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venerdì 26 aprile 2013

PAOLO BASSANI: IL MIO PRIMO GIORNO DI LAVORO


PRIMO MAGGIO:

FESTA DEL LAVORO

  

 

IL MIO PRIMO GIORNO DI LAVORO

ALLA TERMOMECCANICA

 



 

 
 

Pagina della memoria

di Paolo Bassani

 

 

In occasione di questo I Maggio 2013 , Festa del Lavoro, o meglio, dei  Lavoratori,  desidero ricordare su “Alla volta di Leucade”  il mio primo giorno di lavoro, che avrebbe cambiato la mia vita dando speranza e certezze al mio futuro.

 
Mi arrivò, inattesa, una cartolina postale con una comunicazione altrettanto inattesa: “La preghiamo di presentarsi per notizie che la riguardano”. Mi giungeva da un mittente per me, allora, quasi sconosciuto: Termomeccanica Italiana S.p.A. Cercai di sapere qualcosa di più. “E’ quel grande stabilimento metalmeccanico di Via del Molo, vicino al cimitero” mi dissero, aggiungendo: “Hai fatto qualche domanda di lavoro?” No, assolutamente.” risposi. “Ti conviene, in ogni caso, andare e sentire che cosa vogliono” mi fu consigliato. E così, il giorno dopo, mi presentai all’azienda. Non avevo faticato a trovarla, sia per la vastità del complesso, sia perché conoscevo la strada dei Boschetti: due mesi prima l’avevo percorsa accompagnando mia madre al cimitero, morta improvvisamente in giovane età.
Quando giunsi davanti all’entrata della Termomeccanica rimasi colpito dal grande portone bronzeo su cui campeggiava una grossa T scolpita e, dall’ampia elegante portineria che assomigliava al salone di ingresso  di un grande albergo. Fui fatto accomodare in una saletta attigua in attesa che il direttore amministrativo si liberasse. Mi ricordo che sulla porta del suo ufficio c’era una sorta di piccolo semaforo: la luce rossa significava che non si poteva entrare. Quando apparve il giallo il portiere, tenendo tra le mani la mia cartolina,  mi introdusse nell’ufficio. Dopo una breve presentazione il direttore spiegò le ragioni della convocazione: “La nostra società ha deciso di ringiovanire il proprio ufficio paghe. Abbiamo preso contatti con il vostro istituto scolastico e, poiché lei risulta tra i diplomati meglio classificati, le facciamo la seguente proposta: Sarebbe interessato ad iniziare un rapporto di lavoro con la nostra società? Inizialmente sarebbe collocato all’ufficio paghe, come tirocinante… in seguito, in base alle sue qualità,  potrebbe anche migliorare il suo percorso professionale all’interno dell’azienda.” Non mi aspettavo quella richiesta e, quindi, non seppi dare una risposta immediata. Invero, ero ancora immerso in quella incerta atmosfera subentrata alla morte di mia madre. Non avevo ancora deciso che fare. Mi sarebbe piaciuto continuare gli studi, ma non avevo ancora valutato le impreviste difficoltà che si affacciavano. Al direttore non sfuggì la mia incertezza e, quindi, mi disse (ho qui stampate nella mente le sue parole): “Comprendiamo che dobbiamo chiederle di prendere una decisione importante per la sua vita”. Dopo un attimo di pausa aggiunse: “Le diamo una settimana per rifletterci. Se, poi, la proposta non le interessa,  non è necessario che torni di persona a riferirlo: ci dia una telefonata e noi contatteremo altri…” E, così dicendo, mi allungò il suo biglietto da visita.
Tornato a casa, pensai tutto il giorno a quella proposta senza approdare ad alcuna decisione. La mattina seguente, però, mi fu tutto più chiaro. Fu sufficiente un semplice ragionamento a farmi decidere. La Termomeccanica era una grossa azienda che contava oltre mille dipendenti. Pertanto, disponeva di una mensa aziendale. Evviva! Avrei risolto metà del mio problema: a mezzogiorno avevo un pasto assicurato; soltanto la sera, quindi,  sarei andato alla mensa dei ferrovieri. Già, non ho detto che con la morte di mia madre la nostra famiglia si era  ridotta a mio padre ed io. Mio padre era ferroviere e, quindi, faceva spesso i turni del giorno e della notte. Ecco perché anch’io spesso, per stare insieme con lui, andavo a mangiare alla mensa dei ferrovieri. Mi tornano alla mente le parole dello scrittore Giovanni Petronilli: “La sofferenza maggiore non è tanto vivere soli, quanto mangiare in solitudine”.
La vita è fatta di momenti vissuti. Alcuni di essi restano a segnare per sempre il percorso. Uno di questi è per me il 9 dicembre 1957: il primo giorno di lavoro. Alle 8 ero già in attesa in portineria. Con mio stupore e piacere trovai Renzo, un mio amico di scuola, anch’egli in attesa di entrare all’ufficio paghe. Aspettammo quasi un’ora, poi finalmente il direttore ci chiamò e, personalmente, ci accompagnò all’ufficio paghe. Mi ricordo che, aperta la porta,  tutti gli impiegati scattarono in piedi: “Vi presento i vostri due nuovi colleghi” disse con voce solenne. Incominciava così il mio primo giorno di lavoro. Ero talmente felice che mi pareva di vivere un sogno. Ritrovo vivi come allora i nomi dei colleghi: Figari, Filattiera Zignani, Garetto, Monti, Baldi, Tanzi e, naturalmente Michi, l’amico entrato con me; poi, qualche tempo dopo,  Calamai (nuovo capoufficio) e successivamente Sommovigo e Barcellone.
 L’ufficio paghe si era davvero ringiovanito: eravamo in sei “ragazzi”, tutti provenienti dalla stessa scuola. E’ bello, dopo i tempi dello studio, ritrovarsi insieme in uno stesso ufficio! Per me, poi, lo era ancor più, perché il lavoro e gli amici colmavano il grande vuoto di solitudine che la morte di mia madre aveva aperto (come ho detto, ero figlio unico e mio padre era spesso impegnato nel lavoro). Ero così contento di lavorare, d’essere in un ambiente amico, che l’impegno non mi pesava, anche quando mi fermavo, oltre l’orario, per imparare ad usare (senza guardare i tasti)  la calcolatrice meccanica. Pensate! La felicità di quel lavoro mi faceva trovare perfino in disaccordo con il buon Leopardi. Vi ricordate?  Egli, pensando alla domenica,  aveva scritto: “Diman tristezza e noia/ Recheran l’ore, ed al travaglio usato/ Ciascun in suo pensier farà ritorno”.  No! Non era così per me. In quei tempi, invero, io mi sentivo quasi contento la domenica. Pensavo che l’indomani sarei tornato in ufficio, tra gli amici, in “famiglia”.

 

 

Oggi, ricordando il mio lavoro,
a distanza di tanti anni,
io, non più giovane,
dei giovani sento
e interpreto le attese
nella sofferta ricerca di un lavoro
che possa dare dignità e speranza
alla loro vita.
 
 
 

      FORTUNATO…
 
Fortunato chi ha un lavoro
che dà speranza al suo futuro:
   un lavoro stabile
      sicuro.
Fortunato chi non deve
lasciare la sua terra,
andare lontano
pellegrino come profugo
   in cerca del domani.
Fortunato chi vede
dischiudere il germoglio
del seme gettato
   e fiorire  
      il sogno dell’attesa;
chi nel lavoro sente realizzata
la sua dignità di uomo
   e finalmente libero
può farsi una famiglia,
avere una casa,
giungere all’autunno
con la giovinezza in cuore.
 
     Paolo Bassani
 

2 commenti:

  1. Racconto tratto dalla pubblicazione "Dai miei 12622 giorni alla Termomeccanica", stampata in occasione del Centenario della Termomeccanica (1912 - 2012)
    L'autore

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  2. Racconto riportato sul mio nuovo libro "RIVERBERO" stampato in questi giorni
    Paolo Bassani

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