Stefano Massetani: Fiore di vetro. Giovane
Holden Edizioni.
Massarosa (Lu). 2012. Pp. 72
Una
plaquette, questa di Stefano Massetani, intensa ed emotivamente coinvolgente.
Un vero canzoniere d’amore; e si sa quanto l’amore abbia pesato nel corso della
nostra storia letteraria: da Lesbia, a Delia, a Lidia, a Beatrice, a Laura, a
Fiammetta, a Silvia…; quanti i nomi che dovremmo citare per scrivere di storie
affascinanti ed uniche. E, d’altronde, è proprio questo sentimento la causa scatenante
di ogni rivoluzione interiore. E dico dell’odio, dell’amicizia, del taedium vitae, dello spleen, della gioia, della malinconia,
della vendetta… Sì!, il pane di ogni espressione artistica: di una romanza, di un dipinto, di una
confessione, insomma, che si possa fare universale, tanta è la contaminazione
oggettiva, la sua influenza sulla pluralità dei fruitori. Ed è proprio questo
sentimento a procurare gli sconvolgimenti interiori più eclatanti, e quindi a
produrre le occasioni più fertili per il mondo dell’arte. E che cosa è questa
poesia se non che rovesciare sul foglio tutto di noi stessi, con le nostre
perplessità, coi nostri dubbi, con le nostre incertezze; che cosa se non confessare
queste emozioni che, magari, decantate nell’animo, si ripresentano avvolte da
una dolce e piacevole malinconia, intenzionate a ritornare a vivere. A farsi
vita nuova con l’apporto di una parola che, vigile ed attenta, si snoda, si
scompone, si adatta e si supera, anche, in un travaglio di ricerca, per dare
voce a quei corpi. E si sa che la parola difficilmente è sufficiente a coprire
gli immensi spazi del sentire. Ed è per questo che il Nostro non disdegna
azzardi fonico-linguistici - pur in un campo semantico caratterizzato da un
fluire semplice ed arrivante – azzardi
figurativi che
sforzano la loro apertura cognitiva per seguire i grandi input emotivi. Un vero
canzoniere d’amore, quindi, dove l’autore segue una linea introspettiva
personalissima, che determina, alfine, l’autenticità e la compattezza
dell’opera. Si tuffa in se stesso il Nostro e, attraverso un’analisi
psicologica puntuale e continua, smonta i suoi stati d’animo, per rassemblarli
poi in una visione amara e struggente; per giungere ad una conclusione
melanconica, quasi distruttiva, anche se mai nichilista. Perché è l’amore per la vita
che emerge, alfine, da queste pagine; sì!, l’amore per la sua sacralità. Questo
grande dono che ci è stato dato, e per il quale possiamo godere, soffrire,
patire, e gioire per il fatto di esistere. E il Nostro è cosciente di questa
sua esistenza e porta alle estreme conseguenze la sua riflessione su questo
forte sentimento. Ama, ama fortemente; e ama a tal punto da credere che nessun
altro amore potrà ricompensare, o ripagare il suo stato d’animo. L’unicità del
sentire portata avanti con un’analisi psicologica sconcertante per la sua
costruzione emotiva. Tassello dopo tassello. Momento dopo momento. Tutto
finalizzato ad un pensiero portante. Non può essere eguagliato il suo sentire.
E questa forte percezione non è forse valorizzazione del vivere? non è forse
convinzione di questa irripetibile unicità? E’ questo crogiolo di emozioni che
dà ragione alla vita. E il poeta, cosciente della sua precarietà, della sua
inconsistenza, cosciente del fatto che tutto scorre velocemente, vorrebbe che
questa superlativa prova esistenziale si facesse eterna, potesse andare oltre
il tempo. E per questo ricorre spesso al ricordo. Quel ricordo, che, come
alcova contro le delusioni o i rammarichi del vivere, è lì che attende per
offrirsi come rifugio e continuità, anche, della vita stessa:
“Quando la luce del nostro
sole volgerà al tramonto,
e l’ombra si farà forte.
Uccidendo i colori del mondo,
io ci sarò.
(…)
Ti sussurrerò, con un filo di
voce,
tutto ciò che la memoria avrà
custodito,
(…)
Forse qualche lacrima bagnerà
il ricordo
di momenti ormai lontani nel
tempo,
mi basterà la speranza di un
solo tuo sorriso,
ed io ci sarò” (pp. 15).
Sì!,
la speranza di un sorriso. E’ questo che conta per l’autore, che, con la sua presenza, domina
il percorso di questa avventura che è la vita; perché è il suo mondo, la concezione
dell’amore a dominare; è questa presenza che avvolge ogni pagina, ogni
sintagma, di questo poema erotico-sentimentale, quasi da Dolce Stil Nuovo per
la spiritualità con cui è condotto. Ma certamente nuovo per l’attualizzazione
degli intenti emozionali che, tradotti in versi ora ipermetrici, ora
addirittura binari, riflettono, con malizia, una metrica novativa e
strettamente legata, in maniera originale, alle oscillazioni dei battiti cardiaci.
Ed è in questo dominio che l’autore cerca di dare vita a quello che non è più;
forse, proprio perché, vuole vincere il gioco sottrattivo del tempo.
“Ma che importa quanto
l’ultimo abbraccio dura,
se lega il suo ricordo ad ogni
accendersi di stelle” (pp. 17).
Ma
il ricordo può essere un’arma a doppio taglio: da una parte gioca a favore in
questo repêchage di emozioni che tornano impetuose ad esistere; dall’altra ci
dà un segnale esatto, una percezione avvilente di quanto sottile sia l’ambito
del nostro esserci. Del nostro avvinghiarci inutilmente alla statura
immensamente abnorme di un’età che sfugge inesorabilmente. Di una stagione che
macina i giorni e che si annulla amaramente come rena che scivola fra le dita:
“Mi immergo nel mare dei
ricordi,
quasi fossi un calmo lago
senza sponde,
e mentre ancor mi bagnan
l’onde,
taccio,
come naufrago adagiato sulla
spiaggia,
con le mani setaccio la sabbia
della vita,
cercando invano
d’imprigionarla tra le dita” (pp. 47).
Ma
anche se la tristezza sembra sia un sottofondo musicale che accompagna
sinuosamente le pagine di questo poema d’amore e di vita, alla fine, è un
guizzo di speranza che irrompe dal tessuto musicalmente affabulante del testo:
“Voglio innamorarmi ancora”. E anche se quel “Fiore di vetro” ci dà una chiara
percezione di quanto siano fragili l’essere e l’esistere con tutti i loro
rimandi, alla fine, è questa impennata positiva a portare luce al dipanarsi del
male di esistere:
“Voglio innamorarmi ancora,
per ripercorrere, lentamente a
piedi,
la strada che ci ha
conosciuto,
soffermandomi di tanto in
tanto,
seduto da un lato su di una
pietra,
ad aspettarti,
mentre respiro l’odore della
polvere,
che lenta ed inesorabile si
posa su di me,
lasciando tracce visibili che
ancora una volta non saprò
cancellare” (pp. 56).
E
non è detto che quella “polvere” non sia la substantia
di una storia che, in definitiva, l’autore consegna alla poesia per farne
un messaggio da sottrarre al logorio delle stagioni.
Nazario
Pardini
09/04/2013
Complimenti, molto sensibile ed anche il titolo da l'idea della fragilità oltre che la bellezza. Ottimo. Grazie.
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