PREFAZIONE DI NAZARIO PARDINI
Ninnj Di Stefano Busà: La distanza è
sempre la stessa. Ursini Editore. Catanzaro. 2013. Pp. 48
La
geometria della parola in Ninny Di Stefano Busà
La distanza è sempre la stessa,
le due sponde non toccano
al principio, forse neppure il corpo
delle cose, (di tutte le cose).
E pausata appare questa storia
di versificazioni innaturali,
forme senza fisionomia chiara,
forse un po’ dilatate da uno scardinamento
universale, imitazione o deturpazione
di opachi, inagibili intrusioni.
Una sola matrice, un pensiero atonale,
aritmico, modulato a ritmi di sangue
e di morsure, di quieti infingimenti,
in andature che mordono il vuoto,
lo trasferiscono altrove, forse
poco distante da noi.
La nuova silloge di Ninny Di
Stefano Busà trae il titolo dalla poesia eponima sopra citata. E mi piace
iniziare il discorso da un riferimento testuale che, poi, contiene il nocciolo
della questione poetica della Nostra: intimità, parola, meditazione, prosodia,
percezione di distanze immutabili, (forse
fra cielo e uomo, fra essere e cielo, fra sentire e dire, fra sponde che non si
toccano, fra canoni etico-esistenziali e
realtà, fra cose e cose). Ed è nelle corde umane tentare di ridurre certe
distanze, distanze che ci separano dal tutto, dai contatti, da quel processo
inarrivabile a cui ambisce la nostra natura; distanze che separano corpi da
corpi, materia da materia, spiriti da spiriti, creando vuoti indicibili, e, seppur
trasferiti altrove, pur sempre vicini a noi:
andature che mordono il vuoto,
lo trasferiscono altrove, forse
poco distante da noi.
In
più di una recensione sulla poesia della Nostra ho avuto occasione di mettere
in evidenza il valore della funzione verbale, della espansione del termine,
ricercata con puntiglio e puntualità. E pur rischiando di cadere nella
monotonia tematica, esegetica, devo ripetermi su questo aspetto della sua poetica:
la parola. Sì!, la parola, il sintagma, gli accostamenti, le funzioni logiche e
intellettive di un diorama mai conclusivo né concluso. Il verbo, qui, è sempre propenso
ad una apertura sia interpretativa che emotiva. E così deve essere. Mai dire
tutto nella poesia. Ma lasciare spazi al fruitore a che se la possa cucire
addosso, e la possa vivere con sinergie adatte
a slanci personali come fosse lui stesso a immaginarla. Barthes
auspicava che la poesia moderna dovesse suggerire un campo di risposte emotive
e concettuali legate alla sensibilità del singolo. Al lettore va lasciata una
parola che contenga simultaneamente tutte le accezioni (motivo ripreso da U.
Eco). Se dovessimo cercare etimo-incastri di uso non comune, usi terminologici
di portata lessicale non solo innovativa, ma anche, e, soprattutto, creativa,
la lista si farebbe incalcolabile. Atonale,
morsure, infingimenti, mordere il vuoto per limitarci solo alla poesia incipiale dell’opera. E questo è
dovuto all’abbondanza d’interiorità che è tutta tesa a trovare abiti adatti a
vestire immagini e suggestioni sempre nuove, motivazioni che svincolino dal troppo
umano, dallo scandalo delle sue contraddizioni. Motivazioni anche memoriali, ma
mai passatistiche. Motivazioni già vissute, anche, e già espresse in altre
occasioni, ma ri/lucidate e rinfrescate da operazioni linguistico-sensoriali in
cui hanno una grande portata la ragione, oltre che, naturalmente, un’anima
pronta a sorprendersi e a sorprendere colle sue scalate verso il rinnovamento.
D’altronde per un autore è cosa difficile creare perfette equivalenze fra il
patrimonio intimo-memoriale e il corpo che lo deve fasciare, dacché immenso è
il pozzo dell’anima, e mortali i suoni a disposizione dell’uomo. E ciò che più
affanna l’autrice è questo tentativo di annullare sponde fra cose, momenti, frangenti di vita che possano
contenere il vuoto. Sì, perché il vuoto è non vita ed è azzeramento. E
l’azzeramento si avvicina alla fine, alla morte. E non alla fine di un viaggio.
Ma alla fine di un inizio, di una narrazione, di una ricerca speculativa:
Una sola matrice, un pensiero atonale,
aritmico, modulato a ritmi di sangue
e di morsure, di quieti infingimenti,
in andature che mordono il vuoto,
lo trasferiscono altrove, forse
poco distante da noi.
E trasferire il vuoto in un
supposto immaginifico forse non lontano da noi non equivale a un tentativo di assegnare
alla poesia quel senso di plenitudine a cui l’artista stessa ambisce per farla
vita, spiritualità, tonalità in un mondo zeppo di stonature?
Sì, perché è innegabile che
La residuale forza grida alle perdute forme,
al bene e al male oppone resistenza:
si fa fuscello in preda all’uragano.
Ed è proprio quella resistenza
che tentiamo di fronte alla meditazione sul bene e sul male del nostro esistere,
che si fa fuscello in preda all’uragano. Siamo tutti fuscelli in preda
all’uragano, nei nostri tentativi umani e sovrumani; tutti fuscelli nel nostro
essere in balìa della ragione, in balìa delle nostre ristrettezze, delle nostre
distanze di fronte all’immensità che ci sovrasta.
Può sembrare anche ostica la
poesie della Busà, visto che richiede un’attenzione particolare,
un’applicazione mentale ed emotiva che va oltre la parola. In certi suoi
momenti poetici vi è anche una voluta disposizione affatto musicale a creare
inciampi alla lettura. A non facilitare l’accostamento del lettore ad una
affinità sentimentale. Ma tutto è dovuto alla grande maturità dell’artista, ad
una poesia che non è frutto del solo tempo in cui l’autrice l’ha composta, ma
di tutta una storia di vita e di ricerca. Ad una nutrita esperienza di
invenzioni espositive che sanno tenere altalenante l’ondulazione dei moduli
linguistici, perché gli impulsi interiori non sono mai piatti come l’acqua di
uno stagno, ma, semmai, movimentati come la bàttima inquieta e inappagata dei
giochi di un mare che tanto si avvicinano all’eterno. E da qui lo slargo estremo di intuizioni
neologiche e metriche. E quando ti capita di leggere versi come:
… come falena brucia alla sua fiamma,
tutto depreda il fuoco e la sua vampa,
perché dal nulla l’anima si oscura.
La danza della sera
ancora serra una fronte di luce
che misura il sonno dei mattini,
il fiore che smuore negli accenti
sempreverdi dell’erba,
quando il mondo tace o s’inabissa
nel suo letargo,
come un feto dentro la madre.
Ogni fragore poi si rasserena,
come onda che all’onda si concilia
e si fa suono, rassegnato silenzio
che stride al filo d’erba, alla conchiglia.
ancora di più si fa viva la
funzione di grande armonia di certi segmenti poetici, proprio perché è lì che
la poetessa incide, dopo rattenute, per mettere in chiaro la sua insoluzione di
fronte a un mondo esageratamente rapinatore, o per evidenziare un suo momento
di edenico riposo, quando Ogni fragore
poi si rasserena.
E vivere il terreno con tanta
emozione. Fare della vita e dei suoi giochi il pane della poesia. Disunirsi da
un ensemble fortemente umano, per
protendersi, con punte di insofferenza di spazi, all’oltre; all’oltre del
tempo, dei luoghi, degli orizzonti ristretti, è l’intimo nutrimento di questa
poesia. Perché la poetessa ambisce assaporare il rischio di un azzardo oltre le
ombre, tentare di giocarsi tutte le carte per squarciare il mistero
dell’esistere. Ed è per questo che la sua forza è tutta protesa oltre il senso
della parola.
Ed il mestiere del critico? È
tutto qui: non è certo quello di dire bello o brutto, elegante o magnifico,
superbo od altro. Ma quello di scoprire i nessi giusti che valorizzano la
poesia. Dimostrare. Saper leggere in che
modo un artista riesca a fare della parola un tatuaggio dell’anima. È proprio
qui. È questa la sua funzione. Ricercare l’analogia fra le inquietudini e i
corpi che le avviluppano. Perché è allora, appunto, che, pour cause, il discorso del poeta si compone, si scompone, si
altera, si fa superbo, dolce, neologico, asintattico in questo arduo compito
che gli spetta. Non sempre è facile farselo amico e disponibile. O pretendere
che quel suono combaci esattamente coi sobbalzi interiori. E tanto meno credere
che sia sufficiente la semplice spontaneità. Semmai un lavoro attento e assiduo, meditato e composito,
esperto di studi e di fattive operazioni filologiche, come quello della Nostra.
Poi le tematiche possono essere erotiche, religiose, morali, bucoliche… Ma è
estremamente necessario che attraversino le vene della vita e che si
trasmettano in suoni sapidi di un impossibile modo possibile di dire.
Questo poi è il limite, l’assunto
appena orbato di pensiero,
una canzone stonata che urta come ferri vecchi.
Tu annotti con la rosa, ti schiudi alla rugiada.
Talvolta è un artificio di sintassi,
una parola oscura, fuori rotta
che ostinatamente insegue il suo silenzio.
Quello deve
essere il mestiere del critico: leggere e dimostrare; leggere significati,
significanti, grafemi, parole e geometrie per tessere la tela. E non è detto
che non possa essere di aiuto alla stessa poesia.
Nazario Pardini 08/09/2012
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