Quella luce che tocca il mondo
Ninny Di Stefano Busà
Partiamo
subito da una affermazione e cioè che questo libro ha una sua logica ed una sua
unità nel porsi come raccolta poetica di stampo filosofico- esistenziale
attorno ai contenuti vitali e che non ha velleità comunque di risposte
dottrinali ma bensì reiterate esplorazioni tra stagioni di luce, presenze e
consapevolezze di assenze, esili, silenzi. Vuole essere quotidiano resoconto di
un vivere tra considerazioni amare e ritorni edenici onde illuminare il
significato dell’esistere, condotto con estrema spoliazione di sé e coscienza
dei limiti umani. Rappresenta pertanto uno scavo profondo sul percorso e sul
mistero della nostra vita.
Basterebbe,
del resto, dare soltanto una rapida scorsa ai titoli delle singole opere per
rendersi conto dell’intento creativo dell’autrice.
Nettamente
si evidenzia il fluttuare della parola tra la percezione del finito materiale,
nelle sue varianti positive/negative e
dell’infinito oltre, ( oltre la metamorfosi per citare sue parole). Una
condotta poetica portata avanti con lucida consapevolezza attraverso una
meditazione profonda, sofferta, una confessione che è canto dolce e aspro dei
contrasti. Lirica di nostalgie e
stridori unita al richiamo di una fede, che colmi per dirla con i suoi versi “
quella insostenibile distanza dal cielo”
di cui scrive: ” c’è solo da immaginare la virtù degli angeli, le loro
ali, le ninne nanne di un coro di bambini”.
Si ha
abbandonandosi a questa poesia coinvolgente dalle tonalità vigorose e delicate
al tempo stesso, la sensazione che
tramuta via, via in emozione, di entrare in un solco vitale vagante tra
ombre e luci, suoni e silenzi, presenze e solitudini perennemente a cavallo tra
la coscienza dolorosa dell’esistenza cristallizzata nei propri conflitti, la
trafittura, come ella la definisce della realtà e la fuga, l’evasione verso
incontaminate sponde e spazi di purezza d’anima.
Una raccolta
intessuta di fiati memoriali, sinfonie di stagioni; uno scorrere inesausto e affollato di nature,
paesaggi, cromie di particolare bellezza in cui si avverte la matrice
meridionale dell’autrice. Insomma un ampio excursus tematico portato avanti con
la tecnica delle riprese, degli
approfondimenti, delle combinazioni, degli intrecci e con l’utilizzo di tonalità in ampie
variazioni musicali, la cui armonia e luminosità viene costantemente violata
dalle “arsure” simbolo di mancanze di
linfe esistenziali o accendersi di tensioni emotive, dalle “assenze”( simbologia ricorrente) ad evidenziare mancanza di
contenitori vitali, ma anche incomprensione e lontananza dall’Oltre, ed infine
da una realtà indecifrabile e misterica che tutto avvolge, di cui si avvertono
con estrema acutezza fragilità e silenzi.
I versi di
questa raccolta emergono da profondi mondi interiori contrassegnati da un comune denominatore
e primo attore che è il “Tempo “ nelle sue sfaccettature varianti
dall’attimo lucente, dal minimo dettaglio salvifico, da “un
solo giorno d’idillio”, a “tutto il
resto che è vuoto intorno”, nella sua comprensione esaltante e dolorosa.
Le liriche
si mostrano corpose, palpabili, nelle presenze, nelle fragranze, nelle
sonorità; spesso sono cromatici spazi dentro cui si agitano con pari
bellezza il viburno, le mortelle, oppure
il rezzo, le ginestre avvampanti o i
gelsi, i melograni, le cicale e dove la
poetessa è sempre attenta
alla ricerca della parola nel suo massimo contenuto espressivo,
all’essenzialità del significato e del significante ; ogni composizione è sapientemente condotta sul piano metrico
con un linguaggio raffinato, icastico e con l’utilizzo di similitudini inedite,
aggraziate componenti metaforiche, enjambements, piacevoli assonanze e talora allitterazioni.
Ma torniamo
alla questione irrisolta tra luci e ombre. Nel loro strenuo contendersi tra “ chiarori di alture di pampini, gramigne di
lucciole, fuochi, case bianche” e ancora
“grido di semine, tratturi tra lune e grilli” e ombre della “nicchia delle assenze”, “sensazione
di macerie”, del “resto che è grido o
abisso che di sé ci colma e di “ogni giorno che è principio alla sua fine”
la poetessa passa al setaccio paradisi e
purgatori in cerca di una soluzione al dilemma esistenziale.
Allora se da
una parte il lettore subisce la fascinazione del respiro vitale dell’autrice
che con abilità di trasmutazione poetica lo conduce in un mondo altro di
azzurrità celesti e rigenerative fragranze dall’altra ne constata la fatica del
vivere o del sopravvivere, l’umiliazione costante, il crudo dolore, il frequente dissolvimento, così come “l’esilio aspro “,le “nature disseccate”, o le “rigogliose spirali di nequizie amare” e
la morte” là ove periscono tutte le cose”(
e qui ritorniamo alla metamorfosi). Questa costante ambivalenza del sentire la
permanenza terrena( questo “essere vivi e
dispersi”) sopravvive nelle poesie e si esalta a mio giudizio nella sezione
“Le linfe del distacco” come ad esempio nelle liriche ” Mattinali di allodole”,
“ D’ambrosia la tua manna” , “Ginestre”,
“Petali selvaggi”, “ S’attenua la magia”; tutto insomma si svolge all’insegna del sogno
luminoso e del risveglio amaro .
E così si
procede in una palpitante alternanza tra esplosioni ed implosioni di luce, fino a quando questa ardua tensione
che contraddistingue la lettura si scioglie e dalla scrematura degli opposti la
soluzione ci appare finalmente chiara. Intuita, scavata, dissepolta dalle
profonde crepe esistenziali esce fuori
vincente la luce solida dell’amore, come una possibilità di riscatto,
positività al nonsenso dell’umana condizione,
superamento di una vita che compie “la
cupio suo dissolvi” ; luminosità annidata nelle pieghe dell’anima, che è
quella consapevolezza, per ognuno di noi, al di sopra di ogni smentita
dolorosa, di ogni ombra mortale di essere partecipe alfine di un infinito e di
un eterno.
L’eterno
salvifico si fa dunque pulsazione fremente
e costante nella Busà attraverso
segmenti o graffiti d’anima che
provvidenzialmente si manifestano pronti a restituire soglie di salvezza dagli
annichilimenti e dai travagli. – Dice la Busà: “ la sconfitta è rimanere fianco a
fianco nel precipizio d’ombre, nei silenzi arresi dell’ultima imperfezione”
Sono allora
gli stupori memoriali, i candori affettivi nelle figure della nipotina, della
madre, le amicizie, la maternità così bene rappresentata nella poesia “Come un piccolo fiore” e tutto l’humus trasudante l’originaria
bellezza della natura a compiere il miracolo, a staccarsi dalla struggente
consapevolezza di un dolore antico quanto il mondo; è l’anabasi del cuore a fendere le tenebre del mistero ed il segno
cristiano che già con forza compare nella sua opera” L’assoluto perfetto”. Scrive versi mirabili la poetessa nella poesia” L’amore”; recita così: “e
tutto par nato dal piccolo giglio solitario ai piedi di una Croce.”
Luce dunque
che coglie l’attimo, illumina i dettagli;
luce effetto speranza, collante salvifico, sentiero guida nell’arduo
passaggio terreno che individua spiragli di immortalità e d’infinito e rigenera
lo spirito. In “ qualche grano di poesia
“ si legge: “ Eppure cerco ciò che
sorprenda, il fiato dei pensieri, l’orma di Dio” ; un sogno dunque anche in
cerca di fede nei valori di riconoscimento.
Vi sono in
questa poetica molte sintonie con il
pensiero quasimodiano, con quello ungarettiano
per le tematiche inerenti il tempo reale e quello metafisico, per il
riscatto al vuoto universale, ma anche con il mondo e la poesia di Luzi per
l’apertura a Dio e alla fede.
Mi avvio
alla conclusione con una riflessione che riguarda la prefazione al libro e cioè che questa, forse grazie ad un
benevolo destino, si pone come splendido, ideale corollario alla bellissima raccolta, in
quanto realizzata dall’illustre Emerico Giachery che dall’alto delle sue opere e tra tutte
quel mirabile saggio titolato “ Abitare poeticamente la terra” ha colto come
pochi altri avrebbero saputo fare la
valenza del segno luminoso emergente dai
versi, lui che del nutrirsi d’armonie e di poesie d’anima ha fatto il suo
modus-vivendi.
Giachery ci
riporta dunque inevitabilmente alla poesia e la poesia della Busà al poeta che lei stessa lucidamente
definisce: “grido di sciacallo, pelle d’angelo, fiore pesto, infinito barlume della luce che tocca il mondo”.
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