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domenica 23 giugno 2013

VITO MORETTI: AD UN PASSO DALLE OMBRE


Ad un passo dalle ombre
di
Vito Moretti




Vito Moretti

Si era messo in testa che gli restasse poco da vivere, anche se – a guardarlo – non presentava alcun segno che facesse pensare a questa triste eventualità, anzi, al contrario, Elisio aveva un colorito piuttosto piacevole, di quel bruno acquisito nelle lunghe ore di lavoro all’aperto e di esposizione al sole e ai venti marini, e aveva un aspetto che i capelli bianchi non curvavano ad un’idea di vecchiezza o di malferma e sfibrata senilità, ma a quella soltanto di un’età matura, che nel paese significava per i più saggezza, esperienza, moderazione e che dava luogo, dunque, anche nei giovani, a sentimenti di riguardo e ad attitudini di ossequio e di ascolto.
Elisio, però, benché non avesse nulla di cui rammaricarsi, e pur vedendo la propria esistenza continuare nella maniera di sempre, era certo di essere malato e di poter contare ormai i giorni che lo separavano dalla tomba; non sapeva dire a nessuno di che malattia si trattasse e dove il male lo stesse consumando, ma lui ci avrebbe scommesso – se avesse avuto poi il modo di ritirare la vincita – e, nonostante le parole confortanti del medico, che continuava a dirgli di star tranquillo e che in lui non c’era nulla di cui aver pensiero, Elisio non si dava pace: immaginava di essere afferrato in tutte le ossa e di essere tirato giù, a piegarsi come se i suoi nervi e i suoi muscoli fossero di colpo troncati da una forza più grande della sua stessa volontà; altre volte gli pareva che una mano invisibile gli entrasse nel petto e gli rigirasse lo stomaco a suo piacimento, fino a rallentare i battiti del cuore e quasi a fermare il giro del sangue nelle arterie e nelle vene, o che un tremore giunto chissà da dove e chissà come lo obbligasse ad oscillare e a fremere senza che lui potesse tener ferme le mani e le gambe e persino la testa; allora si accostava ad un angolo di casa, ad uno spigolo qualsiasi della cucina o del fóndaco e aspettava che tutto passasse. Aveva anzi sviluppato, nel corso delle settimane, una sorprendente abilità nel prevedere le crisi e nel superarle, senza chiedere alcun soccorso ai familiari e senza neanche tener nascosto quello che ripetutamente gli succedeva, ma facendone addirittura un motivo di disputa con i dinieghi del medico e con i consigli di quanti gli raccomandavano la calma e il riposo.
Solo Faustina, la giovane nipote dai grandi occhi verdi e dalla ciocca nera che le scendeva a carezzare la fronte, sapeva che i disagi di Elisio avevano avuto inizio dall’incontro con Leonilda, la maga di Vittorito che, percepita la fragilità emotiva dell’uomo, gli prognosticò un male sconosciuto, dal quale lei sola, con le sue ritualità caldee, avrebbe potuto liberarlo, in cambio – si capisce – di un adeguato compenso. Ma Leonilda raggiunse l’inferno prima di poter raccogliere i frutti della sua semina malvagia, ed Elisio restò con la convinzione di essere stato vittima di un maleficio che l’avrebbe condotto sicuramente alla morte. Né gli giovarono le parole affettuose e rivelatrici di Faustina, con le quali la giovane gli chiariva che il suo male era soltanto un’autosuggestione e che, in fondo, per la sua salute, così priva di patologie e di afflizioni fisiche, egli avrebbe dovuto rivolgere «un pensiero di gratitudine al Signore» e ringraziarlo anche per avergli conservato intorno le persone più care, il loro bene e la disponibilità che gli manifestavano tutti i giorni. Ma Elisio non aveva che i pensieri suoi e contava all’indietro, su un calendario appeso al muro, il numero dei mattini in cui sarebbe tornato ad aprire la finestra e a vedere il sole alzarsi sulle vigne e sui mandorli e a sentire il mondo che riprendeva il suo passo dopo il sonno della notte.
La presunta vicinanza della fine lo spingeva, anche senza che lui lo volesse, a ricordare i fatti e i volti della sua esistenza, i nomi di coloro gli furono accanto nel corso degli anni e le ansie e le gioie che puntellarono le sue scelte d’un tempo, che «non furono peraltro molte, perché nel paese il destino di ognuno è una storia senza sorprese, un fiume che si sa da dove viene e dove poi cessa di essere fiume, come accade per tutti i cristiani, che nascono uomini e finiscono polvere e cenere nel grande catino della terra».
Gli tornavano così in mente i Letizia, che se ne andarono in America portando via la bella Adelia, che lui, sì, avrebbe sposato se lei avesse avuto il tempo di crescere un altro po’ e di restare qualche altro anno in paese; ripensò a quel cugino, Ricuccio, che morì mettendo un piede su una mina tedesca; riconobbe tra i ricordi l’amico Alfonso, che camminava ricurvo sotto le sue larghe spalle e che si lavava di continuo le mani, anche quando non era necessario, perché le credeva sempre sporche; rivide Zeferino, che suonava il suo organetto in tutte le occasioni liete e tristi delle famiglie che lo chiamavano ad esibirsi al costo di poche lire e che cantò la serenata nella sua prima notte con Gemma; pensò a quel che aveva ottenuto, con il suo lavoro, e a quello che gli era mancato, che si era lasciato sfuggire o che avrebbe potuto aggiungere alle sue cose, se solo fosse stato più duro nell’esigere e se avesse azzardato maggiori pretese, forse con un po’ più di arroganza o di cinismo, ma lui era per gli accomodi e per le soluzioni di mezzo, che lasciavano tutti buoni e tranquilli, perché «nel mondo nessuno ci resta in eterno» e perché «nessuno può portare case e terre nell’aldilà».
E ora quell’aldilà gli spalancava il suo abisso di mistero e gli proponeva i suoi interrogativi di sempre, quelle stesse domande che ogni uomo si era posto prima di lui senza poter dire cosa fosse realmente la morte. Elisio adesso si chiedeva in che modo andasse pensato quell’atto unico e ineludibile che metteva fine all’esistenza terrena, e in che relazione si dovesse collocare quell’evento con la stessa vita che lo generava e lo rendeva possibile. La morte gli sembrava imprigionare il tempo nell’assoluto e, azzerando il cammino dell’uomo, trasformare la biografia delle occasioni e delle scelte nella linearità inesauribile dell’eterno, ma per che cosa? – tornava a chiedersi –, per essere ciascuno altro da sé o per continuare in diversi circuiti la propria individualità che fa di ognuno quel che perennemente egli è?
Elisio sapeva di affrontare temi che erano fuori dalla sua portata, ma, pur nella consapevolezza dei suoi limiti, cercava di richiamare alla memoria i discorsi ascoltati prima della malattia, da Diego soprattutto, e da Filippo e Giuliano; e proprio Diego, che si fermava a lungo con lui, gli diceva che «vivere è attraversare la luce e il buio, la chiarezza e l’oscurità, e che il pensiero della morte appartiene solo all’uomo, alla sua opportunità di muoversi tra finito e infinito, ed anche che è solo dell’uomo la possibilità di intrecciare, nel corso della propria vita, la materia delle rese e degli smarrimenti con lo spirito che guida e indirizza all’universalità dei mondi senza fine»; per questo, gli aggiungeva anche Filippo, la morte «toglie solo in apparenza», e in essa lui avrebbe potuto riconoscere l’opera generosa e paterna del Signore, «che prende poco per dare molto e che chiama a sé per rendere liberi e sicuri: l’opera di quel Signore che è fonte e abbondanza di vita e che esercita la salvezza chiamando tutti alla realtà di un morire che fu anche sua, nella forma della croce, perciò la morte, per l’uomo retto, non è il punto di arrivo, ma una lezione di virtù e un guadagno di maturità».
A Elisio piaceva ragionare su questi ricordi e pensare alla propria morte come ad un transito verso la libertà; ma di che libertà si trattava? di quella dal corpo? di quella soltanto dai bisogni? o di che altra libertà da costituire un profitto, un acquisto vantaggioso? E lui, sì, proprio lui, Elisio D’Alessandro, con il suo nome e con la sua storia di figlio, di marito e di padre, sarebbe rimasto se stesso per tutta l’eternità? Avrebbe conservato il carattere, le attitudini, l’individualità che si sentiva addosso e che lo facevano essere quel che effettivamente era agli occhi di tutti, oppure, morendo, si sarebbe trasformato in un’altra cosa? in un’entità diversa? in una creatura senza più nome né identità? Avrebbe continuato ad essere, insomma, Elisio D’Alessandro, figlio di Laurino e di Clorinda, come era stato in vita, o tutto sarebbe cambiato perché tutto finiva e «diventava come un vento che non vedi e non tocchi»? E, allora, se questo era il lascito di ogni esistenza, perché vivere? E che cos’era la vita rispetto alla morte? E perché, dunque, vivere per poi morire?
Elisio sentiva di inoltrarsi in una realtà sconfinata, dalla quale poteva avere turbamenti e inquietudini più che soluzioni e risposte, e smetteva quindi di tormentarsi; ma, in quei momenti, avvertiva il sangue riprendere la sua corsa veloce nel proprio corpo e battere sulle tempie, riempirgli il cuore e pulsare nel collo, stretto dalla camicia. E, mentre un filo di grigio si insinuava fra la finestra e il grande pino ad annunciare l’arrivo della sera, cercava conforto nel fuoco della sua vecchia stufa. Il suo sguardo non poté evitare la pagina del calendario, che mostrava ormai l’ultima casella ancora vuota. La sera, intanto, declinava nella notte e spingeva il grigio a farsi buio, a salire sui tetti e a smarrire le luci e i rumori del giorno. In lontananza, con il fischio della Sangritana che veniva su dalla valle, si udiva lo scroscio delle onde sulla stretta linea del porto, e i lampioni del paese, fermi sulle loro strade e sulle imposte chiuse, assecondavano l’arrivo del sonno nel tepore delle case.
Elisio indirizzò un’altra occhiata oltre i vetri e andò a coricarsi, senza più pensieri. Il sopraggiungere della notte sembrava avergli scavato dentro un bisogno profondo di silenzio, come se il tacere, dopo tante riflessioni, fosse divenuto per lui una necessità da compiacere e da condiscendere. Si sistemò dunque nel suo letto e attese di prendere sonno, respirando con calma. Se quella era la notte che avrebbe fermato il corso del suo tempo, era meglio restare tranquilli e lasciare che i fatti si compissero da sé. Ascoltò ancora il ticchettìo dell’orologio che segnava le ore sul comò e il motore di un camion che saliva a fatica la provinciale, ne immaginò le flebili luci nella nebbia e gli sembrò di vedere le braccia dell’autista nell’atto di girare l’ampia ruota dello sterzo come un astuto bucaniere al timone del suo agile brigantino, e assecondò per un tratto la corsa dell’uno e dell’altro, sul nastro bianco della strada e nelle correnti fredde del mare, poi, mentre ricordava di aver guidato anche lui, anni prima, un camion sulla strada per Napoli e di aver governato una barca con vele a bompresso, si addormentò. Il sonno lo prese senza accorgersene, cancellandogli ogni dettaglio della casa e di quel suo fragile mondo di ricordi e di ansie; si era ritrovato all’improvviso con la testa ferma e con il respiro lento. Tutto era svanito in luoghi lontani, dove ogni cosa sembrava annullarsi in una evanescenza priva di colori e di suoni e in una estraneità sorda e indifferente, senza più contorni né accadimenti.
In quella notte a Elisio parve che nessuna parola potesse dare altro senso alla sua vita, lasciata alla terra e alla morte, e che ogni cosa fosse ormai una frangia perduta d’esistenza, rimasta dietro le sue spalle e nel vuoto dei suoi desideri dismessi. Quella notte sarebbe stata – si era detto – la più lunga delle sue notti, quella senza fine, la notte che l’avrebbe condotto chissà dove, ad incontrare o ad attendere chissà chi e a conoscere quel che nessuno era stato in grado di dirgli. Ma le prime luci del giorno, filtrando dalle imposte socchiuse, accorciarono via via le ombre della stanza e iniziarono a diradarle. L’alba tornava a mostrare le strade del paese e a rischiarare il cielo blu delle case e del mare. A poco a poco, con il sole che saliva sul Colle, si spegnevano i lampioni e si udivano i richiami del lattaio giunto in bicicletta, l’odore del pane che veniva dal forno, lo stridìo dei vagoni che manovravano sui binari di Trasbordo. Tutto di apprestava a ripetere le abitudini di una vita che già si conosceva e a dire quel che sarebbe ancora stato il mondo, nel nuovo giorno che aveva inizio in coincidenza con l’avvio del mese.
Il chiarore svegliò anche Elisio. Frastornato, poggiò i piedi a terra, guardò le mani, scrutò il suoi occhi nello specchio e fissò l’orizzonte che si apriva dopo i mandorli. Stentava a rimarginare le sue tante rinunce e a risalire dai suoi molti abbandoni, ma si trovò ancora vivo: vivo e neanche più disperato. E ne provò gioia, ne fu felice come non lo era mai stato.

2 commenti:

  1. Ho letto questo racconto e l'ho trovato veramente ben strutturato ed organico. Ma soprattutto incisivo nel sollecitare emozioni e partecipazione: le meditazioni esistenziali, le memorie, la vita con tutti i suoi dilemmi, il nostro rapporto col sempre, col mai, col tutto, col nulla. Interrogativi che da personali si trasferiscono nella sfera dell'uomo in quanto tale. In quella di un uomo cosciente della precarietà del vivere e della inevitabilità del morire. Complimenti all'autore. Complimenti anche e soprattutto per la sua naturale predisposizione alla scrittura. E' così che si deve scrivere, senza orpelli a ostacolare la comprensione. Emozionante e vivace!

    Lida Lehmann da Genova

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    1. Gentile Lida Lehmann,
      La ringrazio delle parole che scrive sul mio racconto. Ne condivido il taglio critico e gli snodi argomentativi: cosa non facile da incontrare! Grazie di nuovo.
      VITO MORETTI

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