Umberto Cerio: Diario del prima. TIPOLITO ELLEGRAFICA.
Gaeta. 2011. Pp. 80
Un percorso, quello di Cerio,
tutto vòlto alla ricerca di se stesso, ad una attualizzazione del passato, a
una rivisitazione poetico-filosofica di quadri, di fatti, pur minuziosi, che
possano vincere, in qualche maniera, il potere dell’assenza, del tempo
sfuggito; una recherche: “Che cosa
raccontava/ tuo padre e tuo nonno e ancora altri avi,/ che tu potevi dirmi/
pescatori o allevatori d’api/ come Aristeo,…” (pp. 13). Una ricostruzione
articolata e complessa, in cui l’autore impiega tutta la sua architettura
poetica, sorreggendola con figure di antico nerbo classico. Un tempio di
colonne e di celle costruito su schemi di ingegneria ellenica, ma con pietre e
pensieri di una modernità profonda, coinvolgente, e, perché no, assillante in
questo assiduo tentativo di utilizzo del fatto. Si parte dal dialogo con la
madre, per recuperare, dai suoi sogni, dalle sue illusioni o delusioni, il
mondo che fu, il Diario del prima. Si
continua nella seconda parte con le ventuno ballate. Ma, nel complesso, è la
vita che emerge con tutte le sue problematiche esistenziali dell’esserci e dei
perché: fughe, ritorni, sogni, incertezze. E c’è, qui, la coscienza di vivere
in spazi ristretti e affollati da un mondo che trascura le esigenze di ognuno,
in questa sottrazione omologante. In primo piano il filosofo, che, con il suo
pensiero lineare e razionalmente finalizzato all’obiettivo, cerca il vero.
Pensiero vòlto, appunto, a dare consistenza al passato, a riportarlo a galla
con tutta la sua validità da nuova vita. Dall’altro il poeta, che, con la sua
fantasia e la sua originalità etimo-affettiva, con il suo verbo fresco e
incanalato a rivestire gli slanci emotivi, riesce ad amalgamare il tutto in un
poema di grande soluzione umana; di una soluzione che pretende di innervare energia spazio-temprale ad una linea che vada contro
le leggi naturali; e che faccia del passato una realtà solida di supporto ad un
presente pronto a slanciarsi nel futuro. Certamente con tutti quei dubbi che tormentano
l’uomo cosciente di essere umano. Il tutto in una prospettiva di scoperta, dal
risultato alquanto difficoltoso e problematico; e forse, proprio per questo,
oggettivo e vicino al sentire di ognuno di noi. E d’altronde sono proprio tutti
quei perché ad assillarci. E la cosa certa è che la vita è precaria e la
memoria stessa in tutta la sua labilità ce lo conferma. Ci conferma proprio
questa fugacità, questo implacabile scivolare e annullarsi delle cose: “Ora
l’inquieta sera delle donne:/ non sanno più il telaio/ né col fuso il filare
della lana…” (pp. 17). Ma si può recuperare questo patrimonio con la funzione
organizzata dell’intelletto? Si può tradire il tempo che si rifiuta di
prospettarci il presente? Lo si può fare ricercando storie, momenti, affetti,
pensieri, incontri o parole, ed andando oltre fino ai riti e alle alchimie
dei miti. Cercare là l’origine dei nostri credi e del nostro essere umani. Quei
miti che perdono la loro storia nei pozzi reconditi dell’essenza dell’uomo. Ed
è la seconda parte, quella delle ventuno ballate, ad affrontare questo aspetto
speculativo e suggestivo; lo fa un poeta che sa utilizzare magistralmente
pathos, vicissitudine umana, cultura classica, mito in un quadro poetico di
estrema compattezza e organicità. Un poeta che sa trattare il verbo in maniera
talmente duttile da renderlo ancella di un grande patrimonio emotivo. Cerio fa
del memoriale e del prima la sostanza della questione che più ci conturba:
essere mortali con l’occhio rivolto all’oltre.
Ballata della clessidra
Segna la mia clessidra
l’estrema
solitudine dei giorni,
doloroso
silenzio
dell’amaro
consumarsi del tempo.
E
ancora più feroce
voce
di vento inquieta e buia, a sera.
C’erano
albe serene
ed
i poeti inventavano i miti,
riempivano
il mondo
di
muse di eroi e sacre leggende,
popolavano
il cielo
di
Dei lontani da nuvole scure.
Gli
aedi cantavano
dolce
il sogno di Chimera e di Dafni,
la
speranza dell’uomo,
L’assurda
empietà di Teia e Iperione.
e
sapevano amore:
ma
un abbandono è sempre un abbandono.
Segna la mia clessidra vuota
vicine memorie di abissi,
l’inutile sangue dei sacrifici.
E sono giorni vuoti
se nuovo filo di Arianna si spezza,
se sacertà s’infrange,
se la ragione cede alla violenza.
E muori come Clizia,
uomo, guardando il sole che ti brucia.
Parola di universo,
negli occhi forza immane di bufera,
caduta degli Dei,
bruciare d’astronave nello spazio,
esplodere di stelle
e nel cuore che impazzisce, la notte.
Segna
la mia clessidra vuota
vicine
memorie di abissi
l’inutile
sangue dei sacrifici.
Nazario
Pardini 27/04/2013
E muori come Clizia uomo (...) segna la mia clessidra vuota vicine memorie di abissi (...) L'essenziale modernità di quest'opera poetica di Umberto Cerio dal titolo ballata della clessidra ha un cuore antico e fonda, nella soggettività della scrittura, l'umanesimo tragico della negazione. Mi sembra davvero un testo a più dimensioni in cui i miti, come sostiene il Prof. Pardini nella nota critica, ritornano nell'umano patrimonio emotivo con occhi rivolti all'oltre. Molto bella, complimenti. Cordiali saluti.
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