Ad un passo
dalle ombre
di
Vito Moretti
Vito Moretti
Si era messo in testa che gli restasse
poco da vivere, anche se – a guardarlo – non presentava alcun segno che facesse
pensare a questa triste eventualità, anzi, al contrario, Elisio aveva un
colorito piuttosto piacevole, di quel bruno acquisito nelle lunghe ore di
lavoro all’aperto e di esposizione al sole e ai venti marini, e aveva un
aspetto che i capelli bianchi non curvavano ad un’idea di vecchiezza o di
malferma e sfibrata senilità, ma a quella soltanto di un’età matura, che nel
paese significava per i più saggezza, esperienza, moderazione e che dava luogo,
dunque, anche nei giovani, a sentimenti di riguardo e ad attitudini di ossequio
e di ascolto.
Elisio, però, benché non avesse nulla di
cui rammaricarsi, e pur vedendo la propria esistenza continuare nella maniera
di sempre, era certo di essere malato e di poter contare ormai i giorni che lo
separavano dalla tomba; non sapeva dire a nessuno di che malattia si trattasse
e dove il male lo stesse consumando, ma lui ci avrebbe scommesso – se avesse
avuto poi il modo di ritirare la vincita – e, nonostante le parole confortanti
del medico, che continuava a dirgli di star tranquillo e che in lui non c’era
nulla di cui aver pensiero, Elisio non si dava pace: immaginava di essere afferrato
in tutte le ossa e di essere tirato giù, a piegarsi come se i suoi nervi e i
suoi muscoli fossero di colpo troncati da una forza più grande della sua stessa
volontà; altre volte gli pareva che una mano invisibile gli entrasse nel petto
e gli rigirasse lo stomaco a suo piacimento, fino a rallentare i battiti del
cuore e quasi a fermare il giro del sangue nelle arterie e nelle vene, o che un
tremore giunto chissà da dove e chissà come lo obbligasse ad oscillare e a
fremere senza che lui potesse tener ferme le mani e le gambe e persino la
testa; allora si accostava ad un angolo di casa, ad uno spigolo qualsiasi della
cucina o del fóndaco e aspettava che tutto passasse. Aveva anzi sviluppato, nel
corso delle settimane, una sorprendente abilità nel prevedere le crisi e nel
superarle, senza chiedere alcun soccorso ai familiari e senza neanche tener
nascosto quello che ripetutamente gli succedeva, ma facendone addirittura un
motivo di disputa con i dinieghi del medico e con i consigli di quanti gli
raccomandavano la calma e il riposo.
Solo Faustina, la giovane nipote dai
grandi occhi verdi e dalla ciocca nera che le scendeva a carezzare la fronte,
sapeva che i disagi di Elisio avevano avuto inizio dall’incontro con Leonilda,
la maga di Vittorito che, percepita la fragilità emotiva dell’uomo, gli
prognosticò un male sconosciuto, dal quale lei sola, con le sue ritualità
caldee, avrebbe potuto liberarlo, in cambio – si capisce – di un adeguato
compenso. Ma Leonilda raggiunse l’inferno prima di poter raccogliere i frutti
della sua semina malvagia, ed Elisio restò con la convinzione di essere stato
vittima di un maleficio che l’avrebbe condotto sicuramente alla morte. Né gli
giovarono le parole affettuose e rivelatrici di Faustina, con le quali la giovane
gli chiariva che il suo male era soltanto un’autosuggestione e che, in fondo,
per la sua salute, così priva di patologie e di afflizioni fisiche, egli
avrebbe dovuto rivolgere «un pensiero di gratitudine al Signore» e ringraziarlo
anche per avergli conservato intorno le persone più care, il loro bene e la
disponibilità che gli manifestavano tutti i giorni. Ma Elisio non aveva che i
pensieri suoi e contava all’indietro, su un calendario appeso al muro, il
numero dei mattini in cui sarebbe tornato ad aprire la finestra e a vedere il
sole alzarsi sulle vigne e sui mandorli e a sentire il mondo che riprendeva il
suo passo dopo il sonno della notte.
La presunta vicinanza della fine lo
spingeva, anche senza che lui lo volesse, a ricordare i fatti e i volti della
sua esistenza, i nomi di coloro gli furono accanto nel corso degli anni e le
ansie e le gioie che puntellarono le sue scelte d’un tempo, che «non furono
peraltro molte, perché nel paese il destino di ognuno è una storia senza
sorprese, un fiume che si sa da dove viene e dove poi cessa di essere fiume,
come accade per tutti i cristiani, che nascono uomini e finiscono polvere e
cenere nel grande catino della terra».
Gli tornavano così in mente i Letizia,
che se ne andarono in America portando via la bella Adelia, che lui, sì,
avrebbe sposato se lei avesse avuto il tempo di crescere un altro po’ e di
restare qualche altro anno in paese; ripensò a quel cugino, Ricuccio, che morì
mettendo un piede su una mina tedesca; riconobbe tra i ricordi l’amico Alfonso,
che camminava ricurvo sotto le sue larghe spalle e che si lavava di continuo le
mani, anche quando non era necessario, perché le credeva sempre sporche; rivide
Zeferino, che suonava il suo organetto in tutte le occasioni liete e tristi
delle famiglie che lo chiamavano ad esibirsi al costo di poche lire e che cantò
la serenata nella sua prima notte con Gemma; pensò a quel che aveva ottenuto,
con il suo lavoro, e a quello che gli era mancato, che si era lasciato sfuggire
o che avrebbe potuto aggiungere alle sue cose, se solo fosse stato più duro
nell’esigere e se avesse azzardato maggiori pretese, forse con un po’ più di
arroganza o di cinismo, ma lui era per gli accomodi e per le soluzioni di
mezzo, che lasciavano tutti buoni e tranquilli, perché «nel mondo nessuno ci
resta in eterno» e perché «nessuno può portare case e terre nell’aldilà».
E ora quell’aldilà gli spalancava il suo
abisso di mistero e gli proponeva i suoi interrogativi di sempre, quelle stesse
domande che ogni uomo si era posto prima di lui senza poter dire cosa fosse
realmente la morte. Elisio adesso si chiedeva in che modo andasse pensato
quell’atto unico e ineludibile che metteva fine all’esistenza terrena, e in che
relazione si dovesse collocare quell’evento con la stessa vita che lo generava e
lo rendeva possibile. La morte gli sembrava imprigionare il tempo nell’assoluto
e, azzerando il cammino dell’uomo, trasformare la biografia delle occasioni e
delle scelte nella linearità inesauribile dell’eterno, ma per che cosa? –
tornava a chiedersi –, per essere ciascuno altro da sé o per continuare in
diversi circuiti la propria individualità che fa di ognuno quel che
perennemente egli è?
Elisio sapeva di affrontare temi che
erano fuori dalla sua portata, ma, pur nella consapevolezza dei suoi limiti, cercava
di richiamare alla memoria i discorsi ascoltati prima della malattia, da Diego
soprattutto, e da Filippo e Giuliano; e proprio Diego, che si fermava a lungo
con lui, gli diceva che «vivere è attraversare la luce e il buio, la chiarezza
e l’oscurità, e che il pensiero della morte appartiene solo all’uomo, alla sua
opportunità di muoversi tra finito e infinito, ed anche che è solo dell’uomo la
possibilità di intrecciare, nel corso della propria vita, la materia delle rese
e degli smarrimenti con lo spirito che guida e indirizza all’universalità dei
mondi senza fine»; per questo, gli aggiungeva anche Filippo, la morte «toglie
solo in apparenza», e in essa lui avrebbe potuto riconoscere l’opera generosa e
paterna del Signore, «che prende poco per dare molto e che chiama a sé per
rendere liberi e sicuri: l’opera di quel Signore che è fonte e abbondanza di
vita e che esercita la salvezza chiamando tutti alla realtà di un morire che fu
anche sua, nella forma della croce, perciò la morte, per l’uomo retto, non è il
punto di arrivo, ma una lezione di virtù e un guadagno di maturità».
A Elisio piaceva ragionare su questi
ricordi e pensare alla propria morte come ad un transito verso la libertà; ma
di che libertà si trattava? di quella dal corpo? di quella soltanto dai
bisogni? o di che altra libertà da costituire un profitto, un acquisto
vantaggioso? E lui, sì, proprio lui, Elisio D’Alessandro, con il suo nome e con
la sua storia di figlio, di marito e di padre, sarebbe rimasto se stesso per
tutta l’eternità? Avrebbe conservato il carattere, le attitudini,
l’individualità che si sentiva addosso e che lo facevano essere quel che
effettivamente era agli occhi di tutti, oppure, morendo, si sarebbe trasformato
in un’altra cosa? in un’entità diversa? in una creatura senza più nome né
identità? Avrebbe continuato ad essere, insomma, Elisio D’Alessandro, figlio di
Laurino e di Clorinda, come era stato in vita, o tutto sarebbe cambiato perché
tutto finiva e «diventava come un vento che non vedi e non tocchi»? E, allora,
se questo era il lascito di ogni esistenza, perché vivere? E che cos’era la
vita rispetto alla morte? E perché, dunque, vivere per poi morire?
Elisio sentiva di inoltrarsi in una
realtà sconfinata, dalla quale poteva avere turbamenti e inquietudini più che soluzioni
e risposte, e smetteva quindi di tormentarsi; ma, in quei momenti, avvertiva il
sangue riprendere la sua corsa veloce nel proprio corpo e battere sulle tempie,
riempirgli il cuore e pulsare nel collo, stretto dalla camicia. E, mentre un
filo di grigio si insinuava fra la finestra e il grande pino ad annunciare
l’arrivo della sera, cercava conforto nel fuoco della sua vecchia stufa. Il suo
sguardo non poté evitare la pagina del calendario, che mostrava ormai l’ultima
casella ancora vuota. La sera, intanto, declinava nella notte e spingeva il
grigio a farsi buio, a salire sui tetti e a smarrire le luci e i rumori del
giorno. In lontananza, con il fischio della Sangritana
che veniva su dalla valle, si udiva lo scroscio delle onde sulla stretta linea
del porto, e i lampioni del paese, fermi sulle loro strade e sulle imposte
chiuse, assecondavano l’arrivo del sonno nel tepore delle case.
Elisio indirizzò un’altra occhiata oltre
i vetri e andò a coricarsi, senza più pensieri. Il sopraggiungere della notte sembrava
avergli scavato dentro un bisogno profondo di silenzio, come se il tacere, dopo
tante riflessioni, fosse divenuto per lui una necessità da compiacere e da
condiscendere. Si sistemò dunque nel suo letto e attese di prendere sonno,
respirando con calma. Se quella era la notte che avrebbe fermato il corso del
suo tempo, era meglio restare tranquilli e lasciare che i fatti si compissero
da sé. Ascoltò ancora il ticchettìo dell’orologio che segnava le ore sul comò e
il motore di un camion che saliva a fatica la provinciale, ne immaginò le
flebili luci nella nebbia e gli sembrò di vedere le braccia dell’autista
nell’atto di girare l’ampia ruota dello sterzo come un astuto bucaniere al
timone del suo agile brigantino, e assecondò per un tratto la corsa dell’uno e
dell’altro, sul nastro bianco della strada e nelle correnti fredde del mare,
poi, mentre ricordava di aver guidato anche lui, anni prima, un camion sulla
strada per Napoli e di aver governato una barca con vele a bompresso, si
addormentò. Il sonno lo prese senza accorgersene, cancellandogli ogni dettaglio
della casa e di quel suo fragile mondo di ricordi e di ansie; si era ritrovato
all’improvviso con la testa ferma e con il respiro lento. Tutto era svanito in
luoghi lontani, dove ogni cosa sembrava annullarsi in una evanescenza priva di
colori e di suoni e in una estraneità sorda e indifferente, senza più contorni
né accadimenti.
In quella notte a Elisio parve che
nessuna parola potesse dare altro senso alla sua vita, lasciata alla terra e
alla morte, e che ogni cosa fosse ormai una frangia perduta d’esistenza,
rimasta dietro le sue spalle e nel vuoto dei suoi desideri dismessi. Quella
notte sarebbe stata – si era detto – la più lunga delle sue notti, quella senza
fine, la notte che l’avrebbe condotto chissà dove, ad incontrare o ad attendere
chissà chi e a conoscere quel che nessuno era stato in grado di dirgli. Ma le
prime luci del giorno, filtrando dalle imposte socchiuse, accorciarono via via
le ombre della stanza e iniziarono a diradarle. L’alba tornava a mostrare le
strade del paese e a rischiarare il cielo blu delle case e del mare. A poco a
poco, con il sole che saliva sul Colle, si spegnevano i lampioni e si udivano i
richiami del lattaio giunto in bicicletta, l’odore del pane che veniva dal forno,
lo stridìo dei vagoni che manovravano sui binari di Trasbordo. Tutto di apprestava
a ripetere le abitudini di una vita che già si conosceva e a dire quel che
sarebbe ancora stato il mondo, nel nuovo giorno che aveva inizio in coincidenza
con l’avvio del mese.
Il chiarore svegliò anche Elisio.
Frastornato, poggiò i piedi a terra, guardò le mani, scrutò il suoi occhi nello
specchio e fissò l’orizzonte che si apriva dopo i mandorli. Stentava a
rimarginare le sue tante rinunce e a risalire dai suoi molti abbandoni, ma si
trovò ancora vivo: vivo e neanche più disperato. E ne provò gioia, ne fu felice
come non lo era mai stato.
Ho letto questo racconto e l'ho trovato veramente ben strutturato ed organico. Ma soprattutto incisivo nel sollecitare emozioni e partecipazione: le meditazioni esistenziali, le memorie, la vita con tutti i suoi dilemmi, il nostro rapporto col sempre, col mai, col tutto, col nulla. Interrogativi che da personali si trasferiscono nella sfera dell'uomo in quanto tale. In quella di un uomo cosciente della precarietà del vivere e della inevitabilità del morire. Complimenti all'autore. Complimenti anche e soprattutto per la sua naturale predisposizione alla scrittura. E' così che si deve scrivere, senza orpelli a ostacolare la comprensione. Emozionante e vivace!
RispondiEliminaLida Lehmann da Genova
Gentile Lida Lehmann,
EliminaLa ringrazio delle parole che scrive sul mio racconto. Ne condivido il taglio critico e gli snodi argomentativi: cosa non facile da incontrare! Grazie di nuovo.
VITO MORETTI