Nota personale
nato ad Alessandria il 21/02/1958
e-mail ORESTE.BONVICINI@Poste.it
Ha collaborato con riviste e pubblicazioni a carattere locale e nazionale. Ha pubblicato, a partire dall’anno 2000, alcune sillogi poetiche in seguito ad affermazioni in premi letterari (Cibernetica – Montedit; Il granaio di Nalut – Prospektiva; La città – Montedit; Il velo di Chartres – Polispoiesis Ceprano; Cecità - Polispoieis Ceprano; La misura quotidiana della parola - Fara Editore) nonché racconti, articoli e brevi saggi sui seguenti siti internet: Poiein, Joker, Faraeditore/Narrabilando, Progetto Babele, Graffinrete, Carta e Penna, Puntoacapoeditrice, Agenzia del Territorio, Silarus, Biennale di poesia Alessandria, Montedit, Clubaut, La vita in prosa, 150.org ecc.)
Segnalato nel 2010 alla prima edizione del premio intitolato a Franco Fortini, Premio speciale per la poesia inedita al concorso Astrolabio 2010, ha pubblicato nel 2011, presso Puntoacapoeditrice, il volume Itaca non più la meta. Quinto classificato alla X edizione (2012) del premio Turoldo, è stato altresì inserito nella programmazione di racconti per la radio di Radioinsieme.it (03/04/2012). Secondo classificato nella sezione narrativa al premio Insanamente 2012 organizzato da Faraeditore.
VOCE vs
VOCE
Le nostre voci
Che s’impigliano nel
nulla..
L’una dell’altra siamo
La nostra sufficienza
(Ives Bonnefoy)
Restiamo ai margini del conosciuto.
Levando lo
sguardo il bosco svelerà la radura
luogo
arcano e sacra la roccia
su cui
sacrificare
contro i
presagi oscuri dell’esistenza.
I nostri
passi tra cose e cose
sono umane
percezioni
e tracce
del cammino,
voce vs
voce
per dire
chi siamo,
finché
sopravviviamo.
**
Potrebbe svelare la luce
un corso d’acqua
finalmente trasparente.
Un fiume le parole
che potrebbero fiorire dal nulla
che ci sta cadendo addosso.
Dinanzi a questo abisso
attraversiamo le vie delle città
cercando segni concreti,
un fiore tra le pietre,
o l’acqua che sotto scorre.
C’è ancora un Dio sopra di noi
che guarda, che ascolta, che legge
i nostri pensieri?
C’è ancora un Dio che ci sorregge?
Nell’affanno indaghiamo la parola
per assumerci l’onere del resoconto:
ciò che sarà fino alla fine del mondo.
Tornando alla dimensione pura,
dovremo cancellare secoli di menzogna,
decostruire la storia.
Siamo
Siamo
lo spazio intercorso tra fuoco e fuoco
(l’attimo
iridescente della prima scintilla),
quando
la luce torna a dominare
i
confini di questa nostra irriverenza.
Siamo
al cospetto della pianura
tra
fiumi e corsi d’acqua.
Guardiamo
una volta ancora
la
collina d’arenaria
che
si disfà al contatto delle dita,
sabbia
grigia di roccia sedimentaria.
Siamo
labili segni nell’esigere del tempo,
con
la percezione di come pochi
siano
consci del dolore del mondo.
Siamo
impronte sulla polvere
che
la prima pioggia ferisce e lava.
Siamo
dove la terra finisce,
oltre
il male di vivere
che
abbiamo assimilato
mentre
volge la stagione al freddo
e
nei prati scolora
in
macchie brune la terra.
Il
giorno dopo
La vita era cambiata. E non perché fossero scaduti i termini di un
calendario interplanetario che imponeva la fine di ogni forma di esistenza,
bensì per quella sequenza di eventi che, stillando di giorno in giorno, mutano
il corso della storia. E ci destammo quel giorno come se tutto fosse mutato nel
volgere di poche ore, nel corso di una notte che gli eventi avevano deciso
fosse confine tra l’essere ed il non essere, tra il prima e il dopo,
inconsapevoli una volta ancora di come tutte sia un continuo divenire e nulla
avvenga per puro incanto.
Ma il lavoro, così come lo avevamo inteso per secoli, non esisteva più.
Ovvero non esistevano più le prerogative affinché un sistema economico mondiale
potesse controllare le partite di conto delle aziende, delle industrie, delle
attività. Perché non esistevano più le aziende, le industrie, le attività.
Le armi impegnate sui fronti tacquero. E non perché fosse stata
raggiunta la pace o solo una tregua per sedersi ai tavoli delle trattative, ma
perché non c’erano più armi, né munizione né motivi per fronteggiarsi non
avendo nulla da difendere se non la vita stessa che, tornando a casa, gli
uomini avrebbero ripreso a vivere.
E tacquero anche gli ultimatum, le minacce, le voci metalliche dei
terroristi veri o presunti, nonché le menzogne del potere degli stati
prevaricatori, che non ebbero più la forza e la necessità di imporre una linea
di condotta, un atteggiamento malvagio di potere per il potere.
Si viveva dunque, ciascuno con le proprie forze e tornammo a salutarci
in strada, ogni mattina, riprendendo la vita con le sue attività senza scopo se
non quelle della sopravvivenza. E c’era chi partiva, zaino in spalla e un
bastone per sostegno, per vedere il mondo finalmente libero, senza frontiere,
senza confini se non quelli naturali. Valicare le montagne, oltrepassare corsi
d’acqua, fermarsi dinanzi all’Oceano e attendere che qualcuno passasse di là e
accettare di condividere il proprio braccio per una traversata che poteva
essere pericolosa, se non affrontata nelle stagioni favorevoli per non subire
le forze avverse della natura.
E quando si passava dinanzi ai monumenti che ricordava l’antico livore
che divideva popoli e popoli, nazioni confinanti o imperi sfasciati, ci si
domandava già, trascorsi pochi giorni, perché mai tutto ciò fosse accaduto e
per quanto ancora la memoria ne avrebbe portato i segni, se non annullando
presto o tardi ogni necessità di tramandare il passato e lasciare che il tempo
facesse il suo corso e vincesse l’alba sulle tenebre che per secoli avevano
soggiogato generazioni e generazioni.
Fu allora che alcuni videro una luce brillare in cielo e nulla poteva
lenirla, né il sole pieno d’agosto, né la
notte buia e cieca del novilunio. E quella luce infondeva la serenità
che tutti avevano presentito, immaginato, ma pochi colto. E c’era che si
interrogava sulla provenienza di quella luce e taluni affermavano che ciò che
stavano vedendo non era la vita, ma la vita oltre la vita, che restava lì, a
portata di sguardo, stavolta per non dimenticare che quella terrena è solo di
passaggio.
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