Questo
saggio di Franco Campegiani figura nel numero 51 della rivista “Testuale
critica” diretta da Gio Ferri, pubblicata on line qualche giorno fa
“L’INFINITUDE”, DI JEAN FLAMINIEN
Franco Campegiani
Da Jean Flaminien, poeta
di origini guascone vivente in Spagna, ricevo L’Infinitude, gioiello editoriale della Book di Massimo Scrignoli, che raccoglie l’opera omnia di questo
originalissimo autore. Mi ero già interessato di lui, unitamente al poeta
Sandro Angelucci, in un incontro organizzato il 21/04/012 dall’Associazione
“Nuovi Castelli Romani” a Grottaferrata (Roma), presso l’Abbazia di San Nilo,
dove presentammo la raccolta Preservare
la luce. Questo nuovo lavoro, un vero e proprio libro d’arte inserito nella
preziosa collezione Serendip della Book, è curato e tradotto superbamente da
Marica Larocchi, con prefazione di Julien Rixens e saggi critici della stessa
Larocchi, Antonio Rossi, Stefano Agosti e Serge Raphael Canadas.
L’Infinitude ripropone in forma unitaria le cinque opere
di Flaminien già pubblicate dalla Book in
raccolte singole: Soste, fughe
(2001); Graal portatile (2003); Pratiche di spossessamento (2005); L’acqua promessa (2009); Preservare la luce (2011). L’opera espone
fin dal titolo le valenze ossimoriche della poetica di Flaminien, ben spiegate poi
nel sottotitolo, Finitezza e infinito, a chiarimento di una visione del mondo
che fa del bifrontismo il proprio cavallo di battaglia. Limitato e illimitato si
contrappongono e si coappartengono, fondendosi incredibilmente tra di loro.
L’infinitude vuole essere un misto di Tutto e Nulla, di
Assoluto e Relativo, di Silenzio e Parola, di Essere e Tempo. Una scrittura
paradossale, dove i contrasti, illuminandosi vicendevolmente, anziché generare
confusione, producono ordine e senso. Una poetica, come scrive Canadas, che
“sveglia in noi una diversa modalità d’essere, qualcosa che l’Occidente e la
civiltà hanno perduto perché in preda all’avere”. E ancora: “Il tempo non è il
perno della poesia: essa non ha nulla da spartire col tempo: ed è questo il
perno della raccolta. Ma, come dice Daumal alla fine del Mont analogue, nella valle ci si può ricordare di ciò che si è
visto sulle vette. E qui, ora, ci è possibile orientare di nuovo la nostra
vita”.
C’è pertanto in
Flaminien “l’idea di tornare a un’origine sempre a portata di mano, a una
ripetizione, ma che sia una novazione,
come vuole Kierkegaard” (così Julien Rixens). Che cosa sono dunque le Origini? Io ritengo fuorviante intendere
questo termine in senso storico (o preistorico, che è la stessa cosa), in
quanto l’avviamento, la messa in moto
del tempo non può essere pensata come già inserita a tutti gli effetti nel
tempo. La creazione o la formazione del tempo non va confusa con
il tempo tout court, perché lo spunto
da cui prende inizio il tempo necessariamente deve partire da una dimensione
esterna alla temporalità.
Intendo dire che le Origini, i Principi del tempo sono in parte inerenti ed in parte estranei
alla temporalità. Con un piede stanno nella storia e con un altro
nell’eternità. Per cui “tornare alle origini” non significa tornare al passato
(storico o preistorico che sia), ma tornare agli archetipi, alle fonti
metastoriche, alle radici eternali del tempo, o dello spazio-tempo, rinnovando
il significato della creazione del mondo nella attualità. Tornare alle origini non significa andare indietro nel tempo, ma significa trovare la spinta, oggi,
che possa produrre una nuova nascita del mondo e della temporalità.
Penso che questo
intenda Flaminien con l’esortazione a preservare
la luce: un invito ad attingere agli inizi perenni (per cui sempre attuali)
della creazione del mondo; un’immersione della nostra creatività nei processi
creativi del creato. Questa luce universale, che è la luce dell’Essere, sa
ovviamente autogestirsi e preservarsi da sé, ma nella mente instabile degli
uomini è purtroppo intermittente: si spegne e si riaccende ciclicamente,
segnando le albe e i tramonti non soltanto di ogni vita intima, ma delle stesse
civiltà. Purtroppo, ho detto, ma per fortuna nello stesso tempo.
Preservare questa luce, per l’uomo, significa infatti recuperare il ricordo
delle origini, il che presuppone che lo si debba dimenticare.
La memoria che in tal
modo si illumina non è una memoria che si tramanda nei secoli, entro i flussi
generazionali, ma una memoria purtroppo
dimenticata e cancellata, caduta totalmente in oblio, la quale per fortuna può riaccendersi luminosa ed
improvvisa nell’anima, quando in qualche modo quest’anima muore. A quel punto
deve risorgere dalle proprie ceneri e la condizione necessaria per cui questo
avvenga è il black-out, la fine di un
ciclo storico, il crollo di una civiltà. O anche della singola personalità.
Ed è esattamente questa
la condizione esistenziale e culturale in cui oggi viviamo, con quel vuoto, quel nulla, quell’azzeramento dei
valori, cui vanamente si oppone una metafisica convenzionale, reboante e
retorica, che non fa presa, perché non può sostituirsi al lavoro che ogni
individuo è chiamato a fare personalmente nella ricerca della propria verità,
delle proprie fonti battesimali nell’assoluto. Contro questa metafisica
tradizionale, il nichilismo ed il relativismo hanno facile giuoco.
Quando Wittgenstein
ammonisce che è meglio tacere ciò di cui
non si può avere certezza, afferma una mezza verità. Il suo postulato è
valido nei confronti del linguaggio convenzionale, dove si ripetono a
pappagallo nozioni morali e retaggi spirituali certamente altissimi, ma non
conquistati in prima persona, non avallati dalla ricerca e dal tormento intimo.
Che certezze sono quelle che non sono farina del nostro sacco? Al primo soffio
di vento si sfaldano, per cui Il fideismo non può che subire scacco matto dal
nichilismo imperante. L’uomo di fede non è un fideista. Per lui è diverso,
perché egli è anche un uomo di dubbi, visto che la fede cresce con il dubbio e
con la macerazione interiore. La sua parola pertanto è credibile, è parola
viva.
Bisogna dire a
Wittgenstein che non tutto il linguaggio è convenzionale o tautologico. C’è un dire sorgivo ed autentico che non va
confuso con il detto o già detto ripetitivo e favolistico. Il
linguaggio creativo o mitopoietico si trova agli antipodi del linguaggio
mitologico, in quanto comunica un’esperienza inedita, una conoscenza di prima
mano, una rivelazione sul senso segreto della vita. Si dirà che tutto questo è
impossibile, in quanto la mente dell’uomo è fallace. Non sono d’accordo. La
mente dell’uomo è fallibile ma non
costituzionalmente fallace. Che si
possa sbagliare è un conto; che si sia destinati sempre e comunque a sbagliare
un altro. Cancelliamo queste nebbie.
La poesia di
Flaminien è un esempio di come la mente possa essere vergine, o meglio tornare
ad esserlo, allineandosi con il mistero della creazione e delle origini. Non si
pensi al superficiale spontaneismo, perché non c’è nulla di più profondo di ciò
che è vergine. Quella di Flaminien è
una parola che prorompe dai luoghi inaccessibili e incorruttibili dell’Essere,
risvegliando il senso della figliolanza e della fratellanza cosmica. Sta qui la
memoria della luce che si risveglia. E’ un linguaggio epifanico che cattura la
vertigine del primo giorno. E si resta rapiti dall’apparizione di questa realtà
che non è un mondo di favole, ma una realtà più piena di quella usuale, una
realtà radicata ancora nell’essere. Fiaba è l’astratto e angosciato mondo
usuale in cui ci siamo intrappolati (e ce ne dobbiamo far carico senza battere
ciglio, ovviamente).
Ma cosa c’è di più
reale del canto degli uccelli, della voce del vento, del ruggito del mare? Cosa
di più fondato del calore e della luce emanati dal sole? Cosa di più concreto
delle tenere albe e dei tramonti in fiamme? Se si cerca una logica razionale
per questo tipo di linguaggio, non si trova. E’ un mistero, come è un mistero
il canto del poeta, quando nomina e rinomina per la prima volta il mondo; o lo
stupore dell’uomo che scopre la propria appartenenza cosmica, le proprie
sorgenti universali, la propria essenza. Tutto questo è irrazionale, ma non
infondato. E’ irrazionale, ma è pieno di senso. Meglio, di buon senso. Questa è la luce da preservare: la luce irrazionale del
buon senso, la luce ragionevole della trascendenza.
Aveva ragione Kant a
dire che l’inseità è inconosibile: l’inseità, ovvero il mistero dell’in sé
dell’Essere. Aveva ragione, ma il postulato non deve fornire la scusa per
eludere il mistero, per togliergli spazio ed ossigeno, per sigillare la
coscienza di fronte all’impenetrabile. Al contrario, dovrebbe fornire lo spunto
per saltare il fossato, per superare – senza offenderli – i limiti della
ragione umana. Il mistero non si può conoscere, ma lo si può amare. E senza
necessità di tradurlo in dogmi. Si può essere amici e confidenti del mistero,
che poi è il mistero che noi stessi siamo. “Di
sé nulla sanno / gli astri in cielo / né gli uccelli sulla terra; / di loro
nulla / noi sappiamo”. Questi versi lapidari di Flaminien scolpiscono
meglio il concetto: nessun essere vivente conosce il proprio mistero, ma lo
vive, ne è il depositario e ne è irresistibilmente attratto, facendosi esso
stesso mistero.
Al di fuori di questo
Dire non c’è davvero nulla da dire,
perché c’è solo il già Detto e
ridetto, o come suol dirsi il fritto e
rifritto, utilissimo nella vita pratica, ma distante dalla vita reale,
dalla vita delle origini, dove tutto è assolutamente originale. L’intimazione a
tacere di Wittgenstein valga dunque nei confronti di chi pensa e parla in
fotocopia, non nei confronti di chi pensa e parla in originale, come il poeta
che abbiamo la fortuna oggi di ospitare. Con questo non intendo dire che la
comunicazione convenzionale si debba eliminare. Ci mancherebbe altro! Ha
anch’essa un ruolo da svolgere nella praticità quotidiana. Lo stesso
Wittgenstein, del resto – lo sappiamo – attenuò il proprio terrorismo
intellettuale in opere successive al famoso Tractatus.
Si può pensare, come
molti pensano, che, tolto il peso della rivelazione dell’Essere, alla
mitopoiesi resti comunque un compito minore validissimo: quello del giuoco
evasivo, dei piacevoli e ludici intrattenimenti estetici; o anche il compito
edificante dell’impegno etico-sociale, comunque immerso nel relativo. Ma qui
occorre un approfondimento, perché la Bellezza
è un valore assoluto e l’Etica non è
da meno, sia pure nelle molteplici forme che il Bello e il Buono possono
assumere nel relativo. In riferimento a cosa, infatti, il relativo è relativo,
se non all’assoluto? E in riferimento a cosa l’assoluto è assoluto, se non al
relativo? Il relativo si muove sempre e comunque sullo sfondo dell’assoluto, e
viceversa. E’ esattamente questa la visione dell’Essere di cui Flaminien è
cantore.
Una visione che,
d’altro canto, è propria di ogni autentica arte e di ogni autentica poesia. Ivi
compresa l’arte ludica, o la poesia giocosa, perché il giuoco non è mai
evasivo, se è vero che richiede al giocatore di mettersi in giuoco, ossia di
fare sul serio, di rischiare in prima persona. Il vero giuoco richiede un
fervore assoluto. Vero giuoco è quello del bambino, che attraverso di esso cresce
nella propria personalità e rafforza la propria spina dorsale. Ebbene, è questo
il giuoco dell’arte e della letteratura: un giuoco altamente costruttivo,
evolutivo, anche laddove l’autore si assuma il ruolo di divertire i fruitori.
Non è questo il caso
di Flaminien, ovviamente, e lo sto dicendo solo per avallare il concetto che
c’è sempre una spinta verso l’alto nei genuini processi creativi. Una tensione
dove assoluto e relativo giocano tra di loro. Un giuoco dinamico,evolutivo. Ed
è questa la grazia che occorre per poter essere creativi. Quella grazia, o
quella luce, di cui Flaminien ci informa, mostrando come il poeta sia ancora e
sempre legato ai processi ispirativi.
Ma non si pensi che
il poeta sia un eletto, un favorito dalla Musa, perché è solo attraverso il
duro lavoro sulla lingua che la
Musa può apparire. Ed è davvero esemplare il lavoro che in
tal senso svolge Flaminien. Un lavoro titanico in direzione minimalista, in
direzione ossia di scarto degli orpelli, di scarnificazione linguistica: un azzeramento
del chiasso babelico, una riduzione all’essenziale, ammesso che l’essenziale ci
sia. Una sfida, dunque. Ciò che resta, al termine di questo lavoro a ritroso,
di questa deculturazione linguistica è un sussurro luminoso indistruttibile, la
voce pura dell’Essere, colta al di là del chiacchiericcio mondano.
Jean Flaminien è un
cantore del mistero, delle armonie cosmiche. La sua poesia nasce da quel fondo
originario dell’Essere dove sono uniti gli opposti e dove “ogni male ha il suo bene, ogni dentro il suo fuori, ogni sotto il
suo rispettivo sopra”, come scrive Serge Raphael Canadas nel suo illuminante
saggio conclusivo, citando questi versi suggestivi e lapidari: “Non è terra / ciò che si apre / sotto i
nostri passi, / ma è sempre il cielo / sepolto”. Così le prospettive si
capovolgono e si svela il rovescio della medaglia in ogni situazione. Ed è lo
stato mentale tipico dei rinnovamenti, dei capovolgimenti, delle trasformazioni
epocali. Rinnovamenti dell’Essere immutabile, che sorgono dalle distruzioni. E
nella distruzione, purtroppo, ci siamo. C’è bisogno di quella scossa creativa
che generi un’alba nuova, un nuovo giorno.
E’ questa la
provocazione di Flaminien. Un’esortazione a tornare all’essere, a restare
fedeli all’ordine segreto del mondo, a lasciarsi sedurre dalla sua luce
misteriosa, non per amore di immobilismo, ma al contrario per amore di
cambiamento, di mutevolezza, di moto vorticoso. Non è poesia contemplativa,
questa, come può forse sembrare, giacché non c’è nulla di più dinamico dell’armonia
dei contrari, nulla di più trascinante e tumultuoso del mistero. La
concentrazione massima non può avere altri sbocchi che nell’esplosione, nel big bang da cui ha origine la vita
universale. Altro che contemplazione! Questa poesia è essenziale perché torna a
nominare per la prima volta il mondo. E lo nomina non d’arbitrio, bensì
registrando il suono stesso della sua apparizione. Non ci sono metafore o
allusioni. C’è un forte lavoro simbolico, questo si. Dove tuttavia il simbolo
(dal greco symbolon che significa unione) non è una rappresentazione
mentale, ma il diretto apparire dell’essere alla vita: visibile ed invisibile
legati tra di loro.
Riscoprire dunque la
terra, la madre di tutto il vivente, riscoprire il suo dinamismo, le sue
sorgenti universali. Ristabilire l’alleanza dell’uomo con il creato e con il
cosmo. Far tornare a girare i nostri meccanismi psichici secondo ingranaggi
universali. E’ una poesia, quella di Flaminien, che sulle prime produce
straniamento. Spiazza perché costringe a modificare angolazione. Ma dopo aver
cambiato visuale, il lettore può scoprire di trovarsi in un’altra e nuova
realtà: una realtà che lo trae in salvo, molto più concreta di quella in cui
abitualmente vive e viviamo. Per Flaminien l’uomo può tornare ad essere il principe dei regni, signore e custode del
creato intero: signore in quanto custode e non in quanto despota, come
purtroppo è diventato.
Potremmo pertanto
definire poesia edenica, questa di
Flaminien, con l’avvertenza che qui si parla di un Eden ritrovato, di un Eden
che si fa carico di tutta la devianza e che recupera innocenza al culmine di un
sofferto processo coscienziale. Istruttivo potrebbe essere un confronto con la
spiritualità e con la poetica francescana, purché questa non si confonda con il
Panteismo, filosofia a senso unico che schiaccia il divino nel mondo. Qui
parliamo di dualità, di capovolgimenti, di armonia di contrari. Utile potrebbe
essere un confronto con le culture native (animistiche più che panteistiche),
ma si deve tener conto che questa è una natività recuperata. Come tale è
intrisa del veneficio storico e della maledizione culturale. Una catarsi,
dunque, una purificazione: “All’insieme
di tutti gli esseri / ogni mattino mostrati nuovo, / / gli occhi lassù rivolti;
/ e divieni per sempre / l’eterno innocente”.
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