno, impastato, fuso col suo suolo. Che l'ha fatto uomo.
RispondiEliminaBravo Pasquale! Mi hai commosso. Mi sono rivisto bambino sul carro delle mucche a spargere pozzo nero o a raccogliere le manne. La grande riconmpensa a tanta miseria: il pranzo della trebbia o della svina. Ho sempre alle papille il sapore inconfondibile di pane e trebbiano.
Nazario