Ninnj
Di Stefano Busà
La traiettoria del vento
(Prefazione di Davide Rondoni)
Poesie
Collana
Le parole della Sibylla
diretta da Antonio Spagnuolo
Kairòs Edizioni. Napoli. Pp. 122
E’ col dolore che si
guadagna la parola
Sento farsi muta ogni letizia,
scolorire l’erbaspada nel fossato.
È questa l’ora che accende l’anima
e assedia il colore delle strade,
ti segna l’ultima gioia, la più
vera.
Rotolerà il seme sulla bruna
terra,
come versi disciolti e abbandonati
trascorreranno gli astri ad uno ad
uno.
Ancora non ho tempo di mostrare
il tralcio di dolore alla mia
carne,
e sono carne e tralcio, odissea
di un andare controvento
Opera
totale, questa ultima di Ninnj Di Stefano Busà, che abbraccia l’uomo in tutto
il suo essere ed esserci. Nella sua perpetua pascaliana diatriba, dicotomica
inquietudine di vivere da terreno con lo sguardo all’oltre. In questo suo stare
sospeso fra inferno e paradiso, fra piaga e urlo, fra terra e azzurro, fra buio
e luce, fra inverno e primavera, fra carne e spirito, fra vita e morte. E sta
tutta là l’essenza della vera poesia. Nello scandalo delle contraddizioni. E’
da questo scandalo che trae la sua linfa vitale, il suo taedium. C’è la vita,
qui; ma quella vissuta e immaginata; quella conquistata e quella sperata;
quella sofferta e quella proiettata; insomma quella vita dove si alternano
ombre, spiragli, dubbi, paure; ma anche campi di glicini al sole. Ed è da
questo percorso che la Nostra
giunge a guadagnarsi la parola e a proiettarla oltre il tempo, oltre la sua
misura, ed oltre la comprensione stessa.
Sì,
perché la poesia non è solo comprensione. Va ben oltre. Ed è con la parola -
scansione di tappe della via crucis – che va al di là del suo essere parola. E’
tutta qui l’intenzione e la caparbia etico-intellettiva di Ninnj Di Stefano Busà,
che, da una vita, marcata di una sensibilità sconcertante, affonda ogni perché dentro, per ridarlo al foglio non come
semplice messaggio, ma come verbo poetico. Proprio così. La differenza è enorme
fra ciò che si scrive per comunicare e ciò che si scrive per trascinare anima e
corpo oltre la siepe. Si può toccare l’ultra/umano. Ci si può inebriare di
questa contemplazione. Ne possiamo essere risucchiati, azzerati, annullati. O
forse realizzati in questo nostro proiettarci in azzardi. Sintonizzare il
nostro esistere all’esistere dell’infinitezza che contiene l’umano, forse, è il
cuore della Poesia:
io cerco
la parabola del cuore, interrogo
la compassione,
la meraviglia di un coro d’angeli
che scandisce muta la mia pena,
e quel tremore che in sé respira,
fin dai gorghi dell’ego e si placa
tra le braccia di madre, o nel
sangue
che occulta la felicità della
carne,
se esile fiammella si finge un
cielo chiaro. (Pp. 14)
E c’è un chiarore che rimane a
scandire quella pena, a darle un senso. C’è uno spiraglio di luce. Non solo lo vediamo a squarciare le nubi che
offuscano il cielo, ma lo sentiamo dentro noi; ed è lì che nasce e rimane. Rimane
dopo il dolore, le perplessità, i dubbi di una storia fatta di pene. E’ dalla
sofferenza che cresce. Dopo i travagli del vivere, dopo le croci del non detto,
del non fatto, del non osato, del non compiuto; dopo quei patemi che ci
esaltano e ci trasferiscono in un esilio che sa tanto d’immenso – e chissà che
l’esilio non sia questa terra e che sia proprio la Poesia a riportare l’anima
alla sua promessa alcova -:
Come uccello d’acqua svolerò
tra le rovine verso il sole,
sarò voglia o boccio di
pulviscolo,
fiore che dalle rive del giorno
chiama amore e moltiplica in sé la
sua follia
o il flusso venatorio del suo
sangue. (Pp. 15)
Ecco dov’è la Poesia. Dov ’è il suo senso.
Dove si nasconde il suo mistero. Quel mistero che ci stimola, che ci fa essere
plurali, che fa della vita un azzardo continuo verso l’affrancamento, verso
l’invisibile; ci scuote, ci tormenta, ci fa provare quei brividi ineguagliabili
se riusciamo a intaccarlo quel mistero, a creare un varco. Se riusciamo a
innervarci del suo sangue e penetrare nella sua forma di totale musicalità che
ci rende eterei. E volare come uccello d’acqua tra le rovine verso il sole,
significa svincolarci dalle cose per portare quel barlume verso una luce totale
in cui si completa.
Si
parte dai fatti terreni, da quelli veri, reali; è lì che la Nostra si mischia e si
“intrufola”, per uscirne macchiata, per contenerne quella pochezza apparente,
che già è trampolino di lancio verso la stratosfera del Poiein. Sì!, perché la Poesia siamo noi, col
nostro esistere fatto di inquietudini e tormenti, ma anche di equinozi di
primavere e di sogni. Per questo è utile l’inverno, per questo è utile la
notte; perché è dopo il dolore che si affaccia il piacere, ed è dopo il buio che
brilla uno spiraglio di luce.
E
c’è la coscienza del tempo in questi versi a scandire i ritmi vitali e mortali.
A rendere il “Poema” più umano. E’ nella
inconsistenza, nella fugacità del presente che l’uomo trova la sua dimensione
temporale e lo stimolo alla fuga. Una manciata di rena che scivola via tra le
dita con irrefrenabile velocità verso il nulla. La stessa memoria ne resta
sconfitta. Troppo grande è il potere dell’oblio. E’ umanamente disumano. Allora
si cerca di aggrapparci a quelle dune calde di spiagge ancora vive nella nostra
anima. Dune di agavi fiorite, anche. Che riportano a galla nutrimenti
indispensabili alla crescita del canto. Infoltiscono l’animo, lo saturano, e ci
parlano con voce sommessa di un passato che torna vero, anche dilatato, che ha
retto alle intemperie:
Mi accosto come posso
a questa notte che spinge in
lontananza
tutte le risposte in sottovoce,
le trattiene solo un poco tra le mani.
(Pp. 16).
Quelle risposte, trattenute anche
un poco tra le mani, possono dare la
forza per cercarne altre; basta richiederle alla vita, per squarciare quel
mistero che contiene proprio la
Poesia:
Una vicenda necessaria è questo
vivere
in forse, questa smania di
resistere e lottare,
questa fuga monotona che ha perso
ogni suo smalto.
Le cose più vicine sembrano brevi
accenti,
l’oracolo non segna il calendario,
inala nelle vene solo il suo
morire
a silenzi intermittenti, che già
scrivono
tasselli a rime stanche.
Il senso di ogni cosa lo serba la
memoria. (Pp. 17).
Quella
memoria che può essere alcova di riposo, sospensione di vicissitudine
quotidiana, nirvana edenico, ma anche coscienza di precarietà del tutto a cui
si può sopperire affidandoci agli orizzonti che svincolino dal caduco.
Direbbe
il poeta: “Il tempo, il luogo, e la memoria fanno della vita un libro da
leggere, rileggere e sognare; un libro che vale la pena portare con noi, in
ogni caso ”.
E’ talmente profondo il pozzo delle
emotività della poetessa, che sente la necessità, sempre più impellente, di una
rete verbale disposta ad amplificarsi per corrispondere a tanta urgenza
interiore:
E io non ho parole, ma solo
qualche sillaba
di scorta, qualche nulla che è
uguale
ad altro nulla e vince sempre
il buio dopo la luce, e tutto si
conclude,
tutto tace, come un battito di
ciglia
controsole, un gioco di parole
necessari alla storia di tutti, di
ognuno. (Pp. 18).
La parola – è il caso di dirlo – è
un suono/segno umano; l’anima è spirito che aleggia verso le mete del cielo,
che tende a elevarsi; e la
Nostra percepisce questa disuguaglianza; da qui la sua
ricerca verbale, la sua acribia tecnico-fonica, la sua premura di incastri
etimo-allusivi, che la contraddistinguono nel diorama letterario attuale. Che fanno della sua avventura artistica un punto
di riferimento di rilievo.
Lei sa che la Poesia è lì per essere
catturata; e che è quell’insieme di corpo e di spirito disposto a salire, ad
andare oltre. Trovare quella simbiotica fusione, ricorrendo ad immagini
filtrate dal tempo, o a combinazioni di sapore panico che ci aggancino alle
primavere, e ci svincolino dall’impasse degli inverni, vuol dire elevarci a
quelle sonorità di cui gli innesti verbali sono l’anima. E’ allora che quel
canto trova il verso di scorrere pregno di significanti che interagiscono con
l’uomo e il suo esserci. E credere un po’ ai rigori degli inverni, o ai buiori
delle notti può far bene, perché si possono apprezzare ancora di più gli
slarghi primaverili delle mimose; le aperture infinite della luce:
Forse un po’aiuta questo credere
agli inverni…domani sarà equinozio
di primavera che ci porta lontano
dall’impasse,
dai giorni stenti,
e dai volti che non tornano,
o spuntano alla rinfusa, senza
nome. (Pp. 19).
E anche se il vento ha la sua
traiettoria, e anche se niente può cambiare il dipanarsi degli eventi, la Nostra sa che la luce
esiste; e che può illuminare il vento più tenace; che lo può riscaldare. E che
lo può fare ai margini degli inverni, quando i nidi sono spogli, quando la
notte sostiene le azzurre dimore, proprio perché è da là che riaffiora il
giorno, come dall’inverno riaffiora una primavera che sa tanto di vita:
Ci vuole la notte...
per liberare fioriture di labbra,
scaldare sguardi e giorni
capovolti,
sensi ossidati e trascorrenti.
A margini invernali, tra nidi
spogli
e passeri svolati la notte
rallenta la morte,
sostiene tra le pallide ombre
l’artificio degli occhi, le
azzurre dimore,
senza più sogni Pp. 111).
E rinasceremo come glicini nel sole:
Non resta che un campo
di maggese, un segnale fiammante,
che non cede, balugina appena
un altro incanto: rinasceremo
come glicini nel sole. (Pp. 100)
Nazario Pardini 08/04/2013
Interessante ed ottima presentazione.
RispondiEliminaQui c'è stoffa! Una presentazione che parla poeticamente, scevrandosi di tanti intrugli tecnicistici, che il più delle volte dicono e non dicono.
RispondiEliminaMaurizio