Il viaggio della
migrante
Sotto le forche dei cuori brulli
ho fatto nei deserti passi tanti
e tanto fitti quanto
della sabbia i granelli.
Una roccia una rena un’onda
un baobab sono madre e padre
elisir nel passo della notte
compassione per le mie ossa.
Di diaspro il viaggio senza carte
a settentrione la rotta dell’azzardo
compagni un sogno chiaro
e un fiume di fratelli temerari.
Aminata mi chiamo e a leggere
sono appena capace.
Leggo le secche delle vostre voci
perché mille maestri il viaggio vale.
Di qua dal mare in altra sponda
morte gore e fosche roccaforti.
Rotolo come un sasso
rea d’inceppare l’ingranaggio.
Io la vessazione sfacciata
voi l’evaporabile commozione
io la sventura innominabile
voi la dismisura e l’amnesia.
Africa mia, madrematrigna,
pure se mi lasci alla deriva
in una marziale geografia
a te s’affretta un pensiero di figlia.
Leggete. Leggete dalla mia bocca
quel che conto e poi leggete ancora
i miei indivisi mari interni
sigillati da siepi di silenzi.
Al luogo della mia nascita
Mi verso nella terra d’un tempo.
Mi scrivono linde colline
che senza compenso
fanno
l’Appennino vasto e
felice.
Mi scrivono: della gente
sanno
i sassi cinquant’anni
d’esilio.
Di sale sa chi solo è
rimasto.
La macchia, cattedrale
materna,
alberi allatta di mele
cotogne,
di ghiande, di noci e di sorbe.
Mi scrivono
allodole,
passeri e audaci pettirossi,
antichi cucchi e isolati assioli:
benedetta sia la
sorte
eccellente è
l’umore,
malgrado le irruzioni
infestanti dei cacciatori
molto bardati, molto
tapini.
Di buon grado falchi e
sparvieri
- da sempre sentinelle devote
-
ci assistono dai campi dei
cieli.
A distanza d’un paese di
fiamma
che corre come celeste cometa
la cifra rinasce e la
grazia
d’una stillante
malinconia.
Alla terra che resta
regale
nel mio sangue, alle madri, ai
padri,
alle genti, agli alberi, agli
animali
si dia questa lettera
d’amore,
faro in forma di fiore e di
fuoco
nel fiordo ferito della
memoria.
Da donna cerco parola
Da donna cerco parola più o
meno
come nel campo la nonna
cercava
tra mala erba la cicoria per
cena.
La nonna, a campare dannata
com’era,
tra bocche di figli affamate,
animali,
marito e terra da zappare, la sera
nel letto di foglia, con grazia, a
fatica
gesummaria diceva. Ed era
poesia.
Da donna cerco parola nel
tempo
di un pensiero di guerra
assiderato.
Foreste risolute, campi dai
solchi
ben arati, vigne e pendii di
grano
assolato, i vicini e i lontani,
- compresi gli assenti - tutti
s’adoprano
a parlare molte parole che
serbo
e misuro come fiori a me
cari.
Ma la sera da me volan
via.
Senza compagnia così
resto.
Alla notte che
viene
quasi non dico
gesummaria.
Nota biobibliografica
Annamaria Pambianchi proviene da una formazione
storico – letteraria ed è stata insegnante nei corsi di scuola
media per adulti. Accanto all’insegnamento, si è occupata di ricerca
storiografica e ha pubblicato saggi
intorno alla storia locale. Ha scritto numerosi testi di poesia, molti dei
quali premiati ed apparsi in antologie di premi letterari. Ha vinto diversi concorsi letterari.
Ha pubblicato nel 2008 “Sull’orlo del mondo”, una raccolta di testi presso l’editore Lietocolle. Ha tenuto dei reading presso la biblioteca civica Sabbadino, per la rassegna Inchiostri (2005) ed in altri luoghi di ritrovo
di Chioggia (2009); nel dicembre 2008 a Roma in occasione della Fiera della
Media e Piccola Editoria e infine a
Verona presso la Libreria Bocù nel marzo 2011. A Chioggia organizza
e conduce corsi di letteratura e di scrittura.
Nessun commento:
Posta un commento