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sabato 1 giugno 2013

CARMELO CONSOLI SU "QUELLA LUCE CHE TOCCA IL MONDO" DI N. D. S. BUSA'


Quella luce che tocca il mondo
Ninny Di Stefano Busà


Carmelo Consoli


Partiamo subito da una affermazione e cioè che questo libro ha una sua logica ed una sua unità nel porsi come raccolta poetica di stampo filosofico- esistenziale attorno ai  contenuti vitali  e che non ha velleità comunque di risposte dottrinali ma bensì reiterate esplorazioni tra stagioni di luce, presenze e consapevolezze di assenze, esili, silenzi. Vuole essere quotidiano resoconto di un vivere tra considerazioni amare e ritorni edenici onde illuminare il significato dell’esistere, condotto con estrema spoliazione di sé e coscienza dei limiti umani. Rappresenta pertanto uno scavo profondo sul percorso e sul mistero della nostra vita.
Basterebbe, del resto, dare soltanto una rapida scorsa ai titoli delle singole opere per rendersi conto dell’intento creativo dell’autrice.
Nettamente si evidenzia il fluttuare della parola tra la percezione del finito materiale, nelle sue varianti positive/negative  e dell’infinito oltre, ( oltre la metamorfosi per citare sue parole). Una condotta poetica portata avanti con lucida consapevolezza attraverso una meditazione profonda, sofferta, una confessione che è canto dolce e aspro dei contrasti.  Lirica di nostalgie e stridori unita al richiamo di una fede, che colmi per dirla con i suoi versi “ quella insostenibile distanza dal cielo”  di cui scrive: ” c’è solo da immaginare la virtù degli angeli, le loro ali, le ninne nanne di un coro di bambini”.
Si ha abbandonandosi a questa poesia coinvolgente dalle tonalità vigorose e delicate al tempo stesso, la sensazione che  tramuta via, via in emozione, di entrare in un solco vitale vagante tra ombre e luci, suoni e silenzi, presenze e solitudini perennemente a cavallo tra la coscienza dolorosa dell’esistenza cristallizzata nei propri conflitti, la trafittura, come ella la definisce della realtà e la fuga, l’evasione verso incontaminate sponde e spazi di purezza d’anima.                                                          
Una raccolta intessuta di fiati memoriali, sinfonie di stagioni; uno  scorrere inesausto e affollato di nature, paesaggi, cromie di particolare bellezza in cui si avverte la matrice meridionale dell’autrice. Insomma un ampio excursus tematico portato avanti con la tecnica  delle riprese, degli approfondimenti, delle combinazioni, degli intrecci  e con l’utilizzo di tonalità in ampie variazioni musicali, la cui armonia e luminosità viene costantemente violata dalle “arsure” simbolo di mancanze di linfe esistenziali o accendersi di tensioni emotive, dalle “assenze”( simbologia ricorrente) ad evidenziare mancanza di contenitori vitali, ma anche incomprensione e lontananza dall’Oltre, ed infine da una realtà indecifrabile e misterica che tutto avvolge, di cui si avvertono con estrema acutezza fragilità e silenzi.
I versi di questa raccolta emergono da profondi mondi interiori  contrassegnati da un comune denominatore e  primo attore che è il  “Tempo “ nelle sue sfaccettature varianti dall’attimo lucente, dal minimo dettaglio salvifico,  da “un solo giorno d’idillio”, a “tutto il resto che è vuoto intorno”, nella sua comprensione esaltante e dolorosa.
Le liriche si mostrano corpose, palpabili, nelle presenze, nelle fragranze, nelle sonorità; spesso sono cromatici spazi dentro cui si agitano con pari bellezza  il viburno, le mortelle, oppure il rezzo, le ginestre avvampanti o  i gelsi, i melograni, le cicale  e dove la poetessa  è sempre  attenta  alla ricerca della parola nel suo massimo contenuto espressivo, all’essenzialità del significato e del significante ; ogni composizione  è sapientemente condotta sul piano metrico con un linguaggio raffinato, icastico e con l’utilizzo di similitudini inedite, aggraziate componenti metaforiche, enjambements, piacevoli assonanze e  talora allitterazioni.
Ma torniamo alla questione irrisolta tra luci e ombre. Nel loro strenuo contendersi tra “ chiarori di alture di pampini, gramigne di lucciole, fuochi, case bianche” e ancora “grido di semine, tratturi tra lune e grilli”  e ombre della “nicchia delle assenze”, “sensazione di macerie”, del “resto che è grido o abisso che di sé ci colma e di “ogni giorno che è principio alla sua fine” la poetessa passa al setaccio paradisi  e purgatori in cerca di una soluzione al dilemma esistenziale.
Allora se da una parte il lettore subisce la fascinazione del respiro vitale dell’autrice che con abilità di trasmutazione poetica lo conduce in un mondo altro di azzurrità celesti e rigenerative fragranze dall’altra ne constata la fatica del vivere o del sopravvivere, l’umiliazione costante, il crudo dolore,  il frequente dissolvimento, così come “l’esilio aspro “,le “nature disseccate”, o le “rigogliose spirali di nequizie amare” e la morte” là ove periscono tutte le cose”( e  qui ritorniamo alla metamorfosi).  Questa costante ambivalenza del sentire la permanenza terrena( questo “essere vivi e dispersi”) sopravvive nelle poesie e si esalta a mio giudizio nella sezione “Le linfe del distacco” come ad esempio nelle liriche ” Mattinali di allodole”, “ D’ambrosia la tua manna” , “Ginestre”,  “Petali selvaggi”, “ S’attenua la magia”;  tutto insomma si svolge all’insegna del sogno luminoso e del risveglio amaro .
E così si procede in una palpitante alternanza tra esplosioni ed implosioni  di luce, fino a quando questa ardua tensione che contraddistingue la lettura si scioglie e dalla scrematura degli opposti la soluzione ci appare finalmente chiara. Intuita, scavata, dissepolta dalle profonde crepe esistenziali  esce fuori vincente la luce solida dell’amore, come una possibilità di riscatto, positività al nonsenso dell’umana condizione,  superamento di una vita che compie “la cupio suo dissolvi” ; luminosità annidata nelle pieghe dell’anima, che è quella consapevolezza, per ognuno di noi, al di sopra di ogni smentita dolorosa, di ogni ombra mortale di essere partecipe alfine di un infinito e di un eterno.
L’eterno salvifico si fa dunque pulsazione fremente  e costante nella Busà attraverso  segmenti  o graffiti d’anima che provvidenzialmente si manifestano pronti a restituire soglie di salvezza dagli annichilimenti e dai travagli. – Dice la Busà: “ la sconfitta è rimanere  fianco a fianco nel precipizio d’ombre, nei silenzi arresi dell’ultima imperfezione”
Sono allora gli stupori memoriali, i candori affettivi nelle figure della nipotina, della madre, le amicizie, la maternità così bene rappresentata nella poesia  “Come un piccolo fiore” e  tutto l’humus trasudante l’originaria bellezza della natura a compiere il miracolo, a staccarsi dalla struggente consapevolezza di un dolore antico quanto il mondo; è l’anabasi del cuore  a fendere le tenebre del mistero ed il segno cristiano che già con forza compare nella sua opera” L’assoluto perfetto”.  Scrive versi mirabili la poetessa  nella poesia” L’amore”; recita così:  “e tutto par nato dal piccolo giglio solitario ai piedi di una Croce.”
Luce dunque che coglie l’attimo, illumina i dettagli;  luce effetto speranza, collante salvifico, sentiero guida nell’arduo passaggio terreno che individua spiragli di immortalità e d’infinito e rigenera lo spirito.  In “ qualche grano di poesia “ si legge: “ Eppure cerco ciò che sorprenda, il fiato dei pensieri, l’orma di Dio” ; un sogno dunque anche in cerca di fede nei valori di riconoscimento.
Vi sono in questa poetica molte sintonie  con il pensiero quasimodiano, con quello ungarettiano  per le tematiche inerenti il tempo reale e quello metafisico, per il riscatto al vuoto universale, ma anche con il mondo e la poesia di Luzi per l’apertura a Dio e alla fede.
Mi avvio alla conclusione con una riflessione che riguarda la prefazione al libro  e cioè che questa, forse grazie ad un benevolo destino, si pone come splendido, ideale  corollario alla bellissima raccolta, in quanto realizzata dall’illustre Emerico Giachery  che dall’alto delle sue opere e tra tutte quel mirabile saggio titolato “ Abitare poeticamente la terra” ha colto come pochi altri avrebbero saputo fare  la valenza del segno luminoso  emergente dai versi, lui che del nutrirsi d’armonie e di poesie d’anima ha fatto il suo modus-vivendi.
Giachery ci riporta dunque inevitabilmente alla poesia e la poesia della Busà al  poeta che lei stessa lucidamente definisce:  “grido di sciacallo, pelle d’angelo, fiore pesto,  infinito barlume  della luce che tocca il mondo”.











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