PRESENTAZIONE L’APE E IL CALABRONE
DI CARMELO CONSOLI
Benvenuti a tutti e
grazie di essere qui.
L’opera, sulla quale questa sera vengo
invitato (e ne sono onorato) a relazionare, appartiene ad un poeta vero; e non
lo dico soltanto perché Carmelo Consoli è una delle voci più persuasive e ormai
consolidate del panorama poetico contemporaneo quanto - e maggiormente -
perché, con la stesura de L’ape e il
calabrone, egli dà prova inconfutabile dell’autenticità con cui, nel suo
profondo, scaturiscono i versi.
Per intenderlo compiutamente, però, è
necessario rifarsi alla genesi del libro; la raccolta nasce dal dramma di un
lutto flagellante: la perdita di Franca, l’adorata consorte del poeta, Zoe:
l’ape che “nacque in una culla di papavero rosso all’ora che la cicala si sgola
e le lucertole giocano a nascondino. . . nella ridente terra di Romagna”.
È, dunque, una storia triste quella che
ci viene raccontata, una ‘via crucis’ contrassegnata dalle edicole degli ultimi
giorni di vita della donna-ape che, inesorabilmente, s’avvia verso la fine; ma
non è sola, a sorreggerle la croce c’è lui, Nerosole, il calabrone-scrittore
che un giorno le parlò “della sua terra di arance e limoni, . . . degli odori
dei gelsomini e dei fichi d’india (di Sicilia)” facendola innamorare.
Poi, venne il giorno del “sospetto”, la
“prima stazione del dolore”: “venne mefitico” il mostro, “senza volto”,
dapprima; quindi - svelato - l’“otto giugno” a dare il via al calvario.
Siamo all’inizio, alla seconda delle due
sezioni in cui si divide la prima parte del testo: non a caso, il Nostro, la
intesta Andante con sgomento, e sarà
bene subito riflettere su questo.
C’è un’indicazione dinamica che non può e
non deve essere sottovalutata: musicalmente parlando, l’andante è più lento
dell’allegretto ma più mosso del moderato. Ciò sta a dimostrare che, pur nella
tragicità del terribile momento della rivelazione, qualcosa - sebbene attutito
- continua a vibrare; e sono suoni emessi quasi in segreto dall’anima. Suoni che,
però, il canto non può non raccogliere: un emistichio de Il sospetto - la lirica di pag. 25 - ne è, a mio parere,
inequivocabile segnale.
Quando Consoli sosta con il pensiero
sulla considerazione dei danni che il male oscuro procurerà all’amata, si lascia
sfuggire (ma meglio sarebbe dire: ci offre) la più grande, la più importante di
queste confidenze: il mostro, nutrendosi del corpo di Franca, le sottrarrà la
possibilità di “essere - ella stessa - mistero nel mistero”.
Ancora ‘in nuce’ ma è questo l’indizio;
ancora non sbocciato ma è questo il fiore dove, infine, l’ape si poserà e
troverà il polline migliore.
Non anticipiamo i tempi, tuttavia. Ora è
il momento di fare naufragio sull’Isola
del male, dove “feroce”, “viscido”, “sanguinolento”, il maligno “(accarezza) con cura i malati, /
passo dopo passo, amorevolmente.”. Ora, altro non si può che ascoltare il
responso, la sentenza dei “bianchi profeti”, bere il fiele e l’aceto delle loro
notizie, aggrapparsi alla stessa, loro impotente speranza.
Ed identificarlo, si, riconoscerlo in
fondo il medesimo male nei musi scuri dei “bufali d’acciaio” che “i neri del
parcheggio” sono costretti a sistemare in fila “dentro savane” artificiali
costruite sull’asfalto: tanto lontane dalla vita quanto dal sorriso di Amir,
dai suoi “occhi di luna”.
Quindi, il Piano, pianissimo, senza respiro che apre la seconda parte: La lista dei progetti del ventuno di
giugno, di chi sa ma non vuole arrendersi; la Preghiera
del ventiquattro al Dio del focolare, al Dio dei campi; il dubbio legittimo
della fede: “In quale lontana galassia piangi / o sorridi per il mio lamento?
Tu dove sei in tanto scempio?; la paura, il senso tutto umano dell’abbandono:
“Non lasciarmi, riportami alla lavanda, / ai gelsomini, alla mia donna ape, /
al suo dolce ronzio negli orecchi. . .”.
L’orlo del precipizio e, dopo: giù,
sempre più giù, fino all’“ultimo giorno”, “l’ultimo sguardo”, “l’ultimo sonno”:
è il primo luglio, la morte arriva a mezzanotte, “al primo nascere del nuovo
giorno, / al primo giorno della nuova vita / al primo soffio dell’eterno
amore.”.
Ecco, è già iniziato Il tempo che verrà: l’ape è “rinata tra le siepi”. “Tutto come
prima / come se la morte / fosse stato uno scherzo” - scrive Carmelo - senza
vaneggiamenti, perfettamente consapevole che l’ora è scoccata: Franca è tornata
in vita perché continua a vivere nel mistero, che altro non è che il mistero di
se stessa.
Adesso si, che il grano è maturo, e il
calabrone può posarsi sulla spiga più alta e dorata, e, da lì, godere del volo
della sua ape innamorata. Adesso si, che, in sogno, può essergli recapitata la
lettera che non si può scrivere né imbucare ma soltanto desiderare: “Ti scrivo
da una luce che non so”; “Ti scrivo dopo che ti lasciai il volto tra le mani /
quella notte d’ospedale; devi sapere ch’ero già volata. . .”; “Ti mando un
bacio che è di Dio / . . . . / Sappi che nulla è cambiato della terra che
sognammo, / lo stesso orizzonte arcobaleno, l’uguale fragranza dei giardini /
c’è nella luce che ora m’avvolge.”.
Quella luce: un luogo e un tempo nuovi,
una dimensione sconosciuta ma nota allo spirito fin dall’origine, nella quale
la maledizione della pena non ha ragion d’essere perché tutto e tutti sono
tornati puri e, dunque, benedetti.
Tutto e tutti sono stati battezzati dal
mistero dell’Amore che - per dirla con Dante - ‘move il Sole e l’altre stelle’.
Com’è facile immaginare, lo stile,
l’aspetto formale rischiano di passare in sottordine rispetto alla rilevanza
dei contenuti, ma non va mai dimenticato quanto - in poesia - il costrutto sia
intimamente legato all’esposizione.
Così - ne L’ape e il calabrone - l’ipermetricità risponde all’esigenza del
verso, che resta comunque libero, di distendersi seguendo il ritmo scandito dal
racconto del cuore (ne è evidentissimo esempio la lirica - sulla quale invito,
chi acquisterà il libro ed avrà la fortuna di leggere queste pagine - a
soffermarsi a lungo) - ne è chiarissima testimonianza - dicevo - Da questo cielo infiniti sorrisi, la
poesia che conclude l’opera.
Ad un racconto: certo - è innegabile -,
alla storia, dettagliatamente riferita, di una tragica esperienza esistenziale
ci troviamo di fronte; senza omettere, però, senza trascurare che il romanzo -
vorrei dire: la fiaba - che stiamo leggendo è un narrato senza filtri, dettato
e trascritto, come si addice alla sana creatività.
Ho parlato di fiaba, suscitando, forse,
in qualcuno delle perplessità. È mia intenzione, quindi - prima di chiudere -
essere ancora più esplicito: dicendo fiaba non pensavo né alla favola né, tanto
meno, alla favoletta, e l’esclusione dell’idea non riguarda neppure - nei miei
pensieri - la mancanza del classico lieto fine, che, invece, c’è ed ha una
letizia infinitamente più grande.
La fiaba - cui mi riferisco - è quella
vera; l’unica dove ad essere protagonisti non sono i principi azzurri e le fate
turchine ma due umili insetti, resi immortali dalla parola poetica: l’ape e il
calabrone che, con il canto di Carmelo, ringrazia Dio per avergli donato
“l’amore tutto e tutto il dolore della terra”.
Sandro Angelucci
Roma, Caffè Letterario
“Mangiaparole”, 14 Dicembre 2013
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